Ha senso andare a teatro, oggi? Il conteggio dei biglietti venduti indica una qualche ripresa, una controtendenza dopo gli abissi desolanti del Covid. Ma nella storia della ricezione e nell’organizzazione del tempo libero, la sala teatrale è stata svuotata dall’avvento del cinema, e quest’ultimo a sua volta è stato ridimensionato dal trionfo della televisione, poi svuotata dall’invenzione ‘diabolica’ delle piattaforme. E sono le attuali serie a esercitare un autentico dominio, moltiplicando la vendita degli apparecchi preposti all’emissione di programmi stereotipi, sempre eguali a standard di successo, a modelli funzionanti su scala internazionale. Perché il tutto viene prodotto a un ritmo convulso che esclude sia l’assimilazione vigile da parte di un esausto fruitore, sia la creazione originale. E sono gli sceneggiatori gli autentici ghost writers, ovvero i professionisti decisivi in tale macchina furibonda, incaricata di sfornare a getto continuo immagini e storie. Da un lato, godersi sul divano, Eden protetto e confortevole, e con un semplice clic sul telecomando un’intera serie, magari con decine di puntate, a riempire il week end, determinando come un sovrano i tempi e i modi della visione. Dall’altro, doversi abbigliare per uscire di casa la sera, cercare qualcuno cui affidare i figli quando ci sono figli, sfidare la violenza cittadina, il disagio dei trasporti e dei parcheggi introvabili prima di ficcarsi in una platea teatrale. Imparagonabili le due ipotesi tra loro, per scomodità e lungaggini.
Quando, nell’immediato secondo dopoguerra a Milano, tra le macerie ancora fumanti dei recenti bombardamenti, Paolo Grassi e Giorgio Strehler fondano il Piccolo, citano luce, acqua e gas, nell’erogazione dell’offerta in quanto il palcoscenico dovrebbe essere un servizio offerto a tutti, senza distinzione di classe, necessario come il cibo quotidiano. Come la Messa, aggiungevano i modelli francesi cui si ispiravano, Copeau e Vilar in testa. Ma sono quelli i momenti della ricostruzione, quelli in cui la società desidera frequentarsi, conoscersi e riconoscersi, assaporando la pace ritrovata. In una sorta di elastico, tirato ora da una parte ora dall’altra, adesso sembrano prevalere le ragioni del rifugiarsi in se stessi. Come gli adolescenti turbati dai lunghi mesi dell’isolamento durante il panico da contagio, la città rifugge dai luoghi dell’incontro. Questo vale per le anagrafi avanzate, ovviamente, cui appartengono di solito gli abbonati al teatro, abituati ad esibirsi negli appuntamenti culturali. Minoranze castali ormai, come quelle che seguono le rassegne sperimentali, nell’ambito delle neo-avanguardie, con vaste quote di snobbismo. I giovani, viceversa, continuano ad attirarsi tra loro, ma è la movida che impazza nel centro a determinare il caotico afflusso di gente, un’immensa discoteca all’aperto. Spazi dove si pensa poco e si beve purtroppo molto, con derive stupefacenti alla lettera nei soggetti più fragili e smaniosi di stordirsi. La ribalta coi suoi attori è un parente povero, capace solo di uno strapuntino nella platea virtuale invasa dai media.
Ha senso recitare, oggi? In passato, c’erano le scuole a formare i professionisti e differenziarli dalla massa amorfa e simpaticamente approssimativa dei dilettanti. I secondi si contrapponevano ai primi anche per il fatto che si esibivano senza guadagno, per mero amore della ribalta. Da qui, il termine non peggiorativo in lingua transalpina, di amateur, nel significato di chi ama senza interesse. Ma prima ancora, tra il Cinque e il Settecento, nell’epoca dei carretti occupati dai comici dell’arte si stagliavano prepotenti e chiassosi i figli d’arte, vale a dire le grandi famiglie di istrioni scarrozzanti, specie in repertori dialettali, dove fin dalla culla l’artista rubava ai parenti i segreti del mestiere. Si pensi ai de Filippo nel territorio partenopeo o ai Micheluzzi in quello veneziano, generazioni succedutesi nel ritmo ordinato dell’apprendimento e della rielaborazione. Man mano che i circuiti si sono diversificati in nuove gerarchie si è prodotto inevitabilmente un travaso incessante dai generi indeboliti a quelli più visibili, per cui un attore di solo teatro tende a scomparire agli occhi dei più. Ricordo due grandi interpreti/sposi della scena italiana, Aroldo Tieri calabrese e Giuliana Lojodice marchigiana (quest’ultima ancora attiva), che mi giustificavano le reiterate, affannose apparizioni ai talk shows di Maurizio Costanzo, per smentire il sospetto, presso il ‘grande’ pubblico, di essere morti. Ebbene, di fatto attualmente recitano tutti. E questo non nel senso della sociologia comportamentistica all’Erving Goffman, secondo cui ciascuno ha un suo ruolo da sostenere, che ne sia o meno consapevole, ma in quanto la società dello spettacolo, dell’apparizione, ci rende attori. La regia di una mobilitazione del genere è affidata ai social, una sorta di algidi Inferi, asettici ma di travolgente manipolazione. Si verifica persino un ritorno alla scrittura, dal momento che tutti scrivono e nessuno legge, su facebook e affini, che tutti si scannano, in uno stato permanente di litigiosità e di vanità egolatrica, nello scambio coattivo di chiose e di insulti. Un cortile popolare esteso all’infinito. A fine del Secolo breve nascono trasmissioni degenerative e corruttrici ai danni delle giovani generazioni. In Uomini e donne, ragazzine procaci e giovanotti bellimbusti, tatuati e ritoccati già a vent’anni, immobili su troni in attesa di partner fittizi, scesi nel piccolo schermo a lanciarsi nella carriera di modelli quando va bene, o di oscuri esiti se va male. Non fanno niente costoro, se non farsi ammirare e invidiare. Da qui, la folie degli influencers e dei followers che vede assieparsi folle impazzite attorno a mini star coperte d’oro, non appena suggellate da brand di qualità. Bellezza artificiosa a tutti i costi ma anche il suo opposto, brutture ridicolose, mostruosità ginniche e deformità come nei freaks dei circhi ottocenteschi, tra nani, giganti e donne barbute. L’orizzonte in ogni caso si radica nella vendita del marchio, l’esposizione pubblicitaria dei corpi. Da qui, anche l’ulteriore incongruenza di mini sketch, in cui la brevità è di rigore, di memoria futurista, come su Tik e Tok dove gli improvvisati protagonisti non fanno nulla, se non gesti minimalisti. E intanto la lingua “dove ‘l sì suona” si riempie di anglismi, in un revival fono-simbolista, nel corteo di web, di smart, di app, di wi fire, tra account, password, procedure astruse e filtri iniziatici, richiesti fra poco anche per andare in bagno. Dimensione un po’ fiabesca, legata alla ricattante connessione internet che ha saputo creare dipendenza, peggio degli psicofarmaci. La tentazione allora sarebbe quella di auspicare un piccolo incidente, non l’Apocalisse nucleare, ma solo una crepa nella macchina elettronica, che interrompa sull’istante le tante apparecchiature. Si spegnerebbero gli smartphones, non funzionerebbero più i cellulari dove Soggetti in (de)crescita si controllano in modo forsennato, cadrebbero insomma i contatti che reggono questa recita. Perché si tratta appunto di una recita di tutti contro tutti, tutti a ritagliarsi e a inviarsi e a rilanciarsi pose, battute, canzonette, calcolando con affanno i like, supplicando visualizzazioni, come si faceva in chiave salvifica durante i plumbei giorni della clausura imposta dal Covid, allorché naufragi isolati ci lanciavamo bottigliette col messaggino da un Oceano all’altro, o da un balcone all’altro.
Nel frattempo, emerge una nuova categoria negli studi specialistici della teatrologia, il performer, risposta scenica all’arte concettuale, cioè colui che fa qualcosa nello spazio, al limite restandosene immobile sulla strada, a provocare e ad attrarre l’attenzione. Conta farsi notare, anche se per pochi istanti. Mezzo secolo fa, in Paradise now al Festival di Avignone, il Living Theatre, compagnia anarchica americana in grande spolvero negli anni Sessanta, caratterizzò il ‘68 teatrale abolendo i biglietti, esibendo nudità sul palco e invitando il pubblico a salirvi, in una provocatoria relazione tra scena e platea, antico mantra delle avanguardie, ma qui portato alle estreme conseguenze. Perché si può stare nudi in scena, ma non per strada. E sempre sulla scena si può narrare un coito, non praticarlo. Se cade la finzione estetica e irrompe la verità del corpo, scatta subito l’intervento censorio. Da un simile ingorgo tra lecito e illecito è emersa l’astuta e geniale Marina Abramović, la serba americanizzata (da sottolineare l’accasamento) che delle sue artistiche installazioni ha fatto un usufrutto redditizio, dalle iniziali autolesioni sulla propria pelle al pruruginoso Imponderabilia del 1977, quando assieme al suo compagno di allora Ulay, presso la bolognese Galleria d’arte moderna, se ne stavano entrambi nudi, ai lati di una stretta porta che consentiva l’ingresso nella galleria allo spettatore guardone. Chi voleva entrare era costretto a passare in mezzo ai loro corpi esorbitanti, decidendo con imbarazzo se premersi contro il nudo maschile o quello femminile. Una riduzione estrema dei mezzi espressivi, al limite una loro nullificazione, come i graffi di Fontana sulla carta, che fanno gridare allo scandalo i ben pensanti provocandone sillogismi lamentosi in quanto anche loro sarebbero in grado di fare altrettanto. Climax già raggiunto, si sa, da Merda d’artista di Piero Manzoni, datata 1961 colla banale scatoletta di latta, vuota dentro, ma dall’altissimo costo in un mercato astuto ma poco fantasioso. Segnali di accelerazione verso il nonsense dell’esistenza, cifra della disperante solitudine in cui pare sprofondare il nostro novello Tramonto di Occidente, cent’anni dopo quello profetizzato da Spengler.
Anacronistici pertanto quelli che recitano su un palcoscenico e quelli che vanno ancora a vederli? Eppure, in questa traversata del deserto, si levano ogni tanto piccoli gesti del passato e insieme dell’avvenire, che riscoprono il teatro, nonostante tutto, quale strumento non costoso di comunicazione e di provocazione. E occasione di convocazione cittadina, oserei dire. Intendo però suoni sussurrati ai bordi del frastuono collettivo, nei ritagli dello strapotere delle immagini. Azioni modeste, nell’etimo del termine, da modus, che parlano ancora, e si mostrano nelle periferie del mondo, sia in senso sociale che anagrafico. Un teatro non più al centro della società, come nell’Atene classica, o nell’ecclesia medievale, che elaborava lutti e interrogava il destino, specchio-lassativo igienico e portavoce coreutico della comunità. No, questo non è più possibile. Mancano le comunità. Restano gli anfratti, gli angoli, i confini, i muri. Nel ’68 si sarebbe detto teatro di quartiere, ma i quartieri ora non esistono più, oppure un teatro di ospedali e carceri, quando ospedali e carceri, con poche eccezione (basti pensare a Punzo e alla sua mirabile Fortezza di Volterra), stanno esplodendo. O ancora un teatro per vecchi, per malati e per bambini. Categorie tutte a rischio oggi. Ma recitare serve comunque, più ancora che vedere gli altri farlo. Questo il paradosso, in un ambiente in rovina. Una pratica terapeutica per piccoli gruppi, una premessa semplicemente psichica, per educare le età in formazione, e arricchire le povertà esistenziali. Far giocare gli adulti, metterli in gioco, far aprire loro le finestre in una stanza appestata dal proprio io. In una parola, cambiare personaggio. Ho provato personalmente in questi anni a condurre laboratori con adulti, con risultati spesso sorprendenti, dopo fobie e resistenze.
A Venezia, assieme a un gruppo di amici abbiamo anni fa creato un’associazione che pratica volontariato culturale, P.E.R. (acronimo di Pensare/Elaborare/Rappresentare) Venezia consapevole, entro una rete di sigle varie, definita Patto, che informano circa eventi che si svolgono in città grazie a migliaia di persone, accomunate dal desiderio di operare assieme, di farsi sentire e interrogare le Istituzioni. La parola “consapevole” allude ironicamente alla coscienza che come individui non si ha più alcun potere. Una sfida, la nostra, all’abulia, alla rassegnazione, alla rabbia con cui si svuotano risorse umane e sociali dal tessuto cittadino. In risposta, si cerca di favorire il dialogo tra movimenti sociali, avvicinando i cittadini alle arti. Tra le attività messe in moto, a raccontare la città, la sua memoria e quel che resta del suo futuro, si utilizzano vari strumenti, docufilm e lezioni on line sulla volta epocale del ’68, convegni sulla città, ad esempio quello dedicato alla crisi climatica, alla fragilità di Venezia e al controverso Mo.S.E., il sistema di dighe che protegge dalle inondazioni, intaccando a detta di molti l’ambiente. Frequenti inoltre le riflessioni filosofiche, anche perché l’Associazione è presieduta da Alberto Madricardo, docente della disciplina in quiescenza. Proprio il senso collettivo di impotenza si rovescia nell’idea ambiziosa di creare un nuovo tipo di comunità, modello non solo per Venezia ma anche per altre città storiche del mondo assediate dal turismo di massa, su cui il gruppo intende promuovere una versione ecologica. E qui rispunta il teatro, con produzioni elementari, ma già con un repertorio collaudato alle spalle: Venice land, Il mercato di Venezia, Quarantena, Il compleanno della Signora Venessia. Copioni, per lo più nati durante il vuoto sociale del Covid, e di conseguenza inviati tramite web, raccolti e di prossima uscita editoriale. O coniugati coi sabba carnevaleschi, come l’ultimo, interpretato en travesti da uno scatenato Luca Colferai della Compagnia I antichi.
Che tipo di drammaturgia, la nostra? I temi escono da scelte discusse e condivise, il degrado per l’invasione turistica, l’insostenibilità della vita dei residenti, l’esperienza allucinante del contagio che ha svuotato le strade. Si è formata attraverso queste scritture una Piccola compagnia al suo interno. Vi circolano età diverse, alcuni professionisti in maniera diversa del ramo, come il sottoscritto da una vita docente universitario cafoscarino di teatro, drammaturgo-performer, e nell’ultima produzione il vicentino Roberto Cuppone, dell’università di Genova e attore a lungo temprato dalla commedia dell’arte, il giovane talentuoso Luca Bagnoli, giornalista ma anche interprete cinematografico, o Adriana Tosi raffinata da scuole di teatro alle sue spalle, supportata nei suoi testi dall’a scozzese’inglese Maggie Rose, che interagisce da Milano consentendo aperture internazionali al nucleo. Ma vengono coinvolti pure non attori, spesso sorprendenti nella maturazione progressiva, impiegati o docenti in pensione, come Guia Varotto, lo scrittore Nereo Maggiani e il citato Madricardo, giovani insegnanti appassionati di tecnologie come Andrea Tartaglione. Registri prevalenti, quelli grotteschi, ampia la presenza del dialetto, non solo confinato nell’opzione comica. Le riunioni saltuarie e le prove spesso a distanza determinano il ricorso al monologo, espresso in alternanza tra i vari membri. Ma la cifra più caratterizzante risulta l’autorialità collettiva, dato che ognuno è responsabile del proprio personaggio. Nascono così situazioni e caratteri man mano sbozzati, su improvvisazioni da punti di vista diversi, per cui il copione finale pare un formaggio svizzero, per quanto riguarda la fisionomia dei protagonisti, tra vuoti e contraddizioni.
La moltiplicazione degli sguardi si esalta ora in Condominio, l’ultimo spettacolo, dopo alcune repliche veneziane, in questi giorni al debutto a Mestre, la sera di sabato 18 al teatro Kolbe, ore 20 e 30. Il copione è collocato del resto in territorio mestrino, colla laguna lasciata sullo sfondo. Architettura anonima, anche se in questo caso medio-borghese secondo gli standard del mercato immobiliare, colosso di cemento nato dalla speculazione selvaggia negli anni Cinquanta-Sessanta. Questo è Condominio. Vi si aggirano, appaiono e spariscono dopo pochi flash e qualche nervosa battuta, tipologie umane eccentriche e mediocrità feroci, dall’ identità incompleta, prese di scorcio. Come in un carcere elegante, i vari inquilini rispondono all’anonimato e alla massificazione coltivando e insieme celando i propri fantasmi gonfi di infelicità. Allo stesso tempo, ognuno offre di sé aspetti lacunosi, in un rapporto interpersonale fuggevole. A suo modo, l’artigianale drammaturgia della Piccola compagnia raggiunge le modalità della grande tradizione teatrale novecentesca, da Pirandello a Pinter, da Bernhard a Heiner Müller sulla non conoscibilità dell’oggetto. Questi attori non abbisognano di costumi, di scenografie di sorta. Trasformano la povertà dei mezzi in marchio stilistico. Sufficiente una sedia, una parte di porta a segnare lo spazio, a dare l’idea di un caseggiato dove ci si parla a distanza, anche se contigui di piano. Ma ci si chiama da una terrazza all’altra, cercando di imporre nuovi ordini del giorno. Perché è annunciata la canonica assemblea, la convocazione del parlamentino del caseggiato. Dirige, o meglio dovrebbe dirigere le danze, l’Amministratore, geometra imbranato, alla fine travolto dal disordine trionfante. Nel frattempo, si manifestano ombre squinternate: un anziano assicuratore in pensione, vedovo e ossesso morbosamente dai rumori notturni; un giovane infermiere geriatrico che rivendica poi il suo gender fluid; una signorina stagionata, detta Betonega perché ficcanaso; un altro anziano, vittima di una moglie ex cantante che gira lasciando rose per le scale, forse morta da tempo; un Nerd fanatico dei computer; un’attrice inglese in incognito e pretenziosa; un africano infine trasgressivo e truffaldino, che vorrebbe farsi assegnare un appartamento, sequestrato in assenza, in filmati che lo ritraggono nei suoi deliri plurilinguistici, demonizzato e mitizzato a seconda degli sguardi che lo colgono. Tra ciacole e liti, emergono fatti inquietanti che mettono in crisi la pretesa rispettabilità borghese della Casa multipla. E sono misteriosi rumori notturni, assurdi lanci di rose per le scale, domande di affitto da parte dell’abbronzato. L’assemblea finale non potrà che sancire il caos.
Per poco più di un’ora, vediamo queste vittime/carnefici sporgrsi dalla propria finestra, o spiare dalla porta, a protestare ragioni, accusare, difendersi, sino a riversarsi nella rissa che chiude la performance. Rispetto alla tendenza al monologo dei copioni precedenti, stavolta le monadi saggiano in certi casi il duologo, ossia il legame di coppia, spaiata e asimmetrica, quasi la singolarità tentasse la pluralità, per molestia o per ricerca di aiuto. Ma si tratta sempre di rotazione tra soliloqui. La musica del giovane Marion Mentrup sigla il tutto avvolgendo l’incipit e l’esodo dello spettacolo. Nel buio, è una musica sinuosa a scandire i primi suoni, salvo poi lasciar spazio a un pugno di miei versi:
Ci sarà tempo per piangere/tempo per tremare/tempo per attendere/non per sperare/
o per guardare all’orizzonte/
se arriva magari una mail di risposta./
La sera invece meglio controllare molte volte/la memoria aiuta poco/
porte e finestre./
Sì, chiudersi bene, dentro nel cuore e nel condominio./
Stendersi esausti a letto./
Perché una casa è sempre meglio di una corsia di ospedale”.
Ma in chiusura di Condominio, le parole esplodono in rumori davvero molesti, baraonda spettrale, oggettiva, non solo paranoia nevrotica di vecchi intolleranti. E si tratta di una piccola, geniale sinfonia, che impone il silenzio, al posto dell’amministratore umiliato, dopo botti, sciacquoni e gemiti, fisiologie basse e estasi angelicanti, afrori e aromi floreali, quasi a tradurre la canzone di Gaber, É sabato. Un Dies irae, allusivo alla catastrofe che in tutti alberga come paura/desiderio della fine.
L’articolo Per un teatro drammaticamente e felicemente ai bordi proviene da ytali..