Come un enorme dinosauro a guardia della laguna, la gru gialla si staglia nella luce mattutina. A seconda di come fischiano i suoi cavi, sai quanto vento tira.
E poi la Madonnetta nella sua edicola, certo. Sono i due guardiani del molo. C’è sempre chi ti guarda le spalle. Perché nessuno scende in acqua da solo. Mai.
Una voce riempie lo spazio. Non una ma tante. Un chiacchiericcio fitto quanto un grumo di remi impilati sull’angolo. E quella voce, che è sempre un sorriso. Ogni volta lo penso: come fa? Come fa ad essere sempre sorridente? Ci sono persone che quando entrano in un mondo trovano la loro pace, penso. E questo è il suo mondo. Franco fa balenare il suo sorriso da dietro la porta e conquista il grande spazio pieno di barche impilate, preceduto da quell’odore inconfondibile: una fumante tazza piena di caffè da moka. Santa moka di noi assonnati…
Sono le 8. È fresco. Umido nemmeno a dirlo; qui l’umido è come una carta da parati che riconosci tra mille: è casa.
Siamo in un cantiere nautico, in mezzo a centinaia di barche che ancora dormono. Sono tutte in ordine, tutte in fila, a letto.
Odore di salso, freddo, legno, vernice. E calore umano.
Scherziamo; ci prendiamo in giro. Si ironizza sempre su chi non spinge niente. È come dire: fai finta, ti godi il traghetto ma ti perdi il bello – che è faticare. Si, è vero, suona strano. E’ che vogare è un piacere totale – ed implica sempre una fatica che è parte del godersi il piacere. Sono cose connaturate con il funzionamento del nostro cervello, immagino.
In effetti come si studia la parte del cervello preposta al linguaggio, bisognerebbe anche studiare la parte preposta alla voga – che per noi è il linguaggio del viverci la città.
Un sorso di caffè bollente. Cattivissimo e buonissimo allo stesso tempo. Dev’essere il salso. Lo penso ogni volta.
Guardo fuori, in fondo, verso i suoi bordi; la laguna oggi pare incerta, come indecisa se svegliarsi o meno. Qui davanti al cantiere no; oltre le palancole le onde sono già vivaci. Direi agguerrite. Come sempre. Buon giorno anche a voi barche a motore.
Io e Franco guardiamo l’acqua accanto al palo del pontile: io butto là un “3 nodi”, con aria di sufficienza per darmi arie. Franco approva senza parlare. A guardare il bovoletto sul palo la corrente è calante – e veloce. Ha appena fatto il colmo ed ora se ne va fuori per un po’ di ore. Il vento invece spinge da Burano fino a noi – muro esterno della città che si prende la bora in faccia. Oggi comunque no; niente bora. Il vento però è un nord est comunque. E si fa sentire.
Datemi altro caffè bollente.
Poi si va.
“Hai portato la maglia pesante?”. Se rispondo si, ho sbagliato – oggi non serve; se rispondo di no, ho sbagliato – oggi serve. Così rispondo “non mi ricordo – devo guardare la borsa”. Franco ride. Rido anche io. Lui ha capito che con questa risposta mi evito il suo pippolotto sul meteo. E’ che Franco sa tutto. Lui davvero capisce cosa farà il tempo. Altro che app meteo; il suo è un sapere antico tramandato – e ore e ore, direi anni di vita, immerso nell’ambiente a scrutarlo.
Franco mi sorride. La macchia di caffè sui suoi pantaloni della tuta è opera mia… ma l’ha presa bene; “ho sempre voluto fare un tatuaggio alla tuta”. Andiamo.
Sì, si ride molto in barca. E pure si brontola parecchio… Siamo una squadra – e come una vera squadra attraversiamo e viviamo insieme le forze degli elementi dell’ambiente in cui agiamo; condividiamo la consapevolezza della fatica e della volontà necessaria per compiere i gesti che ti fanno vivere la città: vogare. In barca dobbiamo per forza essere coordinati, attenti gli uni con gli altri. Attenti a tutto; metti il vento, per esempio: il vento in faccia lo prendiamo tutti – ma chi ha il vento sulle forcole fa più fatica… non puoi non saperlo, quando hai un compagno di fatica accanto. Perché si, in barca siamo più attenti, più vivi, più consapevoli. Guardiamo tutto, registriamo tutto. E ci adattiamo, capiamo, facciamo in modo che la barca funzioni. Questo è essere equipaggio.
Tutto questo complesso insieme di cose si traduce in un rumore semplicissimo: sciaf sciaf sciaf… ovvero la cadenza precisa della pala del remo che entra ed esce dall’acqua. E’ il metronomo dei canali, un sentiero di pollicino costellato di bovoletti lasciati nell’acqua ad ogni spinta…
Il muro scrostato dal salso sfila veloce alle nostre spalle. Ora abbiamo accanto solo paline segnate dalla marea; legno lavorato dell’acqua, dal sale e del sole… gli elementi. Ancora e sempre.
Andare con queste barche è essere un tutt’uno con questi elementi. La lettera del pretorio Cassiodoro (537-38) dice bene: un popolo che vive in simbiosi con le proprie barche. “(…) voi che spesso percorrete spazi infiniti”. Così raccontava in una delle prime descrizioni degli abitanti di quella zona d’acqua bassa.
Da un bel po’ quel mondo è diventato Venezia – un nome impegnativo, poco da fare. Ma tutta quella infinita storia e quell’immensa bellezza perde la sua indubbia gravità, semplicemente sfilandoci davanti agli occhi mentre voghiamo lungo il Canal Grande.
Deve esistere sicuramente: la formula che calcola di quanto perde peso un edificio particolarmente bello. Qui da noi sono in parecchi a sembrare leggerissimi. Netwon non abitava da queste parti, altrimenti ora potremmo calcolarlo.
Ma noi ora stiamo andando vero un edificio che leggero proprio non sembra. Anzi. L’idea di chi lo ha voluto e concepito era proprio il contrario: farsi vedere al di là di ogni ragionevole dubbio.
Stiamo andando verso la basilica della Madonna della Salute. Non un luogo qualunque. Quell’ammasso barocco di marmo arricciato è il simbolo di un mistero, è uno spazio di sospensione – e pure di enorme attaccamento.
È un fatto reale dire che noi veneziani, semplicemente, stavamo scomparendo. La peste, si sa, era stata terrificante. Poi, però, si fermò. Cosa la fermò? Oggi potremmo trovare risposte e dati; ragionamenti logici e indiscutibili. Allora, però, la vita era maree, vento, elementi naturali al di fuori del nostro controllo – come le malattie e la morte. Allora la devozione verso una protezione, verso una madre piena di tenerezza e bontà, che proteggesse chi andava nell’ignoto del mare o chi semplicemente affrontava l’ignoto del vivere. Aiutaci, Maria. Madre di tutti. Abbi pietà.
La Madonna della salute è un gigantesco ex voto di marmo. In quel simbolo di speranza, di richiesta d’aiuto, ci si riconosce – come si fa attorno alle bandiere. Noi veneziani sappiamo bene cosa voglia dire quel determinato simbolo. Significa: “siamo ancora vivi”, “abbiamo resistito”. Significa anche (e forse innanzitutto) “ci hanno aiutato” – perché nessuno di noi dimentica la castradina e la sua storia (il montone portato dalla Dalmazia fino a Venezia – preziosa fonte di sostentamento in un momento in cui nessun altro si azzardava ad avvicinarsi alla città morente).
Dunque perché andare, oggi 2023, alla chiesa della Madonna della Salute? Perché è tradizione, certo, con tutto quello che la parola tradizione vuol dire – compreso il rischio dell’uso di termini talmente saccheggiati o usati da venir svuotati di significato. In questo caso tradizione vuol dire l’enorme legame emotivo e affettivo con un modo di essere. Perché noi, come ci descrisse allora Cassiodoro, siamo effettivamente, e ancora, un popolo d’acqua. Ancora, certo. Perché (per fortuna) non hanno (ancora) asfaltato i rii e non hanno (ancora) trasformato la laguna in un parcheggio per macchine e bus.
Gli altri, quelli che non vivono questa realtà fatta di calli impraticabili per fiumane di turisti fermi come statuine in mezzo al mare, di acqua che a volte sommerge il passaggio e obbliga a giri lunghi, di carretti pesanti della spesa da portare, di bambini da far giocare nei campi ingombrati da plateatici selvaggi, di attese infinite e gelide negli imbarcaderi abbandonati al mistero di battelli che non arrivano o arrivano strapieni… ecco, chi non vive tutto questo non sa. O sa e fa finta dei pomi, come se fare il furbo fosse una coccarda da appuntarsi nel petto tronfio. Ma noi, noi umidi, sappiamo.
Perché noi in mezzo al casino ingovernato, alla gara alla prepotenza, al malgoverno e all’approfittarsi senza ritegno della ricchezza del passato, noi in mezzo alle mancanze ci viviamo. Ma la nostra quotidianità è piena pure di bellezze, di unicità reali, di modi di vivere unici e perfettamente a misura d’uomo e d’ambiente. Noi in mezzo all’acqua ci viviamo. Sempre. E si, tutto quel casino continua a valer la pena: è casa nostra, sappiamo che c’è tutto questo – così come chi vive in alta montagna sa che il ghiaccio ad un certo punto rende difficile ogni cammino.
Ma la slavina va affrontata. La frana va risolta. La collina va curata. E qui, da noi, la prepotenza deve finire. Il far west non ha più l’orizzonte pietroso del Gran Canyon, ma la linea indefinita della laguna che scolora nel cielo. Quello è l’unico indefinito che ci piace.
E dunque si, questo abitante particolare, questo essere del popolo d’acqua, vive davvero la propria città. Non ne è spettatore o bigliettaio o venditore all’asta; è abitante.
Queste barche sociali, soprattutto in queste occasioni, sono il vero vestito di questo abitante – sono il continuare a vivere attraverso l’acqua il senso del come siamo, della storia che sfila davanti ai nostri occhi mentre voghiamo, il senso del nostro essere, ora e per sempre, così strani.
E dunque ecco perché si va, oggi 2023, alla Madonna della Salute. E chi vuole credere nel mistero della fede, ci crede ed è felice di trovare un luogo che ne esalta la grandezza e la forza; chi vuole invece semplicemente vivere il senso profondo dell’essere veneziano, sa che incontra la forza del mistero delle vicende della vita – ma anche il simbolo dell’essere resiliente, proattivo, tenace.
Sopravvissuto, ma vissuto.
Ora. Invece.
Lo sappiamo: siamo minacciati. Questa città è minacciata. Tutto quel casino di plateatici, masse di persone, servizi mancanti… tutto minaccia a morte questo modo di vivere, di sentire l’unione con il nostro ambiente. Perfino i marmi, le nostre fondamenta, le nostre case sono minacciate. L’elenco non è “il solito” – ma è dolorosamente concreto: abbiamo l’esorbitante numero di cinquemila persone a chilometro quadrato (persone mordi e fuggi) che passano sui quei masegni, sui quei ponti e sui quei pontili che noi usiamo per vivere. Ma non basta, non bastano mai questi numeri pazzeschi. Di queste vere e proprie locuste ne arriveranno ancora di più. Ma nemmeno questo basterà a mettere una fine, un basta, un riorganizziamo tutto. Il saccheggio continuerà sotto forma di onde sempre più alte e pericolose, perché bisogna sempre più velocemente strizzare questo affare chiamato Venezia. Ma, ancora e ancora; non basta. Perché lo svuotamento continua. Le persone vanno via. E allora via nomi, sorrisi, voci dalle calli e dai campi; e avanti con altri alberghi, bar, ristoranti…
La razzia continua. Costante come un’acqua alta a cui non c’è Mose da poter opporre.
O forse si.
Forse, in effetti, non c’è argine migliore alla volontà di distruzione della volontà di vita, di costruzione, di esistere non imponendo ma capendo, agendo insieme all’ambiente in cui si vive e non sopra di esso o contro di esso.
Insomma l’antidoto alla peste del soldo che distrugge lo abbiamo in casa: è la fiducia in quel che abbiamo già ricevuto sopravvivendo, e che costruito e ricostruito giorno dopo giorno, grazie al resistere.
Questo fanno i cantieri navali. Questo fa la voga.
Perché questo possiamo e dobbiamo fare noi: restituiamo a questo splendore di città il favore ricevuto occupandoci di esso; accarezzando l’acqua con il remo, facendo vivere i sorrisi nei cantieri, con quell’odore ovunque uguale di moca fumante misto a vernice, a legno, a salso.
Popoliamoli questi posti magici chiamati cantieri. Popoliamoli di chiacchiere, di voci, di nomi. Chiamiamoci come fossimo in calle, in campo, ma saremo dentro un cantiere di una remiera, con un sorriso che invita ad un caffè, magari perfino contenti di esserci macchiati la tuta. Facciamo di ogni cantiere la nostra piazza.
In fondo, dove ci sono le nostre barche c’è San Marco.
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