A Frosinone il nome di Armando Fabi evoca per lo più e tranne lodevoli e per fortuna non rarissime eccezioni il bianco-verde dei camici medici. Vale a dire l’Azienda sanitaria locale. La sede centrale della Asl ciociara è ubicata infatti in una strada che venne intitolata a quel sergente maggiore elettromeccanico originario di Giuliano di Roma.
Fabi visse seguendo l’usta del suo sogno di aviere militare e morì esattamente mentre lo perseguiva. Morì in quella che all’epoca era ancora chiamata l’Africa Nera.
E il nero c’entra molto con questa storia anche per un altro motivo. Un motivo che trova concretezza a Roma, in un aeroporto. E nelle vecchie divise della “fu” Alitalia. Sì, le ali, gli aerei e la mistica della terra guardata dal cielo hanno molto a che vedere con questa storia. Chi ha avuto occasione di volare con Alitalia prima che Berlino se la pappasse in un boccone e fino agli anni ‘90 avrebbe potuto farci caso.
Un aeroporto, una stele e una divisa
Lo avrebbe potuto fare solo aguzzando lo sguardo e predisponendosi a speculazioni che di solito legano male con un concitato imbarco in aereo. Cioè in un contesto in cui fretta, tensione o sessappiglio da volo imminente sono forze egemoni. Ma cosa? Che i piloti di Alitalia avevano la cravatta nera.
Indizio due: all’ingresso dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino c’è un altro elemento che rimanda alla storia “minore” dell’Italia, dove l’aggettivo rende bene lo spregio che a volte abbiamo per episodi che dovrebbero essere cardine della formazione della nostra memoria. L’indizio numero tre è una stele commemorativa a Pisa che nel 1989 venne ampliata e rimessa a nuovo da un artigiano di Boville Ernica, Rocco Mizzoni.
Quei cippi ricordano un eccidio. Avvenuto l’11 novembre del 1961 ma pianificato l’otto e sgamato il 16. A dare l’ordine fu un tal Pakassa, quello con tante penne. Per una qualche strana ragione nelle gerarchie militari dell’Africa in salsa socialistese il grado era indicato dal numero di penne Biro poste nel taschino delle sahariane. I “generali” facevano scialo di stilografiche in petto, come ragionieri-macellai.
Quel Pakassa era un colonnello, o sedicente tale, di una delle tre formazioni militari che si contendevano a colpi di mitraglia e machete il Congo. Un paese cioè fresco di indipendenza dal Belgio, forse la nazione colonialista più brutale di sempre.
Quando il Belgio mollò il Congo
Odi tribali, ricchezza della provincia del Katanga e ferocia assoluta del governo appena defilatosi di re Leopoldo, quello che faceva mozzare le mani ai nativi come monito, avevano fatto del Paese una fiera del sanguinaccio. Un posto dove morire era facile come sbucciarsi le ginocchia. In quelle foreste percorse da carrareccie sterrate bande irregolari e sedicenti eserciti di liberazione si massacravano sotto il naso di un’Onu che sembrava un marito guardone con la moglie scambista in un privè.
Sta di fatto che tredici aviatori italiani imbarcati su due Fairchild C-119 della 46ma aerobrigata di Pisa, tra cui Fabi, ricevettero un ordine. Quello di andare a rifornire di cibo una sperduta guarnigione di caschi blu malesi a Kindu, nella zona dove le frizioni fra i gruppi si erano fatte più forti. Roba da ordinaria amministrazione a ben vedere. Decollare da Stanleyville, tenere quota al di sopra delle mitraglie contraeree Oerlikon dei militari strafatti di kat etiope venduto loro dal contingente Onu del Corno d’Africa.
In missione per l’Onu, missione di pace
Poi atterrare, scaricare, mangiare in mensa ufficiali e ripartire a chiosa di una missione africana che di lì a pochi giorni, il 25, sarebbe finita. Non andò così. I tredici vennero scambiati, forse, per “tassinari” dei parà mercenari belgi che aiutavano uno dei contendenti, Ciombè. Vennero intercettati a mensa, arrestati, brutalizzati, buttati in cella. Poi, dopo due giorni, sforacchiati a colpi di kalashnikov col rompifiamma affilato a pietra mentre urlavano invano di non essere belgi faziosi, ma italiani a servizio della comunità internazionale.
I panga, pesanti machete africani, fecero il resto dove le articolazioni avevano cerniera. I malesi avevano pensato ad un blitz liberatorio ma le regole di ingaggio dell’Onu erano già allora come le contese foruncolose in parchetto sotto casa: roba inutile. L’epilogo ebbe una coda horror: qualcuno dice che pezzi di carne di quei corpi furono rinvenuti presso un mercato vicino, imbustati e venduti a dieci franchi al chilo. Il cannibalismo era diffusissimo in Congo e molte parti del corpo diventavano anche degli amuleti per la battaglia, i “dawa”.
Colonialismo ed eroi “minori”
In Italia la faccenda venne in parte presa, dopo il ritrovamento dei cadaveri spostati in una cava di argilla, a metà fra l’orrore puro e l’ipocrisia. Una certa sinistra (su tutti l’Avanti di Pieraccini e le firme fanfaniane storiche) non volle che i tredici salissero troppo in alto nella schiera dei martiri. Il perché era evidente. L’impressione generale offerta da quel fatto di sangue era che il colonialismo fosse stato si una gran vaccata, ma che la sua alternativa democratica fosse una sola ancora peggiore.
Questo per Paesi retrò che forse avrebbero avuto bisogno di fasi di transizione più lunghe e complesse. La democrazia – come diceva George Patton – è facilissima da difendere ma problematica da applicare.
Ad ogni modo il massacro venne ricordato con un monumento all’aeroporto di Fiumicino e uno a Pisa. Ed i piloti Alitalia chiesero di indossare la cravatta nera in divisa di ordinanza per ricordare i colleghi avieri martiri di Kindu.
Diventare eroe troppo in ritardo
Armando Fabi divenne un eroe suo malgrado nel 1994, con la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Così l’Italia si accorse di quel sergentone ciociaro dallo sguardo placido e l’aria competente. Nel 2007 finalmente arrivarono i risarcimenti alle famiglie.
Nel 2015 Alitalia decise che il lutto non doveva più riguardare il personale e si passò a divise più fashion. Perché le mode cambiano ma gli eroi come Armando e suoi commilitoni, quelli restano.
A ricordarci che non servono una cravatta nera ed una strada mentre andiamo a ritirare le analisi per sapere che qualcuno è morto indossando i nostri colori. Basta ricordarlo. E magari fare libri di storia più grossi.