
Anni di polemiche, recriminazioni, inimicizie, articoli e dichiarazioni al vetriolo, lettere, memoir, battaglie feroci e altri episodi tristissimi: vien da chiedersi se ne valesse davvero la pena. Parliamo della conquista del K2, di cui quest’anno ricorre il settantesimo anniversario, fortemente voluta da un galantuomo come Ardito Desio e resa possibile dal coraggio e dalla passione di tre alpinisti del calibro di Walter Bonatri, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, oltre al resto di una spedizione che riuscì nell’impresa di issare la bandiera italiana sulla cima di una delle montagne più alte e inaccessibili del pianeta. E però, alla luce di ciò che abbiamo visto nei decenni successivi, delle già menzionate polemiche, del ruolo inizialmente sottovalutato e poi rivalutato di Bonatti, dei suoi scontri tremendi con Compagnoni, delle richieste di verità e dello sgomento dell’opinione pubblica al cospetto di una vicenda trasformatasi ben presto da motivo d’orgoglio nazionale in profonda lacerazione individuale e collettiva, di fronte a questo spettacolo assai poco edificante, si ripropone un quesito annoso: fin dove può spingersi la legittima ambizione dell’uomo? Che senso ha conquistare una vetta quasi inarrivabile se il prezzo da pagare sono poi anni e anni di liti selvagge? È davvero questo il nostro destino? Possiamo affermare che la gloria di un momento debba prevalere su tutto, compresa la dignità umana e la tenuta di una comunità dilaniata dai rimorsi?
Settant’anni, e abbiamo la sensazione che del miracolo sia rimasto ben poco. Non ci sono più i protagonisti, non c’è più l’eco del ritrovato orgoglio patriottico, non ci sono più le ambizioni e le speranze di allora ma, soprattutto, non c’è più la sensazione che quella conquista sia servita a qualcosa. In compenso, sono rimasti gli aspetti più deteriori della vicenda, prontamente alimentati da una stampa che non aspettava altro, nel progressivo disinteresse di un’opinione pubblica che ormai non crede più in nulla e in nessuno, dunque diffida persino della passata grandezza e di ciò che abbiamo saputo realizzare quando ancora riuscivamo a valorizzare le nostre risorse migliori.
Non sarebbe dovuta finire così una spedizione tanto significativa, non avrebbe dovuto lasciare dietro di sé tante ferite, tante bugie, tanti punti oscuri. Non se lo meritava un galantuomo come Desio, ha fatto del male a tutti, a cominciare dai partecipanti, e ha finito con lo svilire un capolavoro dell’alpinismo italiano oggi forse irripetibile. E allora, ribadiamo: ne valeva la pena? Probabilmente sì, ma non a tutti i costi, non pagando un prezzo così alto, non dovendo poi assistere all’astio che ha corroso l’animo di uomini che avevano resistito al gelo, alla paura, alla sofferenza, alla fatica disumana che hanno dovuto affrontare ma non alle miserie che rancore, invidia e torti recano con sé.
Settant’anni dopo ci sentiamo maledettamente più poveri.
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