Con La scatola onirica, il nuovo libro uscito questo mese per Lo Specchio Mondadori, Maurizio Cucchi sembra riannodare temi e motivi delle opere precedenti per muovere in avanti verso nuovi territori, in un viaggio sospeso tra sogno e realtà dove, il nostro “precario esserci”, viene còlto da un flâneur contemporaneo, “un classico vero della modernità” (Alberto Bertoni) che, ancora una volta, configura e suggerisce la nostra condizione.
Per comprendere al meglio questo movimento possiamo ripercorrere, seppur brevemente, la sua opera completa a partire da Il disperso (1976), un classico – appunto – della poesia contemporanea che segna le caratteristiche fondamentali della sua poetica. Con questo esordio folgorante, Cucchi presenta un romanzo in versi, un poema, un poemetto nel quale assistiamo alla liberazione del soggetto lirico, nonché a una destrutturazione complessiva che sembra rievocare, anche indirettamente, il “pensiero debole” di Vattimo e Rovatti. Il disperso è “l’alienato, il residuale della storia e dell’esperienza umana dentro la realtà” (Bertoni), ma anche l’uomo medio del dopoguerra còlto nelle sue incertezze, paure, ansie, passioni. E, ancora, rappresenta diverse persone umane, locutori o i testimoni della vicenda narrata. Un soggetto cangiante, quindi, polimorfico, che eludendo le sequenze narrative tradizionali si manifesta con una narrazione franta dove il punto di vista cambia di continuo: “Correggersi; essere tu, essere lui, / essere in mille punti diversi…”.
Ispirandosi a Paul Valéry, Cucchi procede per frammenti, lacerti di monologo interiore alternati a episodi, scene, immagini che si accumulano, con scarti temporali e tecniche narrative diverse, sprigionando una varietà metrico-prosodica in grado di aderire, di volta in volta, alle esigenze specifiche del testo. Siamo di fronte a una scrittura che si rifiuta di essere scrittura, che non vuole dire, che riesce a creare un linguaggio “impoetico” attraverso una fortissima rielaborazione del “poetico” completando una linea che, da Saba, Montale, Sereni, Giudici, Majorino, Raboni, Risi (cui dedica la tesi di laurea, unitamente a Zanzotto), giunge dentro la sua opera. Registriamo anche un abbassamento di tono, nella misura in cui la figura del poeta non è più il faro baudelairiano ma un osservatore sensibile, un uomo prensile calato in un’ambientazione periferica e milanese. Il risultato è un paesaggio sospeso tra sogno e realtà che si muove nel tempo: presente, remoto, memoriale, in cui ogni frammento, ogni parte, riesce, in modo organico, a ricomporsi in un quadro di insieme.
Apparizioni luminose
Del 1980 è Le meraviglie dell’acqua, l’opera successiva, in cui il soggetto diviene più lirico, con toni morbidi e cangianti, attraverso un’articolazione narrativa franta e personaggi alla stregua di apparizioni luminose, fantasmatiche (“Le sei teste sul rosso mantello”), come fossero tracce, vibrazioni oniriche che fanno breccia nella realtà. Donna del gioco, del 1987 (che con la sezione Glenn, contenuta al suo interno, gli vale il Premio Viareggio a soli 37 anni), introduce il tema della maschera, rilevantissima nella produzione successiva (Rutebeuf, Jeanne d’Arc, Malone, il Console), consentendo al soggetto di diventare “altro da sé” acquisendo vita propria, mentre Poesia della fonte (1993) intreccia storia individuale e collettiva tramite tracce, residui, lacerti di memoria. Memorabili, in questo senso, “L’uomo della Bovisa”, o “’53”, dove l’epica popolare incontra una commossa dimensione intima: “L’uomo era ancora giovane e indossava / un soprabito grigio molto fine. / Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice. / Il campo era la quiete e l’avventura, / c’erano il kamikaze, / il Nacka, l’apolide e Veleno. / Era la primavera del ’53, / l’inizio della mia memoria. / Luigi Cucchi / era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva”. Un percorso che si completa con L’ultimo viaggio di Glenn (1999) dove, accanto alla maschera di Rutebeuf, Cucchi sembra congedarsi dalla prima fase della sua opera: “Ciao, dico adesso senza più tremare. / Io ti ho salvato, ascoltami. / Ti lascio il meglio del mio cuore / e con il bacio della gratitudine, / questa serenità commossa”. Il verso si accorcia, appare meno frammentato e, complessivamente, più lineare, transitando verso la produzione poetica degli anni Duemila.
Il tema della ricerca delle origini diviene centrale, attraverso un viaggio nel tempo e nello spazio che configura il poeta come un flâneur. Passando da Per un secondo o un secolo (2003) dove, oltre la maschera di Malone, si alternano momenti di quieta contemplazione a momenti di avventura tra Villapizzone, Geda, Chengde, Dalian, a Jeanne d’Arc e il suo doppio (2008), che vede al centro una medium tramite cui si manifestano le vicende di Giovanna d’Arco e di altre presenze (come il boia, l’Angelo, Gilles de Rais), Cucchi muove verso una ricerca delle origini che dimostra l’impossibilità di coltivare il mito delle origini, e quindi il venir meno di ogni fondamento metafisico, storico, antropologico. Come in Vite pulviscolari (2009), che riduce il soggetto e il paesaggio a pulviscolo, cellule fluttuanti, mostrando come l’essenza sia sempre minima e residuale rispetto all’ordine dell’universo. Tuttavia, Cucchi non vira mai in chiave nichilistica, al contrario, manifesta una profonda adesione alla vita. Così in Malaspina (2013), nel quale il soggetto desidera orientarsi “verso un mondo più affabile / e poroso” per affondare “fra strati muti di sepolte storie”; o Sindrome del distacco e tregua (2019), in cui conta “l’insistere virtuale sulla scena, / la rapsodia sparsa e sempre minuziosa / delle circostanze” (“Il penitente di Pryp’jat’”), riabilitando, a pieno titolo, il prosimetro.
di Maurizio Cucchi
Mondadori editore, 2024
Prezzo: Euro 17
Geografia del minimo
Con La scatola onirica temi e motivi delle opere precedenti sembrano riannodarsi. Per esempio, in Quartiere di lignaggio, la prima sezione, addentrandosi in un viaggio che interroga le proprie origini passando “nel feudo / detto Malaspina, oggi paese / di Ponte Nizza”, per evocare una “geografia del minimo” dove “I tanti secoli, poi, sono corsi via, / spargendo / umano pulviscolo locale”, un’”escursione nei tempi” e nello spazio che porta alla luce un’umanità estranea a “homo oeconomicus” e più vicina alla “viva frugalità” di “Sindrome”. O Rutebeuf, che ritorna ne La sventura d’inverno con la traduzione da La Griesche d’Hiver. Eppure, ancora una volta, Cucchi muove in avanti verso territori inesplorati, liberando, con la Macchina onirica, una visione sospesa tra sogno e realtà dove ciò che conta non è decifrare possibili messaggi (“Indifferente alla possibile lettura / degli ambigui messaggi / sottostanti”), ma abbandonarsi a essi, esserne spettatore curioso e stupefatto, meravigliato e inquieto, dal momento che nulla potrà mai essere còlto nella sua interezza. Eppure, ci riguarda, come l’arte contemporanea cui dedica un’intera sezione scrivendo, appunto, “La logica ha paura dell’arte / questa dirottatrice”; o la parola stessa, dimostrando, attraverso una serie di esempi e paradossi come “In fondo […] / quando parliamo non sappiamo neanche bene / che cosa stiamo dicendo” (“Sfiorando l’afasia”). Il risultato è una dimensione trasognata e multiforme nella quale l’essere umano risulta inevitabilmente immerso, un luogo fisico e mentale dove può osservare e cogliere solo minimi gesti, tracce: “Siamo noi, il mondo / il passato / e il presente che si incrociano / nel mistero di una vicenda / per frammenti sconnessi”. Manifestando, ancora una volta, una sentita adesione alla vita: “Mi riaffaccio allora in questo tempo incerto, / trasognato quel poco e dalla mia finestra / l’occhio spaziando sui passanti / mi riporta a un vago sorriso / e così il pensiero s’inoltra, lento, / fino alle nebulosa del mio cuore”.
Articolo uscito su L’Ordine, supplemento culturale del quotidiano La Provincia di Como, Lecco e Sondrio, il 29 settembre 2024 (ordine.laprovincia.it)
Immagine di copertina: foto di Pawel Czerwinski su Unsplash
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