Il conflitto israelo-palestinese, particolarmente, in questi giorni drammatici, viene definito in molti modi. Tutti, sia pur con accenti diversi, ne sottolineano una caratteristica, quella di essere un conflitto che appare irrisolvibile.
In effetti a sostegno di tale drastica definizione potremmo ricorrere a un esperimento virtuale. Porre davanti a una carta geografica della regione un palestinese e un israeliano e chiedere loro di disegnare i confini che dovrebbe avere il proprio stato. Il palestinese indicherà lo spazio fra il fiume Giordano e il mare e l’israeliano indicherà più o meno la stessa identica porzione di territorio.
Posta in questi termini la questione israelo-palestinese sembrerebbe effettivamente irrisolvibile. E dovremmo concludere che oltre settant’anni di sanguinoso confronto e ben quattro guerre (cinque con oggi), nel 1948 nel 1956, nel 1967, nel 1973, si sono svolte per decidere quale nome, se Israele o Palestina, dovesse avere la stessa porzione di territorio e che tutto questo è avvenuto invano, dal momento che oggi abbiamo l’impressione di trovarci allo stesso punto di partenza.
Ma la considerazione da cui vorrei partire è proprio questa: oggi non ci troviamo allo stesso punto di partenza, anzi siamo in una situazione diversa, radicalmente nuova. E questo per almeno tre buone ragioni.
In primo luogo per le importanti trasformazioni che negli ultimi decenni hanno stravolto in profondità tutti i paesi nelle immediate vicinanze dell’area del conflitto, in particolare quelli che circondano Israele e che da sempre hanno svolto un ruolo attivo nella controversia mediorientale.
Proviamo a fare una sintetica rassegna. L’Iraq dopo due devastanti guerre portate dall’Occidente è oggi un paese devastato e politicamente instabile, con capacità di proiezione esterna molto imitate. La sua mutazione interna è impressionante: da bastione sunnita contro l’Iran ai tempi di Saddam Hussein, è oggi un paese con un governo sciita che guarda con complicità verso gli ayatollah di Teheran; la Siria è da dieci anni coinvolta in una guerra senza fine, che ne ha distrutto economia e società e paralizzato ogni velleità di politica estera. Nel conflitto siriano sono intervenuti in vari modi un gran numero di attori, Usa, Turchia, Russia, Iran e altri, creando una complessa polveriera sempre pronta a esplodere; il Libano è uno stato tecnicamente fallito, esploso a livello istituzionale, economico e sociale come l’enorme esplosione che ha devastato il porto di Beirut e per di più contiene entro i suoi confini un potente esercito, gli Hezbollah, che risponde a Teheran; l’Egitto, un grande paese che per vocazione da sempre funge da riferimento politico e culturale di tutto il mondo arabo, dopo una lunga e irrisolta crisi interna è ritornato a essere una dittatura dura e implacabile, che ne indebolisce il ruolo nella regione; la Giordania, circondata da crisi gravissime e nemici potenti, è sempre più fragile e incerta sul proprio futuro.
Mi fermo qui, ma allargando di poco il quadro, si potrebbe continuare con la Libia, il conflitto saudita-yemenita, l’ambigua politica del Qatar, l’avvicinamento a guida cinese di Iran e Arabia Saudita, il rinnovato attivismo iraniano, per non parlare della nuova sorprendente postura di politica estera della Turchia.
La seconda ragione che ha modificato il contesto del conflitto in corso è riferibile a una considerazione ancora più importante. È tutta la società internazionale nel suo complesso a essere profondamente mutata, un cambiamento così netto e profondo che non rappresenta un’evoluzione lineare della sua storia del secolo scorso, ma è qualcosa di radicalmente diverso, quasi una mutazione genetica.
Ben tre rivoluzioni di portata epocale, la globalizzazione economica, la rivoluzione delle comunicazioni e quella dei trasporti hanno reso gli Stati e le loro società civili estremamente interdipendenti e interconnesse fra di loro. Oggi appare molto difficile individuare grandi temi conflittuali che siano definibili quali nazionali o regionali: criminalità sicurezza, sfide climatiche, guerra cibernetica, terrorismo, immigrazione, intelligenza artificiale tutti sono oramai riconducibili a dinamiche che investono la società internazionale nel suo complesso.
Il mondo delle relazioni internazionali non è più un mondo fatto a isole, ma una realtà interconnessa e intercomunicante e il conflitto in Medio Oriente non è più solo una disputa fra Stati o popoli per una definizione di confini, ma è divenuto un tema a respiro globale e universale.
Allora sorge spontanea la domanda: perché la comunità internazionale non riesce a risolvere una contesa che dura da settant’anni, che miete vittime innocenti e che è un fattore di instabilità per tutto il mondo?
La risposta dipende dal modo in cui la società degli Stati regola o dovrebbe regolare i conflitti al suo interno, in assenza di una autorità superiore e coercitiva, che ad oggi non esiste nonostante sia stata tentata nel passato, ad esempio con Le Nazioni Unite.
Quella che chiamiamo la comunità internazionale nel corso della sua storia moderna ha creato meccanismi, a volte informali a volte più strutturati, che di volta in volta sono stati chiamati a svolgere una funzione che potremmo definire regolatoria: dovevano cioè impedire che derive conflittuali eccessive fra alcuni Paesi potessero danneggiare i loro interessi vitali.
Per restare alla storia più recente, dopo il 1812 e il Congresso di Vienna, per un lungo periodo di circa un secolo, gli Stati regolavano le loro relazioni, almeno in Europa che allora era il mondo, con quella che veniva chiamata ”l’Intesa delle grandi potenze”. Quattro (Francia, Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia), poi divenute cinque con l’Italia, regolavano informalmente i rapporti internazionali facendo in modo che conflitti non degenerassero in maniera contraria ai loro interessi fondamentali.
Sistema che ha più o meno funzionato fino agli inizi del secolo scorso, poi lo scoppio della prima guerra mondiale ne segna la fine: ma non completamente, visto che continua a esistere ancora per altri anni, fino alla Conferenza di Monaco, nel 1938, che fu forse l’ultimo inutile tentativo di comporre una controversia mediante l’antica intesa fra le grandi potenze.
Dopo la seconda guerra mondiale, tutto cambia. Si costruisce quello che viene chiamato il sistema bipolare, due Superpotenze, Stati Uniti e URSS, che governano il mondo. Non vi erano più guerre o conflitti? No, certo, le guerre esistevano, anche se non in Europa. Ma l’interagire delle due superpotenze garantiva un ordine regolatore: entrambe intervenivano e fermavano i propri sudditi/alleati ove si rendeva necessario nel loro primario interesse.
È accaduto più volte anche nel conflitto in Medio Oriente, nel 1956 la guerra di Suez viene fermata dagli Stati Uniti; nel 1967 e anche nel 1973 lo scontro militare viene arrestato e viene impedito il suo ulteriore allargamento per l’intervento delle due Superpotenze.
Poi finisce anche questo meccanismo regolatore. Dal 1992, con la dissoluzione dell’URSS, vi è una sola superpotenza, gli Stati Uniti, che per un poco credono di poter regolare il mondo da soli, ma si accorgono presto che non è possibile. Da allora è un susseguirsi di conflitti armati: guerre balcaniche, Siria, Libia, Yemen, Nagorno Karabak, Georgia e poi Ucraina.
Manca oggi pertanto un ordine regolatore internazionale, siamo in un mondo che lo sta cercando a tentoni e che tende al caos. Le crisi si susseguono e non si compongono quasi mai.
L’ultima considerazione da aggiungere alla complessità del conflitto israelo-palestinese è data da un ulteriore elemento, intervenuto a partire dal 1996 in Israele e dal 2007 a Gaza: il progressivo mescolarsi di istanze politiche e religiose in entrambe le parti.
Nel settembre del 1993 sul prato della Casa Bianca, a poche settimane dalla firma degli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si stringono la mano. Rabin e Arafat possiamo considerarli figure politiche moderate, per natura inclini al dialogo e al compromesso?
Direi proprio di no. La loro storia politica dice il contrario. Rabin era un ex militare, durissimo e ossessionato dalla ricerca della sicurezza del proprio Paese; Arafat, che ho conosciuto personalmente molto bene ai tempi di Tunisi, era un ex terrorista per anni considerato tale, anch’egli durissimo e determinato nel perseguire l’interesse del proprio popolo. Ma nonostante questo entrambi si sono trovati a stringersi la mano sul prato della Casa Bianca e a riconoscersi reciprocamente quali interlocutori.
Chi vedreste oggi al loro posto? Benjamin Netanyahu, che crede nella forza contro i palestinesi, nei muri e nella separazione fisica dei due popoli? Il premier che ha all’interno del proprio governo forze politiche che proclamano visioni messianiche di un Grande Israele e che perseguono l’espandersi a oltranza degli insediamenti in Cisgiordania sulla base del principio ritenuto divino “più terra si ha meglio è”? Vedreste forse il capo di Hamas, il partito che persegue la visione anch’essa divina della distruzione di Israele e la cacciata di tutti gli ebrei in mare?
No, oggi non vi è nessuno che possa prendere il posto di Rabin e Arafat nella fotografia che sanciva la firma degli Accordi di Oslo. Questo perché la religione è entrata in qualche modo nella gestione del potere. È potentemente entrata nel governo di Israele ed è simmetricamente presente nel movimento di Hamas, inserendo nella dinamica politica interessi cosiddetti assoluti e quindi non componibili né con il dialogo né con il negoziato. Manca oggi quell’elemento che è al base di ogni attività negoziale: l’esistenza di componenti di natura relativa nelle posizioni di partenza di entrambe le parti.
Intendiamoci: la religione è una cosa importate per l’uomo, sia a livello personale sia a livello collettivo. Ma quando religione e potere si identificano, quando obiettivi politici e religiosi si mescolano, gli esiti nella storia sono sempre stati disastrosi.
Noi europei proviamo un brivido lungo la schiena quando evochiamo le guerre di religione, addirittura usiamo a volte questa espressione per indicare un conflitto spaventoso, senza tregua.
Nella storia europea le guerre di religione sono state una catastrofe tremenda, forse la più grande subita dal nostro continente. Pensiamo alla guerra dei trent’anni, conclusasi nel 1648, alle devastazioni e allo spopolamento causato da questo evento. Si dice che un terzo della popolazione europea scomparve. E l’Europa impiegò un secolo per tornare alle condizioni di partenza sia sul piano economico che su quello demografico.
Cosa fare allora?
Cercando di calare nella realtà quello sinora detto, appare condizione preliminare che le due posizioni israeliana e palestinese di Hamas da assolute diventino relative o perlomeno che aprano al loro interno spazi relativi che siano confrontabili e negoziabili. Che la religione faccia il proprio mestiere e altrettanto faccia la politica.
Con questi interlocutori e possibile questa trasformazione? Per Israele credo di no, il percorso politico dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyhau mi sembra concluso e non nel migliore dei modi. Per Hamas non saprei, in passato abbiamo avuto evoluzioni sorprendenti, casi di soggetti qualificati terroristi che sono poi divenuti soggetti internazionali a pieno titolo, la stessa OLP e recentissimo il caso dei talebani in Afghanistan.
Concludo con una considerazione, meglio con un dubbio, che riguarda noi che facciamo parte del mondo europeo e occidentale, anche in relazione a quanto avviene ora in Medio Oriente
Il dubbio è questo. Noi Occidente stiamo realmente guardando al conflitto in corso con lo sguardo giusto, con gli occhi del XXI secolo, privi di schemi stereotipi e pregiudizi?
Pensiamo a quanto accaduto in Ucraina. Un paese ne invade un altro: una fattispecie di diritto internazionale molto chiara e sanzionabile. Noi occidentali compatti dichiariamo correttamene la nostra visione del conflitto, forniamo sostegno all’aggredito e sanzioniamo l’aggressore.
Mentre facciamo questo siamo convinti che la Russia sia isolata e che le sanzioni la facciano crollare in pochi mesi, in definitiva diamo per scontato che il mondo intero condivida la nostra visione. Cosa non vera, almeno a considerare le votazioni alle Nazioni Unite dove un numero rilevante di paesi, che rappresentano il sessanta per cento della popolazione mondiale, non vota la condanna dell’aggressore.
Evitiamo anche in Medio Oreinte di ripetere questi errori di supponenza. Dopo il 7 ottobre, quasi tutti i leader occidentali, in modi diversi, dissero che il massacro era stato il suicidio politico di Hamas, che Hamas avrebbe perso ogni autorevolezza nel mondo arabo e islamico per l’orrore delle azioni compiute. Si pronosticò anche del suo inevitabile isolamento politico nel mondo.
Ma questo non sta avvenendo. La sua capacità di attrazione è addirittura cresciuta, non solo in Cisgiordania, dove è più comprensibile, ma anche in paesi arabi tradizionalmente moderati come la Tunisia. E il Vertice congiunto tra Lega Arabi e Paesi Islamici delle scorse settimane, rarità nella storia delle due organizzazioni, ha di fatto condannato Israele e non Hamas.
In definitiva io non so quale soluzione sarà perseguita per la ricerca di una pace nella regione quando le armi si fermeranno. Ma sono convinto che una pace, se mai si arriverà, si costruirà non contro il mondo arabo e islamico ma insieme a questi mondi. Con i quali bisogna parlare e dialogare sin da subito, perché i nuovi equilibri del sistema delle relazioni internazionali, che sono in corso di faticosa costruzione, non prevedono più l’Occidente al centro del sistema.
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