Ho fatto parecchie domande al poeta Lucio Toma. Di punti interrogativi ce ne sono pochi: le domande che mi interessavano erano le sue. In un primo momento avevo pensato di arrivare alla poesia per vie laterali, perché non mi piace giocare al critico letterario. Ma così rischiavo di non centrare il punto. Per fortuna c’è la poesia, intesa come prodotto finito. Si è parlato di quella. E anche di qualcos’altro, che ha a che fare con la poesia e con la terra.
Molti anni fa – non ci conoscevamo ancora – lessi una tua poesia pubblicata su una famosa rivista [1]. Iniziava così: Riprendere la parola nascosta / che oracola brandelli / d’universo… Mi piacquero molto quei versi, con l’uso transitivo del verbo “oracolare”.
Fu una delle mie prime poesie, e risale alla plaquette autoprodotta per i tipi de Il Cinghiale ferito del rimpianto Carlo Torelli, grande intellettuale sanseverese e mio pigmalione. Zigrinature (titolo della plaquette, N. d. R.) risente delle reminiscenze di vari autori su cui formai la mia dottoranza in lettere: Leopardi, Ungaretti, Gozzano, Quasimodo… e di alcuni poeti moderni come Magrelli, già riconoscibile dal titolo stesso. In merito alla poesia che citi, dal titolo Poetare, è volutamente posta in apertura come manifesto di cosa sia fare poesia. “Poiesis” dicevano i greci, cioè quel sentire che è interrogare la realtà, l’universo intero. Da qui l’uso transitivo del verbo “oracolare”.
La tua scrittura non è mai compiaciuta e astratta. Le parole che maneggi, hanno una consistenza fisica, chiariscono il tuo modo di stare al mondo.
Esattamente. Trovo che la parola debba indicare qualcosa, lasciare una traccia del nostro sguardo sulla realtà, farsi testimonianza concreta, autentica. E perciò pulsante di vita che è materia. L’anima, lo spirito sono materia, energia dei corpi che respirano, si ammalano, gioiscono, periscono. Di questo amo parlare nei miei versi. Nell’introduzione di A gonfie vene, Plinio Perilli, riprendendo Pasternak, afferma che “La poesia è la lingua di un fatto organico, cioè di un fatto con delle conseguenze vive […]”. Vi è, quindi, quella tensione poetica tesa all’autenticità del dire il vero, crudo e nudo, senza compiacimenti.
Parli della malattia con una schiettezza impressionante, a tratti con ironia. Nomini i farmaci, i composti chimici:
D
i
o
mio,
in barba
ai miracoli
sia santificato
il tuo legame peptìdico
come in pace così in terra
e dammi oggi e sempre l’ostia
della salvezza chimica, quella
che dal fronte del Kim Jong-un
di turno – come un bambino
alle prime armi –
è la compressa incompresa pazzia
di un razzo
puntato su di me.
(Ciclosporina)
Ecco sì, questo richiama in buona parte ciò che si diceva prima sulla mia poetica. Come non scrivere di ciò che profondamente ci tocca e ci lacera? Su ciò che ci destabilizza? Siamo corpi che agiscono, subiscono, interagiscono con questioni, situazioni, contraddizioni come fatti concreti del vivere. E se vivere è anche soffrire, o soprattutto soffrire, perché non parlare di medicine, urine o water che fanno giustamente dire ad Anna Maria Curci che la mia è una “disposizione all’umor nero”?
Inizi una poesia (Sarto di vita, dalla raccolta Strada di Damocle) dicendo: Miro all’incastro del sentire / col dire… Una dichiarazione più definitiva non è pensabile.
Dovrebbe essere preoccupazione di ogni poeta, e non solo mia, trovare un’aderenza tra vita e letteratura, vita e poesia. Quel verso-dichiarazione di intenti nasceva dalla necessità di eliminare la distanza tra la profondità del sentire poetico e la possibilità di esprimerlo. C’è sempre uno iato, una cesura, un angolo cieco di incomprensione e incomunicabilità tra il poeta e il suo lettore che si vorrebbe colmare. O almeno è una sensazione che sta proprio nella scrittura in quanto tale.
Pessoa fa dire al suo eteronimo Bernardo Soares: “Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre di sentire”. Tu parli della poesia come di una tessitura, che solo quando è perfettamente compiuta coincide con la vita.
La citazione di Bernardo Soares-Pessoa in parte si ricollega a ciò che dicevamo prima circa la sfida comunicativa del poeta, tanto più in un’epoca come la nostra. Stupisce infatti notare che questa mia preoccupazione di unire il sentire col dire, per giungere alla tessitura della Vita, oggi stia diventando una sfida persa in partenza, se è vero che è continuamente “aggredita” e surclassata dall’uso-abuso dei social-media, in cui alla parola si va sostituendo l’immagine, il post, il reel e il conseguente facile consenso a suon di like. Ergo il poeta deve fare i conti anche con una sorta di esautorazione della parola che colpisce e affonda la poesia stessa. Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontani.
La sutura, il filo, il rammendo: immagini che ricorrono nella tua scrittura. Anche quando parli d’amore.
In A gonfie vene parlo tanto d’amore, della donna amata come figura salvifica, materia di sogni e nocciolo della questione che ha nutrito il mio spirito di sopravvivenza. In particolare, Bilancio d’amore resta una delle mie migliori composizioni d’amore (anche a detta di Valerio Magrelli), per quel ribadire il lavoro che c’è dietro il sentimento dell’amore, il lavoro certosino e quotidiano dello scrivere, un cesello sartoriale che si fa opera d’arte:
I tuoi gesti calibrati al dettaglio
del dare tutto il celeste dei giorni
e venuti a patti con l’anemia
dei miei anni spesso versati a suon
di parole e a volte ingrati sono
un bilancio che si fa lordo al peso
dei sensi e sordo e fa acqua e fa
sangue dai pori di un sogno acceso
oltre ogni risveglio…
Perciò la perdita, ciò che non torna come
per l’asola il bottone perduto
ha la misura tessile di un filo di screzio
che attesta il cesello sartoriale
sempre e soltanto lo screzio di un filo
che attesta il lavoro artigianale
di questo filare d’amore.
Ed in questo
resto io, l’ago della nostra serenità,
rammendo.
La tua poesia è ricca di ossimori. Plinio Perilli, nella prefazione di A gonfie vene, parla di “una cupa, aurea miniera… un’armoniosa ridda dei contrari”. Penso ad accostamenti come “stelle oscure”, “tacito baccano”.
L’ossimoro, quella “ridda dei contrari” di cui parla a ragione Plinio Perilli in A gonfie vene è una figura retorica, insieme alla metafora e all’enjambement, che adoro proprio perché spiega bene le incongruenze della vita, le sue contraddizioni, i passaggi a vuoto, le idiosincrasie.
Leggendoti ho incontrato spesso la parola “stelle”. Ogni volta il termine ha una funzione diversa: è metafora della cicatrice e astro fissato nel cielo, è ponte luminoso e negazione della luce.
È un leopardismo “astrodifferenziato”, mi verrebbe da dire. Se per il poeta di Recanati era la luna a ispirarlo nel buio della notte, a rischiarare il mio buio interiore sono le stelle che si vestono ora di luci al neon, ora diventano ponte di luce, altre volte cicatrici… Insomma, si animano di vita; le antropomorfizzo per avvicinarle alla mia condizione, renderle partecipi della loro indifferenza al dramma umano.
È intrigante l’uso che fai del calligramma, una rappresentazione grafica del testo presente in tanti poeti, da Apollinaire a Dylan Thomas a Oliverio Girondo. Ciclosporina ne è un esempio. Quanto conta per te l’elemento visivo?
L’elemento grafico-visivo, che include anche i titoli in fondo alle poesie a mo’ di sintesi in Strada di Damocle, è funzionale al lettore, che può meglio “accomodarsi” per la comprensione del testo. D’altra parte, la poesia è una forma espressiva che basa la sua fortuna sull’originale struttura in versi e questi possono intendersi come le linee di un discorso più ampio, di un disegno espressivo
Per tornare a Dylan Thomas, in una poesia, L’arte mia improduttiva, dai quasi una definizione del “mestiere di scrivere”. Ho pensato subito a In my craft or sullen art (Nella mia arte scontrosa o mestiere) del poeta gallese. Un riferimento preciso, immagino.
Bravo per averlo colto, sì. Mi colpì molto quella poesia di Dylan Thomas e credo che si evinca chiaramente. Vi sono reminiscenze, come in questo caso, che emergono a colpo d’occhio ed altre che sono più latenti.
I titoli delle tue raccolte sono calembours: A gonfie vene, Strada di Damocle. Chi ti legge capisce che non sono trucchi di scena. Le vene di cui parli, quelle che “non si vedono”, ma “si possono ascoltare”, sono le tue.
Il calembour, il gioco letterario, la finzione poetica sin dai titoli delle mie raccolte sono operazioni di drammatica serietà espressiva: guai dire a un bambino che gioca (che cioè si esprime in quel modo così sentito) che è una cosa banale e priva di regole. Per il poeta (si pensi al già citato Pessoa) vale lo stesso dettame. La poesia resta un gioco di parole con regole precise, una forma di espressione basata sull’autenticità. Quindi per tornare alla tua domanda: non c’è trucco, né magia, tutto è chiaro ed evidente, si svolge alla luce della poesia (che è artificio vero!). Le vene di cui parlo rimandano in un gioco di specchi al dolore, al sangue, alla vita.
Non hai pubblicato molto.
Sono unto di una sorta di sacro pudore che mi impedisce di pubblicare per pubblicare. Il sacro pudore di dire, in un mondo che sgualcisce la parola, che la instupidisce e imbarbarisce tra social media e pseudo-poesia, per esaudire la vanità dell’ego non mi interessa. D’altra parte, i miei stessi temi, la mia stessa poesia lo lasciano intendere. “Montalianamente” potremmo dire che è poesia d’occasione (non d’improvvisazione) che cerca di scarnificare la vita per porla alla realtà del vero – come diceva Leopardi. E tutto ciò merita tempo, decantazione, affinamento.
Vuoi bene alla tua città o la consideri il posto in cui ti è capitato di vivere? Mi viene in mente la poesia Festa Madornale:
Si spara a salve o a morte
in questo paese poco importa.
È festa comunque a maggio…
Amo imbrigliarmi, contaminarmi di realtà; quindi entrare in contatto con la comunità di appartenenza, la mia cittadina, è naturale per senso civico e deformazione poetica. In molte poesie è descritto proprio il mio rapporto difficile con essa, perché non assolve a quella vivibilità, al decoro urbano e al senso della bellezza cui anelo. La stessa poesia che citi mostra la “madornalità” primitiva e profana della festa patronale in onore della Madonna del Soccorso (tra esaltazione collettiva e imponenti fuochi d’artificio), in pratica il più fulgido esempio di ignoranza incombente, di stordimento, mentre i problemi veri restano irrisolti e intanto la politica rea non confessa ci sguazza.
A proposito di terra, produci un olio di Peranzana biologico: l’Olio del Poeta. Ci hai vinto anche dei premi.
La nostra terra spesso tradita e offesa, ma anche così preziosa, poteva non interessarmi? Potevo non fare, se “poiesis” è fare? Di qui la mia attenzione alle cose della città e del mio territorio per valorizzare il meglio che porta in seno: la terra, in particolare gli oliveti secolari e quell’olio extra vergine che è una delizia ormai riconosciuta a livello mondiale. Facile capire che il motto mazziniano di “Pensiero e azione” l’ho fatto mio. Un “pragmatismo poetico” in cui ho sintetizzato cultura e coltura – come amo ripetere – e che mi ha portato a produrre, trasformare e commercializzare a filiera corta il mio prodotto, l’Olio del Poeta: poteva chiamarsi diversamente?
Lucio Toma (San Severo, 1971) è poeta, giornalista e docente. Nel 1999 pubblica la plaquette Zigrinature (All’insegna del cinghiale ferito), seguita dalle raccolte A gonfie vene (Ianua 2006) e Strada di Damocle (Arcipelago Itaca 2019). Sue poesie sono apparse su riviste, blog nazionali e nelle antologie Letteratura del ‘900 in Puglia (Progedit 2008), Sotto il più largo cielo del mondo (Besa 2016), iPoet (Lietocolle 2017).
[1] “Poesia”, mensile internazionale di cultura poetica, fondato nel 1988 da Nicola Crocetti. Dal 2020, con l’acquisizione di Crocetti Editore da parte del Gruppo Feltrinelli, la rivista ha periodicità bimestrale.
L’articolo L’Olio del Poeta proviene da ytali..