Giorni fa, in uno stand del manifesto, al festival MULTI, a piazza Vittorio, faceva la sua bella figura una t-shirt nuova di zecca, la stessa, onusta d’anni, appesa nel mio studio, icona della più azzeccata campagna pubblicitaria del quotidiano di (allora) via Tomacelli. La rivoluzione non russa.
Trent’anni fa. 1994
Allora – direttore il maestro Luigi Pintor – ero vice-direttore del manifesto, con Pierluigi Gigi Sullo, un compagno di grandi passioni e con la passione per il giornalismo. A lui si devono le più importanti innovazioni dopo la lunga fase iniziale, in cui i cambiamenti grafici, non pochi, erano stati rilevanti ma non avevano mai investito il formato originario broadsheet (a lenzuolo).
Prima di arrivare al manifesto avevo iniziato il mio percorso giornalistico per alcuni anni al Messaggero, dove avevo fatto amicizia con il celeberrimo gruppo dei rivoluzionari del quotidiano romano, capeggiati da Pasquale Prunas, il più grande grafico di quotidiani dell’epoca, e non solo, e poi dal suo allievo e braccio destro, Piergiorgio Maoloni. Anni dopo avrei portato Maoloni al manifesto, per un’operazione di restyling che avrebbe segnato l’inizio di una nuova stagione per il quotidiano comunista. Maoloni e Sullo formavano una coppia affiatata e operosa in un ambiente riluttante ai cambiamenti.
Ricorda Gigi, in un intervento di tempo fa sul manifesto:
In quel periodo abbiamo informatizzato il giornale, inaugurato una serie di supplementi che arricchivano il quotidiano e le sue casse (come i mensili nel ventennale del ’68, per citarne solo uno), ridisegnato più volte il giornale fino al formato tabloid, che uscì qualche settimana prima della vittoria di Berlusconi, nel ’94, e creò, con i suoi titoli e la grafica della copertina e delle pagine, un linguaggio nuovo.
Fu con Maoloni che si fece dunque il passaggio dal “lenzuolo” al tabloid, una trasformazione tutt’alto che lineare, punteggiata da assemblee infuocate, divise tra “conservatori” e innovatori, liquidati come nuovisti.
Il formato tabloid era funzionale alla stagione di battaglie che ci attendeva per contrastare, come ha ricordato Sullo, l’avvento di Berlusconi, e nel contempo per fare un’operazione spericolata di azionariato popolare che avrebbe consentito al collettivo non solo di superare l’ennesima crisi finanziaria in cui si trovava, ma di fare un discreto balzo in avanti che gli avrebbe aperto una nuova stagione di presenza forte sulla scena politico editoriale italiana.
Ricorda ancora Gigi:
in un anno raccogliemmo sottoscrizioni per sette miliardi di lire. Così che il 1994 fu l’unico anno in cui il giornale chiuse il bilancio in attivo, vendette 54 mila copie di media e, si può dire, era resuscitato.
Nelle stanze di via Tomacelli entrava così, con personaggi come Maoloni, un ventata di novità, direi di “modernità”. Nel clima nuovo ci si rese conto che un’operazione così ambiziosa, come la trasformazione in SpA e la radicale innovazione grafica – che non era solo grafica – dovesse essere accompagnata e sostenuta da un’offensiva pubblicitaria adeguata.
Ci rivolgemmo così ai milanesi di Brand Portal, guidati da Paolo Torchetti, allora, se non la prima, tra le prime agenzie interamente italiane in un settore dominato dai big della pubblicità americani, come McCann e altri.
In una recente intervista a NC, Torchetti ricorda così quell’irripetibile esperienza e la lunga scia positiva che la seguì:
Eravamo giovani […] ma era già forte in me la visione della comunicazione non come esercizio di virtuosismo intellettuale, ma come leva per cambiare le cose, per farle capitare. Grazie al successo di questa campagna, che ironizzava su una via non radicale e integralista al cambiamento, il manifesto ha visto crescere per anni in modo straordinario i suoi numeri. Quadruplicate le copie diffuse, vendute centinaia di migliaia di felpe, t-shirt e articoli. E una cosa in più: eravamo entrati, per sempre, nell’immaginario collettivo.
Da allora, in modo ricorrente, autori, giornalisti e scrittori, citano affettuosamente questa campagna, sapendo di contare su una memoria collettiva e su un background culturale ormai consolidato. Ultimo ma non ultimo, a febbraio, Massimo Gramellini ha intitolato il suo ‘Il Caffè di Gramellini’ (dedicato alla cittadina russa a cui un’addetta di Fiumicino si è rifiutata di servire una bottiglia d’acqua, facendo riferimento a fantomatiche disposizioni del Ministero, ndr) ‘L’acqua non Russa’. E in questi casi sono spesso gli amici o i colleghi che mi segnalano divertiti il molto benvenuto ‘plagio’ che è semplicemente una testimonianza di affetto per una di quelle idee che, nella vita, ci aiutano a sentire che non siamo soli. Che ci sono altre persone che, come noi, non hanno perso la voglia di sorridere con un pizzico di intelligenza. Questa fortuna è capitata a non molte campagne, mi vengono in mente ‘Di tutto di più’ di Rai, ‘O così, o Pomì’, l’inglese maccheronico di Maxibon, ‘Liscia, gassata o…’ niente… lavoro per la concorrenza (sorride, ndr).
[…]
Sarebbe interessante chiedere a ChatGpt: “Creami una campagna che si possa ricordare e citare tra trent’anni, ma investendo solo centomila euro sui media”. In attesa della risposta ci godiamo questo piccolo momento celebrativo, per una campagna che ha vinto tutti i premi possibili e per cui mi sono sentito chiedere fin troppe volte: ‘Ma davvero l’hai fatta tu?’ Rispetto a come e se l’AI sostituirà il talento umano, ho un messaggio incoraggiante che cita una brillante headline scritta dall’amico Stefano Massari per l’allora nostro cliente Gambero Rosso. ‘La vita è bella, anche se sei intelligente’.
L’articolo La rivoluzione non russa. Trent’anni fa proviene da ytali..