
Che ne è del Nordest, diventato un’espressione-logo dai molteplici significati? Produttivi, economici, sociali, di organizzazione del territorio e dei suoi servizi, financo politici, visti attraverso il caleidoscopio della cosiddetta “locomotiva d’Italia”, che tutto traina, coinvolge o travolge nel suo percorso d’innovazione, uomini e donne compresi.
“Ma come si fa a parlare di Nord Est? Ha ancora senso?”, s’è chiesto il filosofo veneziano Massimo Cacciari nel rispondere a una domanda de la Nuova Venezia il 3 novembre scorso, in un’intervista pubblicata nel giorno d’esordio della nuova compagine editoriale – la Nem, Nord Est Multimedia – proprietaria del quotidiano lagunare e titolare anche di altre cinque testate, patrimonio acquisito proprio da un nutrito pool di imprenditori nordestini direttamente dalle mani di Gedi di John Elkann (la Repubblica, la Stampa, Il Secolo XIX e molto altro ancora). Che, a propria volta, l’ha ereditato dall’ex Gruppo Espresso nel quale era confluito provenendo dal suo fondatore, il principe Carlo Caracciolo, il principale ideatore della stampa locale in era moderna, oltreché degli stessi L’Espresso e la Repubblica, a partire dalla fine degli anni Settanta.
Stando a Cacciari, quelli del Nord Est originario e al tempo stesso originale “erano altri tempi, altre logiche”. Perché con questo termine “si intendeva una cosa diversa” mentre “oggi il significato è cambiato” in quanto, in origine, “c’era l’idea che lo Stato si potesse riformare in senso autenticamente federalista” e non come “una rivendicazione di stretta autonomia territoriale ma un’ipotesi, una linea culturale prima ancora che politica, per una riforma complessiva delle istituzioni”. Era, allora, il “modello catalano”.
Insomma, si tratta di “un’epoca passata”, la cui parola “fine”, secondo Cacciari, sarebbe stata messa proprio dalle “testate del Gruppo Repubblica”, che “certo non aiutarono la causa”. O che, forse, addirittura, si sospetta, remarono contro. “Rimasero giornali romanocentrici”.
Oggi, nemesi della storia e ironia della sorte, quelle stesse testate – sei in tutto, più un sito (Il Corriere delle Alpi, Il Piccolo di Trieste, Il Messaggero Veneto di Udine, La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso e il magazine web NordEst Economia) – sono passate nelle mani di quegli stessi imprenditori che il Nord Est economico e produttivo attuale hanno contribuito a costruirlo con le proprie forze, mezzi e propri investimenti, anche attraverso l’alternarsi di generazioni, come racconta tutto d’un fiato l’appassionata e appassionante indagine della giornalista Paola Pilati in Le Serenissime. Storia e futuro delle imprese del Nordest (155 pagine, 20 €), pubblicato di recente per i tipi della Luiss University Press, l’editrice dell’Università di Confindustria.
Stiamo parlando di un pool di protagonisti di solide e anche sane realtà produttive come Banca Finint (Enrico Marchi, che è anche presidente della Save, la società che gestisce lo scalo aeroportuale lagunare di Tessera e cogestisce anche quello di Bruxelles, gruppo che amministra circa dieci miliardi di attivi e occupa oltre 550 persone, più duecento consulenti finanziari), Fin Steel (Banzato), Finaid (Carraro), Athena (Nalini), Gruppo Videomedia (Confindustria Vicenza), Sit Tech (De Stefani), Finam (Mandato), Findan (Benedetti), Samer Group Holding, Ocean (Cattaruzza), Ali’ (Canella), Prime Holding (Zanatta) a cui dal 20 ottobre si sono aggiunti Ance e Confindustria Udine, Bluenergy, Fidia farmaceutici, Fondazione CariVerona, Fondazione Cr Trieste. Tutti raccolti nella Nem, la Nord Est Multimedia, la società che edita le sei testate alla cui guida, per paradosso, c’è un direttore che proviene dal polo industriale opposto e contrapposto, il Nord Ovest, quello del “modello Fiat”, il giornalista Luca Ubaldeschi, già direttore del Secolo XIX di Genova.
Già, perché i “miti” dei modelli industriali, sociali e politici, nascono spesso e fors’anche prima di tutto nei racconti su carta, sulle pagine dei giornali che creano la narrazione corrente, lo storytelling come s’usa dire oggi, che modella l’opinione pubblica. Così è stato per il “modello Veneto” di sviluppo, a cavallo tra gli anni Settanta-Ottanta e poi nei Novanta fino ai primi decenni del Terzo millennio, anche se la narrazione complessiva negli ultimi tempi s’è un po’ persa o solo dispersa.
La domanda a cui vuole però rispondere il libro di Paola Pilati, giornalista giù responsabile delle pagine d’economia del miglior L’Espresso di via Po, è, appunto, qual è e cos’è il Nordest oggi? Com’è cambiato? E la risposta non sembra esser quella offerta da Cacciari: per Pilati il Nordest è invece, vivo, vegeto e pulsante. Macina e produce, e si presenta ancora come una “avventura” dentro un territorio che non è più quello polveroso e cristallizzato negli anni del boom, fatto di metalmezzadri e da una cultura contadina frutto del primo “modello Veneto”, di uomini divisi equamente tra lavoro in fabbrica, di giorno, e nei campi nel tardo pomeriggio-sera. O tra attività lavorative principali e piccoli capannoni per un secondo lavoro a cui dedicarsi negli interstizi e nelle pause tra un’occupazione e l’altra, nel tempo disponibile, ma utile quanto necessario all’indotto industriale. Eppure, nel tempo, tra le due fasi c’è una sorta di continuità.
E se la grande trasformazione strutturale della fine del Novecento, “col rimescolamento globale, ha prodotto un forte cambiamento nella società del Nordest”, una “trasformazione silente ma nello stesso tempo impetuosa con nuovi italiani destinati a intersecarsi in quel modello”, ecco che, da un lato c’è la consapevolezza di un “cambiamento dirompente”, ma dall’altro la “continuità” è data dalla certezza che gli imprenditori del Nordest
vogliono vivere in questi luoghi” perché “lavorano qui, vivono qui, condividono la loro ricchezza qui (…) consapevoli che il loro punto di forza è proprio l’appartenere a un certo tessuto sociale e culturale, prima ancora che economico e produttivo (…) basato sul fare sistema, sull’unire e non dividere, sul rapportarsi nella consapevolezza che nelle dinamiche globali soltanto insieme è possibile competere.
Le Serenissime è un’inchiesta densa e ricca di storie imprenditoriali, individuali e collettive, scommesse famigliari tramandate, di padri e di figli che si sono succeduti negli anni portando avanti l’impresa e sconfessando o riscattando quella realtà secondo cui, negli anni Novanta, “i figli non vogliono fare il mestiere dei padri” ma “desiderano solo i benefit”: i soldi, i vestiti, le auto, “meglio se Ferrari”, come sottolineava tempo addietro lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet, che proprio in quel tempo venne sollecitato dalla Confartigianato di Vicenza a dar loro una risposta. Di più, un supporto psicologico per quelle famiglie che non riuscivano più a tener testa alle richieste, ai capricci e alle ubbie dei propri eredi goduriosi e nullafacenti. “Non saper attrarre i nostri figli nelle nostre aziende è anche questo un problema”, ammette nell’intervista finale che appare come postfazione al libro, Enrico Carraro, presidente dell’omonimo gruppo e al vertice degli industriali veneti: “Oggi si pensa che lavorare in un’azienda metalmeccanica non sia più sexy”.
Allora, su iniziativa di Confartigianato con Crepet nacque la “Scuola per genitori”, guidata dallo psichiatra padovano, che è arrivata in quegli anni ad avere un bacino di oltre trentamila utenti, talmente grande era il problema. Che ha più sfaccettature. Lezioni per capire come prendere i figli per il verso giusto e rapportarsi con loro.
Colpa dei fondatori – chiosa Pilati – che non vogliono cedere un potere sempre esercitato in modo assoluto e che li ha indotti a tenere i figli nella bambagia o, ancora peggio, con il guinzaglio corto, impedendogli sia di crescere che di trovare altre strade (…), colpa anche di un arricchimento troppo veloce, quello del boom, una ubriacatura di benessere che ha dato al territorio la sensazione che potesse andare sempre così.
Un tema molto delicato, quello del “passaggio generazionale”, in un Nordest di imprese familiari. Ma il peggio è, forse, oggi alle spalle.
In molte famiglie dell’industria però il passaggio generazionale è avvenuto, tra titubanze, anche senza traumi apparenti, mentre i Marzotto, i Benetton, i De’ Longhi, Rana, Renzo Rosso con la sua Diesel, i Riello, i Lunelli hanno diversificato e raggiunto dimensioni “che li fanno stare a proprio agio” dall’Australia al Sudamerica, dagli Stati Uniti al Medio Oriente. Oltre il “modello Veneto” e oltre il Nordest.
Nel frattempo, quest’ultimo nel suo complesso sta sempre più “selezionando una categoria di imprese che, raggiunta la media dimensione, punta ancora più in alto, al segmento Star della Borsa”. Ovvero, gli imprenditori invece “di godersi un superyacht da oligarca russo”, annota Pilati, “si occupano di non desertificare il territorio” nel tentativo di evitare che “il tessuto del Nordest, in cui ognuno dipende dall’altro per una fornitura, per una particolare capacità tecnica, non rischi di smagliarsi irreparabilmente”.
Insomma, questo Nordest vive quasi una doppia dimensione correndo un “grande rischio”: l’essere un “dinosauro, ancorato alle regole del passato, che dopo aver vissuto all’insegna del ’piccolo è bello’ non ha visto l’importanza della scala” e un Nordest invece “lepre che corre”, si internazionalizza “con il doppiopetto e non più con la valigia nel portabagagli” alla ricerca di una dimensione medio-grande. Doppia velocità. Per esempio, il Gruppo Carraro con i suoi ottocento milioni di fatturato e quattromila dipendenti è il leader mondiale nella produzione di trattori e sistemi di trasmissione per macchine agricole con 9 stabilimenti in tre continenti. Ma Le Serenissime è ricco d’esempi d’industrie di tutte le proporzioni che si sono ingrandite, anche grazie a l’e-commerce e al B2B.
Tuttavia, in questo Nordest che si presenta quasi come un’unica grande area metropolitana, “dove le radici contano molto, le imprese sono a conduzione familiare e hanno mille intrecci con le comunità in cui vivono e dove hanno fatto fortuna”, anche i figli hanno finito per cambiare forma mentis, che “il Nordest dei padri fatica ad accogliere”, mentre la nuova generazione invece “ci si tuffa”. Oggi tutti con belle lauree e master alle spalle, diversamente dalla generazione che li ha preceduti. Epperò le contraddizioni sono ancora numerose.
“Siamo bravi a fare, ma non siamo bravi a dire”, si lamentano gli stessi imprenditori. Ovvero “si comunica poco” e il marketing è considerato “solo come un costo e non anche come un investimento”, un valore. Quindi questa “incapacità di ‘vendersi’ sul piano dell’immagine sembra essere oggi uno degli handicap maggiori del territorio”. Che fa mancare l’attrattività. E proprio questa incapacità di ‘vendersi’ sul piano dell’immagine, annota Pilati, è condita ad esempio “da infiniti mea culpa quando il Nordest si confronta al glamour emanato dall’industria della vicina Emila-Romagna, tra motor valley, food valley, data valley, packaging valley, o al magnetismo della Lombardia per via della sua capitale, Milano”. Ed ecco che sembra far nuovamente capolino quel Veneto piagnone, che si batte il petto, si auto-crocifigge e si piange addosso. Quasi come ai vecchi tempi. Nel mentre “in Emilia hanno una grande progettualità e la capacità di fare squadra”, raccontano a Pilati gli imprenditori veneti, mentre la giornalista osserva che ancor oggi “per molti il viaggiare in incognito è insito nella natura del business prevalente nel Nordest: il grosso delle attività è B2B, altrimenti detto terzismo”. Ovvero, “marchi anonimi, poco styling, si produce quello che vuole il committente, su suo disegno, su suo input. Grande genialità, certo, ma spersonalizzata. Almeno così è stato, nel passato, il grande atout dell’impresa di questo territorio”, ma “ora non è più così”. “Le aziende hanno ingranato la marcia e si sono messe sulla corsia di sorpasso. Non più gregarie, hanno investito in R&S (ricerca e sviluppo), studiato i mercati (…), si sono collegate con il mondo a cui quei prodotti arrivano bypassando le strutture di mediazione, i distributori”. È la nuova fase del vecchio modello di sviluppo.
Del resto, anche gli anni del Nordest vero e proprio, quello che prende forma sotto questa dizione anche come fenomeno mediatico – sui giornali e in televisione – è nato da un’intuizione giornalistica. Quella di Giorgio Lago, direttore del Gazzettino dal 1984 al 1996, dodici anni durante i quali il quotidiano veneto incrementa di gran lunga le copie, quasi raddoppiandole, e assurge a settimo quotidiano nazionale. Cacciari stesso lo riconosce nell’intervista citata: “Giorgio Lago, è noto, fu un fondatore di questo concetto” e del modello conseguente, che il Gazzettino ha raccontato e analizzato dettagliatamente e persino accompagnato. Si alternano le firme della migliore ricerca sociologica ed economica, dal professor Ilvo Diamanti, che nel frattempo sforma pagine di analisi e tabelle anche per Il Sole 24 Ore, ad Enzo Rullani, ai ricercatori che ruotano intorno alla Fondazione Corazzin, istituto vicino alla Cisl Veneta, all’economista Renato Brunetta, allo stesso Cacciari e altri ancora.
È pertanto accaduto che “abituata a lavorare e vivere nel silenzio e nella penombra, la società del Nord-Est si è ritrovata ad un certo punto al centro della scena: scrutata e analizzata da tutte le prospettive, alla ricerca di vizi e soprattutto di virtù, caricata di aspettative e di significati”. E in questo modo si è trovata “di fronte a uno specchio deformante, che ha riprodotto ed enfatizzato tutti i particolari, tutte le tensioni. Ha scoperto così essa stessa i suoi problemi. E li ha visti al grandangolo. Ingigantiti. Inoltre, entrare nel flusso dei mass-media significa diventare consapevoli, ancor di più, delle interdipendenze con il mondo. Venire assorbiti nella spirale della globalizzazione”, ha scritto Diamanti in una delle sue tante analisi.
Già, i media. Che tutto illuminano, scrutano, scandagliano e portano in emersione, contesti e particolari, anche i più piccoli e per i più insignificanti. Nulla viene risparmiato e lasciato al caso nell’analisi e nel racconto del Nordest in quegli anni.
E quando Lago lascia Il Gazzettino, l’8 giugno 1996, scrive nell’editoriale di commiato che
con il nostro giornale non abbiamo inventato il Nordest: ci abbiamo lavorato sopra a tempo pieno e in tempi non sospetti, questo sì. Siamo stati testimoni di un recupero innanzitutto culturale: né narcisismo (quando siamo bravi), né subalternità (quando siamo fessi). Né come eroi. Se come direttore ho avuto un ruolo politico, lo è stato da facchino del Nordest, intento a trasportare i materiali, identità, campanili, movimenti, febbre di autonomia, capitalismo sociale di mercato, l’ora et labora di chi ha imparato dalla fatica contadina che lavoro è anche ancestrale paura di perderlo.
È questo che la sfilza degli imprenditori nordestini si prefiggono di realizzare per il nuovo Nordest con l’acquisto delle sei testate giornalistiche in ambito Triveneto? Tutta questa parte di mpronta editoriale ne Le Serenissime non c’è, ma è una domanda che ci è stata sollecitata a partire dalla lettura del libro, quando si riporta la lamentela dell’imprenditrice che dice: “Siamo bravi a fare, ma non siamo bravi a dire”, a raccontare, presentare, illustrare, persuadere. Ovvero, si comunica poco e il marketing “è considerato solo come un costo e non anche come un investimento”. Ecco dunque, forse, il bisogno di una nuova narrazione del Nordest alla quale forse guardano questi pionieri dell’industria racchiusi nella Nordest Editoriale Multimedia. Non è un caso che l’esordio della nuova compagine editoriale sia iniziato con un’intervista a Cacciari su una certa idea di Nordest “tradito dalla politica”. Come a dire: si riparte da qui. Lo stesso Carraro ricorda che “l’autonomia non deve spaccare il Paese” che ha invece “bisogno di andare unito, è già piccolo e se si è divisi non si va da nessuna parte”.
Per noi una semplice curiosità e uno spunto di riflessione, anche se il libro di Paola Pilati ne contiene assai molti di più intorno all’avventura di un fenomeno economico e sociale di questa particolare area geografica, che qui non è possibile raccontare tutto e condensare.
Immagine di copertina: Paolo del Giudice, Mestre, 1999
L’articolo Passaggio a Nordest proviene da ytali..