Il Centro Tedesco di Studi Veneziani [Deutsches Studienzentrum in Venedig] istituzione di studi interdisciplinari, che promuove ricerche nell’ambito degli studi culturali e lavoro artistico sulla storia e la cultura di Venezia e il suo territorio. ha un nuovo direttore, Richard Erkens. Musicologo e ricercatore dell’opera liricamusicologo, Richard Erkens si è insediato ufficialmente il 4 settembre scorso, con una bella cerimonia nell’aula Baratto di Ca’ Foscari. ytali l’ha intervistato.
In Germania ha studiato musica a Bayreuth e a Berlino. Cosa l’ha spinta a occuparsi in modo approfondito proprio della musica italiana?
Ho deciso di studiare musica perché fin dai tempi delle scuole superiori avevo iniziato ad avvertire un certo fascino per il teatro musicale, in tutte le sue forme di rappresentazione storiche e contemporanee. Tale interesse mi ha poi portato all’Università di Bayreuth, dove ho studiato musica e teatro e mi sono specializzato in teatro musicale.
Ovviamente a Bayreuth non si può non pensare a Richard Wagner, ma, ai tempi in cui ero studente, all’Istituto di ricerca per il teatro musicale (Forschungsinstitut für Musiktheater, FIMT) insegnava niente meno che Sieghart Döhring, uno dei principali studiosi di Meyerbeer ed esperto del teatro musicale francese. Fin dai primi semestri sentii, per così dire, un interesse istintivo verso la dimensione europea della storia dell’opera.
Interesse che proseguì anche quando passai alla Freie Universität di Berlino, dove ebbi l’occasione di studiare con Jürgen Maehder, decano del Puccini Research Center, grazie al quale ebbi modo di conoscere soprattutto il panorama della ricerca in Italia.
Capii che lo studio della storia della musica italiana era la chiave d’accesso alla comprensione della storia dell’opera europea in generale. E tra l’altro fu per me motivo di grande gioia quando, dopo aver iniziato i primi corsi di lingua italiana a Bayreuth, riuscii d’improvviso a capire il significato dei versi cantati, ad esempio, di un’aria di Bellini o di Verdi! Dal punto di vista meramente musicale “capivo” già da prima le melodie, ma il significato melodrammatico solo da allora.
La sua monografia è dedicata al compositore Alberto Franchetti. Cosa lo rende, secondo lei, particolarmente degno di nota?
La decisione di fare un dottorato sul compositore, oggi poco noto, Alberto Franchetti (1860-1942) è stata in parte dovuta alla mia diversità di interessi.
Il mio obiettivo era quello di unire una ricerca di base (e una prima analisi) alla discussione di questioni estetiche, tenendo presente sullo sfondo lo sviluppo dell’opera europea dopo Verdi e Wagner.
In quanto compositore di provenienza italo-tedesca e con una formazione spiccatamente “transnazionale”, Franchetti mi permetteva di avvicinarmi a questa tematica da una prospettiva, per certi versi, ancora totalmente “inesplorata”, gettando in particolare lo sguardo a opere che fino al primo conflitto mondiale avevano riscosso successo a livello internazionale, ma che in seguito persero gradualmente sempre più pubblico.
Franchetti risulta un soggetto interessante per la ricerca, se si considera anche solo la posizione di grande prestigio di cui godeva tra colleghi del calibro di Puccini, Mascagni o Giordano.
Per poter comprendere la complessità di un’epoca, non è sufficiente concentrarsi in maniera approfondita solo sui compositori che vengono ancora oggi rappresentati ovunque. Se confrontati con la tradizione storica, sono comunque una minoranza.
Certamente Franchetti non ha esercitato sulla storia della musica un’influenza innovativa. Tuttavia, se si indaga sulle ragioni del suo successo tra i contemporanei e del suo successivo oblio, si ottiene un quadro più preciso della diversità stilistica del periodo del cosiddetto verismo operistico, sviluppatosi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
La musica di Franchetti si distingue per la sua finezza ed eleganza e per l’uso di una sapiente strumentazione. Era un maestro nel creare monologhi narrativi pregni di carica emotiva, meno nel creare conflitti drammatici, anche se questo non si può affermare in generale per tutta la sua produzione.
La rappresentazione più recente di un’opera di Franchetti, vale a dire dell’Asrael (l’opera con la quale aveva debuttato) al teatro di Bonn nell’autunno del 2022, ha reso nuovamente tangibile la ricchezza cromatica del suo linguaggio musicale. (Nel 2010, per l’analisi della partitura nella tesi di dottorato, dovetti utilizzare l’arrangiamento per pianoforte, dato che allora non c’erano registrazioni).
Solo in seguito compresi quanto quest’opera fosse collegata a Venezia, alla città nella quale l’autore era cresciuto; l’estetica neogotica che pervade questa favolosa opera teatrale di portata mondiale, composta nel 1888, respira il medesimo spirito stilistico di Palazzo Cavalli-Franchetti, che il padre aveva fatto sontuosamente ristrutturare poco tempo prima.
Lo scalone d’onore a lato, tra l’altro un capolavoro architettonico di Camillo Boito, “suona” letteralmente come una delle grandi scene d’ensemble dell’Asrael di Franchetti: entrambi sono forme al contempo monumentali e oltremodo essenziali.
Si è poi occupato della figura dell’impresario d’opera lirica nell’Italia del Settecento. Ci sono impresari che meritano di essere particolarmente valorizzati?
La domanda tocca un punto cruciale che si è presentato all’inizio di questo progetto di ricerca; a stento conosciamo i nomi dei molti impresari d’opera che, soprattutto nella prima metà del Settecento, consolidarono la commercializzazione dell’opera in Italia.
In realtà furono niente meno che i “motori” di un’espansione sia interna che esterna della topografia teatrale italiana. La frequenza delle produzioni si intensificò sensibilmente dopo la guerra di successione spagnola, il numero degli edifici teatrali aumentò repentinamente. Nello stesso periodo fiorenti residenze e centri commerciali a nord delle Alpi attirarono cantanti, librettisti e musicisti all’estero, dove venivano loro offerti compensi elevati.
Tutti questi processi non possono essere spiegati senza la figura chiave dell’impresario, ma bisogna precisare che nomi comunemente noti, come Domenico Barbaja, appartengono a un’epoca successiva.
Nella letteratura scientifica il profilo e le funzioni dell’impresario restano ancora sfocate. Viene facilmente scambiato con il proprietario del teatro o con il direttore teatrale. Guardare dietro le quinte del processo di produzione è complesso, perché occorre innanzitutto ricostruire le condizioni generali del singolo teatro per poter poi desumere i meccanismi del personale, la struttura delle relazioni e infine le gerarchie decisionali nelle questioni artistiche e poterli dimostrare sulla base delle fonti storiche.
Le ricerche più datate hanno stabilito il concetto di sistema produttivo italiano; mi baso, mutatis mutandis, sul modello della figurazione (di Norbert Elias) per tentare di ricostruire le interdipendenze “asistematiche”, irregolari e costantemente mutevoli nel quotidiano storico della produzione.
La mia personale esperienza teatrale mi ha aiutato in questo; a teatro non c’è quasi mai una quotidianità lavorativa “sistematica”, nemmeno se viene posta come obiettivo.
Se si esaminano i contratti di locazione manoscritti, le “scritture” con i cantanti, compositori e pittori di scena o i libri contabili e le ricevute di pagamento (finora pervenuti), emergono chiaramente nomi e funzioni (tra cui, tra l’altro, anche numerose donne!).
Particolarmente influenti a Venezia furono, tra gli altri, l’ancora poco studiato Giovanni Orsatto (figura modello nella celebre satira Il teatro alla moda del 1720 di Benedetto Marcello), l’altrettanto poco delineato Michele Grimani (il quale non fu solo proprietario di teatri, ma anche dirigente dei processi operativi di produzione), nonché un certo Prospero Olivieri il quale, operando in diverse città, contribuì in modo determinante alla diffusione dell’opera buffa negli anni Cinquanta del XVIII secolo. Ritengo invece che sia risaputo il fatto che Antonio Vivaldi incarnasse l’archetipo moderno dell’artista-impresario.
A Roma ha lavorato come collaboratore scientifico presso l’Istituto Storico Germanico (Dipartimento di Storia della Musica). Cosa ha reso proficuo il suo lavoro e il suo soggiorno nella capitale d’Italia?
I cinque anni all’Istituto Storico Germanico di Roma, con la sua leggendaria Biblioteca musicale, mi aprirono due prospettive importanti per il futuro: potei tornare allo studio scientifico, dato che prima ero stato attivo a livello cosiddetto pratico per quattro stagioni come drammaturgo e vicedirettore d’opera al teatro cittadino di Lubecca.
Il 2015 fu anche l’anno in cui iniziai il progetto per l’abilitazione sugli impresari d’opera italiani; la mia esperienza sul campo si rivelò quindi in parte spendibile anche per le ricerche storiche.
Quando, presso gli archivi del Tribunale Civile di Roma, ritrovai dei vecchi documenti riguardanti faccende quotidiane nei teatri italiani (richieste di cachet alti, partiture smarrite, solisti non arrivati in tempo, problemi nel trasporto degli strumenti, librettisti irritati ecc.), mi ricordai di alcune situazioni di conflitto che io stesso avevo vissuto.
Nello specchio della mia esperienza nella produzione dell’opera, il passato riviveva vividamente. Dopo aver ricostruito tali scenari di conflitto con l’aiuto della fantasia, dai documenti d’archivio è stato possibile esaminare le varie soluzioni che venivano di volta in volta adoperate nel quotidiano storico del teatro affinché il sipario potesse finalmente alzarsi alla prima. L’accesso agli archivi mi fu di grande aiuto, anche se la prosa scientifica contenente i risultati della mia ricerca non è di certo divenuta un romanzo storico.
So che proprio a Roma è andato spesso all’opera. Immagino che abbia fatto altrettanto in altre città italiane. Cosa apprezza in particolare delle messe in scena nel Bel Paese?
Il momento! O meglio: la magia improvvisa scaturita da un momento di perfezione raggiunto nell’opera, che proprio non ci si aspettava.
Non è mai possibile predire l’esito di una messa in scena, in nessun Paese. Ma nelle rappresentazioni operistiche italiane ho vissuto momenti di incomparabile coinvolgimento, nella sinergia tra canto, scene, orchestra e pubblico, che non ricordo con la stessa intensità nei teatri a nord delle Alpi.
Sicuramente si tratta di un’impressione molto personale, ma si è spesso confermata in altre serate d’opera a Napoli, Roma, Milano o Venezia. Durante, ad esempio, un particolare passaggio solista o una scena drammatica, si crea in sala e tra gli interpreti una sorta di atmosfera di concentrazione alta che per alcuni istanti sembra dominare completamente tutte le persone presenti.
È sorprendente poi come questa tensione collettiva spesso svanisca rapidamente e quasi mai si estenda per un atto intero, tanto meno per un’opera intera.
In Italia, la dimensione sociale del teatro, incarnata nel pubblico in sala, diventa ben presto autonoma, acquisisce vita propria e separa gli spazi della concentrazione, invece di convogliarli, alla fine, in un unico punto.
Ma quando questo riesce per un momento, è indimenticabile e ci si scorda di tutto il resto. Lo si può paragonare all’esplosione gustativa che di colpo si genera quando si assapora un caffè perfetto, esplosione che spunta sul momento e poi svanisce: lo stato d’animo pressoché omogeno derivante da un tè nero non è quello che avverto durante le rappresentazioni operistiche italiane.
Per quale motivo ha fatto domanda per una borsa di studio proprio a Venezia, al Centro Tedesco di Studi Veneziani?
Per le mie ricerche sulla storia dell’opera italiana, la prossimità alle fonti storiche è stata ed è tuttora di fondamentale importanza. Per il dottorato di ricerca su Franchetti, nel 2007 dovetti consultare l’archivio privato di famiglia e cercare appunti ed “Ego-Dokumente” (testi privati come lettere e diari) in diverse biblioteche e archivi; nessuno lo aveva fatto prima d’allora.
Lo stesso vale per lo studio sugli impresari; in questo caso le fonti storiche sono ancora più sparse, al punto da dover procedere letteralmente come un esploratore, andando alla ricerca delle tracce di rappresentazioni teatrali storiche tra la foresta vergine dei manoscritti conservati presso gli innumerevoli archivi notarili e familiari, ritrovando poi all’improvviso qualche nuova fonte.
In questo modo, a titolo d’esempio, a Roma rinvenni un contratto di Antonio Vivaldi. Per questo tipo di ricerca, un’infrastruttura solida di finanziamento alla ricerca è di straordinaria importanza.
Un pregio che il Centro Tedesco di Studi Veneziani possiede senza eguali. Inoltre, l’istituto è ubicato in una posizione centrale che consente un lavoro in loco sulle fonti a tutti i settori di ricerca: una forma di finanziamento più efficace è quasi impossibile.
In più, ero attratto, ovviamente, dalla possibilità allettante di conoscere ed eleggere la città lagunare a luogo di vita e di lavoro quotidiani, un grande privilegio di cui sono fermamente convinto.
Solo una volta approdato all’istituto, ho poi scoperto che il Centro di Studi è anche un luogo vivace e un crocevia mirabile di artisti, nonostante l’accesso tortuoso attraverso la Calle Corner, e che la grande terrazza affacciata sul Canal Grande esercita un effetto ammaliante su molti personaggi carismatici.
Ha poi deciso di tornarci, come direttore. Perché?
La carriera accademica è caratterizzata da un’elevata flessibilità, non solo per la mia generazione. Fino al conseguimento dell’abilitazione, e spesso anche dopo, i contratti a tempo determinato sono diventati la norma, una tendenza estremamente problematica.
Pertanto, che lo si voglia o meno, si è costretti a un perpetuo carosello di candidature. Quando lessi il bando di Venezia, ero da poco assistente di ricerca alla Humboldt-Universität di Berlino e non ho esitato un secondo a presentare la domanda a Venezia.
In quanto ex borsista, conoscevo il Centro Tedesco nonché il suo complesso archivistico e museale. Anche se la mia conoscenza del luogo e delle sue fonti ha ovviamente ancora un ampio margine di accrescimento.
La motivazione era dunque forte, e la possibilità di vivere e lavorare per alcuni anni a Venezia presso un’istituzione di ricerca unica nel suo genere e contemporaneamente hotspot comunicativo dello scambio culturale tra Germania e Italia è una domanda che non richiede una risposta, si risponde da sé. Ciononostante rimasi sorpreso quando mi fu sottoposta l’offerta; dopotutto, qui si candidano colleghi e colleghe altamente qualificati di tutte le discipline storiche e che si dedicano alla ricerca su Venezia.
Per l’incarico che ha appena assunto al Centro Tedesco di Studi Veneziani propone un programma che definisce “Leitmotiv”, uno stimolo che si presta a essere sviluppato e rappresentato in tutte le forme d’arte e a cui dà il titolo “Widerspiegelungen – Rispecchiamenti”. Cosa l’ha ispirata?
Per un’istituzione che, come nessun’altra, sostiene, attraverso l’assegnazione di borse di studio in presenza per la ricerca artistica e scientifica, una gamma vastissima e variegata di persone e progetti, ho ritenuto importante formulare una proposta di carattere dialogico e di collegamento.
Non si tratta di privare i singoli progetti della loro autonomia, bensì concorrere a trovare un denominatore comune e promuovere così la comunicazione interdisciplinare.
Tale intento attraversa, per così dire, le nostre discussioni come un “Leitmotiv”, rivestendo il ruolo di motto in primo piano e di spunto di riflessione in secondo.
Inoltre, descrive la duplice rifrazione del lavoro degli e delle artisti/e degli e delle studiose, che consiste dapprima nell’appropriazione delle immagini riflesse (attuali, storiche o metaforiche) di Venezia in maniera creativa o con un particolare interesse conoscitivo; e nella successiva realizzazione di un’opera d’arte o pubblicazione di uno studio sulla città, che rispecchiano il secondo riflesso di questa rifrazione.
Riflessione intesa come la quarta tecnica culturale, come mezzo di trasmissione, per ricorrere alle parole di Slavko Kacunko, esperto di teoria dei media. Oppure per dirla, più o meno liberamente, come il semiologo Umberto Eco: lo specchio inteso come strumento di ausilio all’ampliamento della visione umana.
Si rimane inesorabilmente colpiti dal fatto che l’espansione o l’ostacolo a nuove vedute dipendano dal costante mutamento della prospettiva e, ugualmente, dal grado di purezza della superficie riflettente.
Trasposto sul piano della ricerca, ciò significa interpretare la fonte storica quale specchio che riflette lo spazio virtuale del passato. Disposizione, combinazione e potere riflettente delle fonti diventano in questo caso fattori determinanti nell’acquisizione di potenziale di conoscenza.
Durante i miei studi, tali questioni mi hanno sempre interessato, ma solo ora ho avuto la possibilità di concretizzarle.
A fungere da tramite sono stati i “miei” impresari; ai tempi di Goldoni, Antonio Codognato fu una figura di centrale importanza nel panorama veneziano e apparteneva alla corporazione degli “specchiari”. Inoltre, era forse il più creativo degli impresari per quanto riguarda la produzione di opere sperimentali, in quanto realizzava scenografie fisse all’interno delle quali inseriva anche degli specchi.
Oggi le definiremmo installazioni spaziali, e come tali erano percepite già all’epoca. Il progetto che mi sono prefissato di realizzare durante gli anni di incarico veneziano indagherà appunto questi fenomeni creati dallo specchio sul palcoscenico dell’opera. L’idea di abbozzare un “Leitmotiv” ampliato anche per il Centro Tedesco era, per così dire, ovvia. Le riflessioni che mi sono giunte, tramite conversazioni, da più parti mi dimostrano che tale tema è ancora attuale.
Lei afferma che “Chiunque venga a Venezia e inizi a esplorare l’intreccio labirintico di canali, calli, chiese e palazzi, si relazionerà con sé stesso in modo del tutto nuovo” e attribuisce questo fenomeno alla capacità della città di “specchiarsi in modo poliedrico come nessun’altra città”. In Italia vi sono molte città antiche, città d’acqua con centri storici percorsi da numerose viuzze, dove il visitatore si può sentire disorientato. Cosa distingue la città lagunare dalle altre città?Fondamentalmente Venezia si distingue dalle altre città labirintiche e d’acqua italiane per la sua posizione isolata nel mezzo di una vasta laguna. Questa delimitazione naturale ostacola l’accessibilità alla città, raggiungibile dalla cruna dell’ago del Ponte della Libertà o di Piazzale Roma o da un viaggio di oltre mezz’ora in traghetto.
L’ampia soglia, quasi come un lungo passaggio da dover superare prima di arrivare a Venezia, sortisce un qualche effetto su tutti i visitatori.
Ci si ritrova catapultati in un cosmo conosciuto o sconosciuto, con la consapevolezza che non si potrà facilmente uscirne. In altre città con centri storici tortuosi si ha quasi sempre la possibilità di tornare oltre le mura della città in pochi minuti a piedi per riprendere la propria auto, talvolta parcheggiata dove capita, e in poco tempo andarsene.
Ma questo non si può fare a Venezia. Inoltre, occorre tenere conto della configurazione spaziale di questo “altro mondo”: destreggiarsi tra i sestieri, sapersi muovere tra le sinuosità del Canal Grande e infine familiarizzare con i contrassegni principali dei campi e delle chiese sono compiti che Venezia tacitamente e ineluttabilmente pone a tutti i suoi visitatori.
Non esiste oggi un’altra struttura urbana paragonabile, per quanto io ne sappia (forse sarebbe paragonabile alla prima impressione che si prova di fronte alla città azteca Tenochtitlán, oggi distrutta?).
Questa peculiarità veneziana la trovo unica nel suo genere, in altri termini: non si può essere a Venezia e dimenticarsi di essere in questa città. Mentre in grandi città moderne e uniformate questo è senz’altro possibile. Ma a Venezia assolutamente no; i ritmi della mobilità, ad esempio, sono diversi, i ponti, i percorsi pedonali e d’acqua comuni obbligano a una sorta di motricità “endemica” dello spostamento e a un patteggiamento di privilegi e concessioni nel momento in cui si deve attraversare un ponte sovraffollato o un “sotoportego” in un ingorgo di passanti.
Anche il clima all’interno della laguna è dotato di proprio potere atmosferico, che impressiona il visitatore e gli riserva sorprese microclimatiche: se in una calle fa umido e c’è l’odore di muffa, in quella a fianco invece fa secco e c’è un buon profumo.
Anche il tanto criticato turista giornaliero di Venezia si rende inevitabilmente conto che questa città esige qualcosa da lui, consapevolezza data anche solo dal fatto di vedere sconvolte le proprie abitudini e comodità e di non essere per niente in grado di comprendere, durante la breve visita, la complessità dell’“organismo Venezia”.
Per tale motivo ritengo particolarmente icastica l’immagine di Venezia, nella percezione tanto dei turisti quanto di chi la vive tutti i giorni, quale città generante specchi nei quali soggetto e oggetto coincidono: uno specchio, talora critico, della propria sensibilità e delle proprie presunte certezze.
Cosa avviene, secondo lei, in chi “esplora” Venezia? La visita della città porta a un rinnovamento solamente delle persone particolarmente sensibili o anche nel “turista mordi e fuggi” che, dopo una passeggiata tra le calli della città, si “tuffa” nella movida?
A Venezia ci si rende appunto conto del fenomeno globale dell’overtourism. Anche il turista “mordi e fuggi” che si limita all’immagine superficiale e commerciale di Venezia, che cammina per le vie più frequentate, passando poi davanti alle vetrine di dolci industriali scenograficamente allestite, e infine si reca a Piazza San Marco solo per guardare i piccioni e la loro voracità fotogenica, sentendosi sopraffatto da un’inspiegabile gioia di fronte a questa vista (e forse nemmeno ricorda il nome della chiesa che ha davanti o il motivo per cui ci sia una coda a un ingresso) sì, anche questo tipo di turista ha la possibilità di percepirsi in modo differente, sebbene allo specchio di un’esperienza così negativa di Venezia.
Qual è stata la mia prospettiva di un giorno sulla città? Cercavo assolutamente qualcosa in questo fragile spazio culturale e vitale di cui tutti mormorano la prossima scomparsa? Ero in grado di entrare nel suo spazio di riflessione con apertura mentale e concentrazione, oppure volevo solo farmi il selfie con il Ponte dei Sospiri?
Sorprendentemente, davanti agli “specchi di Venezia”, molti riescono a tenere il sipario abbassato. Questo però non implica che non diventino parte delle dinamiche degli specchi e dei riflessi. A Venezia, la conformazione della nostra società ci salta subito agli occhi, quasi alla stregua di un riflesso abbagliante. Mantenendo la metafora ottica, Venezia è una lente che opera la convergenza di problematiche globali e fenomeni sociali.
Sulle punte delle bandiere situate sulla terrazza della sede del Centro, Palazzo Barbarigo, ha messo uno specchio rivolto verso il Canal Grande. Perché ritiene importante un rispecchiamento che può essere colto dalle imbarcazioni di passaggio, quando il tempo è bello, e fruito per un lasso di tempo estremamente breve?
Sarei lieto se, col tempo, si diffondesse la notizia che sulle punte delle tre bandiere installate sulla terrazza della nostra sede sono presenti tre specchi. Alle tantissime persone che ogni giorno passano col vaporetto davanti al Centro Tedesco di Studi, volevo assegnare un compito di osservazione!
A coloro i quali, di fronte a un luccichio fugace, subito commentano: “Ma non era poi così spettacolare…”, suggerirei quantomeno di adeguare le proprie aspettative, in modo da non rimanere delusi.
Tuttavia, sussiste la possibilità, non infondata, che a Venezia un viaggiatore di colpo veda una sua immagine, tra le tante che ha a casa, intersecata da un raggio di sole (riflesso dai pennoni del Centro di Studi) del quale non si era accorto.
L’intento è quello di creare un enigmatico gioco con il Leitmotiv “Widerspiegelungen – Rispecchiamenti”, niente di più, ma neanche di meno. E di mostrare come ogni riflesso, anche quello più effimero, sia sempre dipendente dalla presenza dell’osservatore nonché dalla mutevolezza del suo punto di vista (della quale si occupano, nel nostro caso, i gondolieri e lo staff sul vaporetto di ACTV).
L’artista normalmente stupisce il fruitore. Tuttavia, immagino che lei nutra delle aspettative nei confronti di chi sta lavorando al tema. Ce le può spiegare?
Le artiste e gli artist che vivono al Centro Tedesco di Studi e a Venezia per tre mesi come borsisti lavorano liberamente ai loro progetti, così come le studiose e gli studiosi.Il Leitmotiv che propongo non deve in alcun modo limitare la loro libertà; l’obiettivo è se mai quello di indurre una domanda su questioni relative alla percezione, alle possibilità conoscitive e al potere riflettente di Venezia e di stimolare nuove scoperte anche negli studi da loro condotti.
Durante i primi mesi del mio incarico al Centro Tedesco di Studi tale intento mi ha condotto verso prese di coscienza interessanti e inaspettate: la compositrice Clara Maïda, ad esempio, per la sua nuova composizione si sta avvalendo anche di fotografie raffiguranti gli specchi d’acqua riflettenti dei canali veneziani, i quali assumono una configurazione visiva simile a tessere di mosaico.
E nelle arti che si sviluppano con il tempo, come per esempio la musica o le videoproiezioni , anche i loro riflessi vanno collocati sull’asse diacronico, come mi aveva spiegato l’ex borsista e compositore Martin Daske alla luce dei suoi studi.
Gli artisti stupiscono i fruitori, su questo non c’è dubbio.
I progetti degli studiosi e delle studiose finanziati/e dal Centro di Studi non sono meno interessanti; non solo gli studi che si occupano del mestiere dello “specchiaro” e del vetraio a Venezia sono fonte di nuovo apprendimento.
Dietro ad alcune studiose e ad alcuni studiosi si celano anche talenti artistici, in quanto capaci di riconoscere con sguardo nitido gli innumerevoli riflessi, tanto stupefacenti quanto inaspettati, della Serenissima e di includerli nelle loro dissertazioni.
Proprio per questo motivo nessun termine mi sembra più appropriato di “rispecchiamenti”, che allude, dal punto di vista linguistico, a specchi (e riflessi), reali e metaforici, moltiplicati.
Traduzione di Silvia Capua
L’articolo La Germania s’affaccia sul Canal Grande. Intervista a Richard Erkens proviene da ytali..