Il testo Meloni di riforma costituzionale non è certo una novità. Ricorda molto da vicino la riforma fatta approvare da Silvio Berlusconi nel 2004. E prima che qualcuno protesti, dico subito che invece la maltrattata riforma Renzi-Boschi non modificava per nulla le norme costituzionali relative al governo.
Ci sembra quindi utile iniziare dalla riforma Berlusconi, che modificava sotto più profili la seconda parte della Costituzione italiana, segnatamente nella forma di governo. Il testo introduceva quello che un insigne costituzionalista, Leopoldo Elia, ha chiamato il “premierato assoluto”. Altri aveva proposto invece il metodo “tedesco” della “sfiducia costruttiva”, che, se adottato, avrebbe impedito sia la crisi del primo governo Berlusconi (1994), sia quella del governo Prodi (1998).
Quel disegno di legge costituzionale prevedeva l’elezione a suffragio universale del capo del governo, chiamato primo ministro, insieme con l’elezione dei deputati, mediante collegamento ad un partito o coalizione di partiti, che avrebbero costituito la sua maggioranza. Il premier così eletto non avrebbe chiesto la fiducia, ormai superflua, delle Camere, ma avrebbe potuto essere da queste sfiduciato. Avrebbe potuto porre la questione di fiducia per far approvare una propria proposta. Se il premier eletto fosse stato sfiduciato, il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il sistema sottraeva di fatto il primo ministro ad ogni verifica fiduciaria da parte della sua maggioranza per cinque anni, dandogli un potere di vita e di morte sulla camera politica, mediante appunto la posizione della questione di fiducia.
È onesto dire che le idee di riforma costituzionale si inserivano in un clima che aveva chiesto (con i referendum sulle leggi elettorali del 1993) maggiori poteri di scelta per i cittadini, nuovi spazi per incidere. Senonché alla richiesta di una cittadinanza più attiva quella riforma rispondeva passando dalla delega ai vertici dei partiti (di fatto fin lì i domini delle decisioni rilevanti) a quella illimitata ad una persona sola: i cittadini avrebbero trasferito a lui o a lei la loro sovranità.
Poiché quella legge di revisione costituzionale era stata approvata, non con la maggioranza dei due terzi, ma con la sola maggioranza assoluta dei membri del Parlamento, si era aperta la possibilità di chiedere lo svolgimento del referendum confermativo. Il 25 e 26 giugno si tenne il secondo referendum confermativo nella storia repubblicana, avente ad oggetto la riforma. Il referendum vide la prevalenza dei NO con il 61,29%, e un’affluenza alle urne pari al 52,46%.
Ora la proposta di riforma Meloni per quanto riguarda la sua essenza, la forma di governo, è molto simile a quella Berlusconi di allora.
Elezione diretta del capo del Governo o Primo Ministro non con elezione separata, ma all’interno della maggioranza parlamentare: “elezione del Primo Ministro con la sua maggioranza”. Se sei eletto dal popolo – e per qualche ragione non riesci a governare – è al popolo che occorre nuovamente appellarsi, non potendo l’assemblea (il Parlamento), pur rappresentativa, sostituirsi ad esso.
In entrambe le proposte, Berlusconi e Meloni, il Parlamento deve mandar giù tutto quello che passa il governo, a meno che non sia disposto a farsi sciogliere, e tutti a casa. Un eroismo raro, in politica (e anche nei consigli comunali, che funzionano alla stessa maniera; ma i consigli comunali non fanno leggi, non modificano la Costituzione, non dispongono della nostra vita; dati i modesti poteri dei consigli comunali, l’autoritarismo del governo locale può essere considerato un danno collaterale).
Non c’è nulla di male nell’adottare la “democrazia di mandato”, cioè la scelta della maggioranza da parte dei cittadini che votano. Ma perché questa scelta sia coerente con l’irrinunciabile dose di divisione dei poteri richiesta da una democrazia, occorre sganciare il governo dal Parlamento e costringere il Premier eletto a fare i conti con un Parlamento che egli non può domare con il voto di fiducia o con il potere di scioglimento.
A questo punto qualcuno, istruito, dice: ma anche nel Regno Unito c’è il governo del Premier, senza nessuno scandalo. Già, ma c’è una differenza essenziale. In quel sistema il potere del premier non si basa affatto sull’investitura diretta da parte dei cittadini – che vale per il solo Parlamento – ma sulle decisioni politiche delle Camere, che possono nominare e revocare il primo ministro e tutti i ministri, e quindi sui partiti che siedono in Parlamento. Il premier viene incaricato in quanto segretario, leader del partito che ha vinto le elezioni, non in quanto eletto direttamente. Se quel leader perde la fiducia del suo partito, può essere sostituito come premier senza passare per nuove elezioni. È accaduto a Margaret Thatcher, sostituita da John Major, e non solo a lei.
Naturalmente con l’elezione diretta del premier non occorre modificare le norme relative agli atti che deve compiere il Presidente della Repubblica: possono rimanere tali e quali, pure formalità prive di qualsivoglia potere discrezionale.
Detto questo, cioè l’essenziale, che in questo progetto i cittadini sono liberi soltanto il giorno in cui votano, e prigionieri in tutti gli altri, se il progetto Meloni venisse approvato dalle Camere e dall’inevitabile referendum, potrebbe funzionare?
Qui occorre dire che le intenzioni dei promotori sono quelle di cui sopra si è detto. La realtà potrebbe essere diversa. Il testo ha delle debolezze e delle contraddizioni. Prevede che il capo del governo possa essere persona diversa dal “Presidente eletto”, purché della stessa area politica e impegnato ad attuare lo stesso programma. Una previsione di piccolo ribaltone. Non impedisce che partiti inizialmente contro entrino nella coalizione di governo. Il premier non può far dimettere un ministro. Il Presidente della Repubblica che li nomina può interferire nelle scelte. E simili. Riforma timida ed ipocrita, è stato detto. La coesione tra sistemi di partito – necessaria anche in questa formula – non si crea per legge, neppure sempre con un premio di maggioranza.
Aspetti di critica irrilevanti, non soltanto perché potranno certamente essere introdotte correzioni, ma soprattutto perché ciò che interessa è comprendere e rifiutare lo spirito di questa proposta che rovescia la democrazia parlamentare in cui siamo vissuti fin qui, con lo sbandierato obiettivo di conferire maggiore stabilità ai governi. A questo scopo si poteva utilizzare la sfiducia costruttiva, pensata apposta per i sistemi parlamentari. O altre tecniche meno invasive.
E poi, qui e oggi, serve veramente rafforzare il governo? La Presidente Meloni non dice sempre che governerà per cinque anni? E in grazie a che cosa?
Alla coesione – almeno fin qui – delle forze politiche che l’hanno sostenuta e al sistema elettorale, un sistema maggioritario che con l’uninominale a unico turno premia appunto la coesione.
Forse che serve domare il Parlamento? Nell’attuale Parlamento è vivace l’iniziativa legislativa indipendente dall’indirizzo politico del Governo? No, il Parlamento si limita a ratificare le proposte del Governo.
Vedete, non occorre modificare la Costituzione. E i cittadini lo capiranno. Quindi occupiamoci dei tentativi di Meloni di ottenere un governo autoritario autosufficiente, ma con moderazione: non andrà a finir bene, e ci distrae dalla sua politica economica, ben altrimenti rilevante e nociva.
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