Francesco Erbani ha pubblicato un libro, che già nel titolo dichiara la volontà dell’autore di porsi in mezzo o se si vuole di traverso a quanto rientra nella sua civile passione di grande “cronista” di cose che riguardano Lo stato dell’arte, reportage tra vizi, virtù e gestione dei beni culturali( Manni editore). Il prologo è dedicato al ricordo di Silvia Dell’Orso e al suo Altro che musei. La questione dei beni culturali in Italia, pubblicato da Laterza nel 2002. Laureata in storia dell’arte di lei dice Erbani:
Fra i pochi cronisti che allora scrivevano di beni culturali, di città e territorio, di paesaggio… svettava per una singolare qualità: riusciva a maneggiare gli argomenti con molta maestria, ma con altrettanta maestria teneva a bada la foga che spesso coglie i giornalisti, l’irruenza che li fa innamorare di una storia e che impedisce loro di essere accurati, di approfondire, controllare, verificare.
Qualità di un mestiere che decenni fa, ovvero nel secolo scorso, resero socializzabili e progressiste le pagine culturali di quotidiani e settimanali cui collaboravano regolarmente giornalisti, storici dell’arte e dell’architettura, archeologi, urbanisti, musicologi, scrittori, intellettuali a vario titolo, uniti solo nel merito “di essere accurati, di approfondire, controllare, verificare”, e soprattutto di conoscere magistralmente ciò di cui scrivevano.
Per comprendere al meglio la nozione di bene culturale al giorno d’oggi, che è anche il giorno peggio di sempre o quasi, conviene tener conto del lato negativo della questione partendo da Erbani:
Tanta parte del nostro patrimonio che, per pura comodità, chiamiamo minore o che fa da contesto alle opere più celebrate, versa in condizioni precarie, a rischio di crollo oppure rosa dall’umidità e sepolta da vegetazione spontanea , o ancora abbandonata oppure sfregiata da usi impropri. Sono palazzi signorili in un centro storico, torri medievali o d’età classica, chiese barocche o pievi romaniche: l’elenco dei beni in pericolo si allunga a dismisura e la cura che viene prestata, siano essi di proprietà pubblica o privata, è scadente e inficiata persino dal grottesco alibi che sono troppi.
Ci si riferisce a Venezia? In larga misura certo che sì, ma in realtà a tutto il peritabile resto erbaniamente in sofferenza nel nostro paese. Torniamo per un momento a ciò che si scrisse per ytali su quanto si vede e si lamenta di quel che accade, nel più totale abbandono e miserabile indifferenza, attorno e al di sopra dell’ingresso al grande chiostro dell’ex convento agostiniano di Santo Stefano (pubblica proprietà); in breve, l’ingresso a fianco della facciata della Chiesa di Santo Stefano. E nel farlo citiamo l’appropriatissimo Erbani di cui sopra: “versa in condizioni precarie, a rischio di crollo oppure rosa dall’umidità e sepolta da vegetazione spontanea”. Esattamente quel che sbalordisce sul fronte d’ingresso di un complesso monumentale concepito e realizzato da architetti e committenti nel divenire della più raffinata cultura rinascimentale d’ambito veneziano. Ma se ci si vuole avvicinare al senso e alla genesi di quel che intendiamo ancora oggi per bene culturale, un considerevole e affascinante passo in avanti lo si può compiere leggendo il seguente brano di Città italiane, che Rudolf Borchardt scrisse agli inizi del XX secolo. Lo scrittore tedesco di fronte al “Trionfo della Morte”, affrescato da Buffalmacco (1262- 1340) nel Camposanto di Pisa, avverte il pacato entusiasmo di chi si rende conto che
la più grande opera di pittura del Medioevo, mai uguagliata in certe sue parti nemmeno più tardi, si è potuta realizzare, anche nel suo linguaggio pittorico, solo perché la città della pietra, dello Stato e dell’impero aveva pensato la figura umana come arca dell’immortalità umana e l’aveva sposata, secondo il grande stile, con lo spazio architettonico.
Qui il bene culturale è tale nel suo rendere universalmente visibile quel che fu più intrinseco, nel Trecento, al tempo di un umanesimo radicale, ciò che gli consentì di assumere per intero la complessità della storia pisana, creando così quel bene, proprio perché
la città della pietra, dello Stato e dell’impero aveva pensato la figura umana come arca dell’immortalità umana e l’aveva sposata…con lo spazio architettonico.
Borchardt, (1877-1945), scrittore altamente italianizzante, saggista, tra i grandi tedeschi di origini ebraiche, scrisse un capolavoro che è un libro ben al di là della botanica qual è “Il giardiniere appassionato”, essendo “opera goethiana … fondata sull’affinità elettiva tra la pianta e l’anima umana” (presentazione Adelphi); al dunque, oimè, sul confine tra Italia e Austria fu ucciso dai nazisti che lo avevano raggiunto nel suo paese d’elezione.
In una pagina sulla botanica italiana Borchardt scrive che
il fiore appartiene all’infinito, e il giardino non vuole perdersi nell’infinito, ma consolarsi con il limite.
Una consolazione che ha formato ammiratissimi giardini: poemi di fiori e piante, niente di più che beni culturali essenziali. In un certo qual modo nello spirito umanistico che portò a quanto si è detto su quel bene pisano, Erbani si pone sulla stessa linea ideale:
Questo libro tenta di trattare il tema dei beni culturali in Italia assecondando il bisogno di un pubblico diventato molto ampio e curioso e che soprattutto è interessato ad accedere al bagaglio di conoscenze che il nostro patrimonio può garantire e anche al contributo che esso può fornire affinché si fortifichi il senso di cittadinanza.
Forse che il senso di cittadinanza maturato da “un pubblico diventato molto ampio e curioso…interessato ad accedere al bagaglio di conoscenze che il nostro patrimonio può garantire” è valore culturale e al contempo virtù civile assai diversa, nella sua sostanza, da quel che Pisa , “città della pietra, dello Stato e dell’Impero”, nel farsi conseguenza creativa e “politica” in Buffalmacco, dette al grande affresco l’arte di mostrarsi come idea di cittadinanza, e lo fece stando al mistero del pittore che vi intravvide la “figura umana come arca dell’immortalità umana”?
Il nucleo fondante dell’indagine condotta da Erbani ha il suo termometro rivelatore nel misurarsi con quelle che sono state antiche supremazie o nel segnalare alcuni dei più recenti propositi:
Si parlerà di musei e di archivi, di aree archeologiche e di biblioteche, di soprintendenze e di centri storici. Si metteranno in evidenza gli elementi innovativi che tendono a configurare il bene culturale come un servizio pubblico, che può alleviare una fame di cultura e diventare fattore che mitiga le disuguaglianze, che facilita le relazioni fra le persone , comprese quelle che approdano in Italia da altri mondi.
Nel sottolineare in più passaggi l’impegno, la lungimiranza culturale e sociale, la maestria giornalistica di Antonio Cederna (1921- 1996), Erbani, nel capitolo “centri storici di nuovo a rischio”, sottolinea la virtù di Cederna:
insieme ad altri l’artefice della Carta di Gubbio che nel 1960 promuoveva la tutela dell’intero centro storico e non solo delle emergenze monumentali e degli edifici di pregio storico-artistico (il centro storico come ‘organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale’…un intero pezzo di città, dunque, veniva considerato nel suo insieme alla stregua di un’opera d’arte.
E sulla scia della Carta di Gubbio e dell’ ininterrotta lezione di Cederna o di Cesare Brandi, nel corso degli anni Settanta altri virtuosi si misero all’opera dall’interno di amministrazionI pubbliche sia statali che regionali, tra i primi lo storico dell’arte Andrea Emiliani (1931-2019), a lungo soprintendente di metà Emilia-Romagna (da Bologna all’Adriatico) e curatore di mostre nate dalla sapienza della scuola bolognese di storici dell’arte, quali Gnudi e Arcangeli, e dallo studio e valorizzazione di ciò che si creò in quelle terre da parte di pittori straordinari, da Emiliani considerati inseparabili da quanto significavano nella loro complessa e ammaliante storicità Bologna, Parma , Cento o le colline bolognesi, eccetera. Allora che tra Emilia e Toscana iniziano a incardinarsi nelle pubbliche amministrazioni la nozione e la pratica del bene culturale. E accanto ad Andrea Emiliani non va sottaciuta l’attività giornalistica e di pensiero di suo fratello Vittorio, prezioso tassello del virtuoso mosaico che si estendeva da Cederna ai molti che dettero vita a Italia Nostra. E apparve dell’altro in termini di virtù? Erbani:
Accade a Firenze con il piano regolatore del 1962, poi a Napoli nel 1972, dove il perimetro della città antica si estende anche al tessuto del costruito fin quasi alla metà del Novecento. A Bologna, sempre dal 1972, inizia il recupero di interi isolati assegnati a chi li abitava in precedenza. Secondo Leonardo Benevolo, illustre urbanista e storico dell’architettura, gli interventi in questa direzione hanno fatto scuola, diventando, aggiungeva, il principale vanto acquisito dai progettisti italiani in Europa.
E quando si andava a “imparare” da Andrea Emiliani nella sua Pinacoteca Nazionale, messi da parte i Carracci o il Guercino, il soprintendente ti portava, assieme a Pier Luigi Cervellati, architetto e urbanista, a vedere come stava procedendo quell’esemplare “recupero di interi isolati assegnati a chi li abitava in precedenza”. Un modello culturale, sociale e politico che Cervellati andò a spiegare anche nella sezione del Pci di Trastevere, rione con ancora degli squarci lasciati dalla guerra, e questo non a caso in una Roma che avrebbe avuto per sindaci Argan e Luigi Petroselli. Ma idee, pensieri e realizzate imprese hanno una lunga storia nel nostro paese quando di tratta di tutela, cura, vigilanza di “cose” che rientrano nei domini della storia dell’arte, dell’archeologia e nel più vasto universo di ciò che intendiamo per luoghi, servizi, o anche i silenzi di certi borghi o gli imperdibili smarrimenti dovuti a questo o a quel paesaggio. Senza rifarsi al soprintendente Raffaello al centro della Roma antica o alla militanza civile e culturale di Antonio Canova, che recuperò quanto più gli riuscì di poter fare degli innumerevoli furti d’arte compiuti da Napoleone, nel secolo scorso ci fu, per esempio, Cesare Brandi (1906-1988), storico dell’arte, teorico del restauro, nonché pietra miliare dell’Istituto Centrale del Restauro, ma anche scrittore aspro nelle sue reprimende quando si trattava di parlar chiaro del malfatto culturale. Per lui tra i nomi esecrandi quello di sir Arthur Evans, l’archeologo di Cnosso:
Che sognasse ad occhi aperti o ad occhi chiusi non v’è differenza (…) , ma che, col gusto d’un regista di Fabiola o del Quo Vadis , si arrogasse di improvvisare colonne a imbuto, scale e sale, questo riguarda molti strati di persone, e per meglio dire impegna e violenta l’essenza della cultura.
Un malfatto, oltretutto, aggravato da una “specie di azione dimostrativa per sollecitare il lato più deteriore del turismo”.
Lezione, quella di Brandi, che da culturale si fa etica e sociale, che è anche la motivazione ideale che ha portato Erbani a nulla perdere dei vizi e delle virtù riguardo ai beni culturali. Dunque, la visione del negativo in Brandi:
L’arrivo a Candia segna l’attesa delusione. Il porto veneziano che dovrebbe essere bellissimo, ora è quasi distrutto (…). C’è invece la solita edilizia casuale, sbalestrata, priva di senso, come al Pireo, come, dovunque, nei villaggi turchi dell’Anatolia. Una civiltà che non era una civiltà e che pure è riuscita a contaminare di informe le culture più antiche, a dissolverle, a cancellarle più dei terremoti.
Più che demoralizzante la visione del negativo deplorato da Erbani per quel che è accaduto con l’esposizione nel Terminal 1 dell’aeroporto di Fiumicino:
Qui a febbraio del 2024 sono sbarcate tre vetrate eseguite molto probabilmente da Giotto per la Basilica di Santa Croce a Firenze, e a Firenze custodite nel Museo dell’Opera.
Il ministro Piantedosi che ha competenza, continua Erbani, “sulle opere presenti in edifici di culto come quello fiorentino”, con l’improntitudine di chi poco o nulla sa di cultura si sarà inorgoglito nel dire: “il governo è fortemente impegnato per portare le opere d’arte verso la gente” (citato da Erbani). Una fortuna che a nessuno dei suoi sia passato per la mente di suggerire a Luca Zaia un “verso la gente” veneto con il trasporto nelle sagre del “mangi e bevi”, care alla Lega, della superba, grande vetrata veneziana di fine Quattrocento della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, fantastico capolavoro che attrasse gli studi di storici dell’arte quali Serena Romano e Lionello Puppi.
D’altra parte, banchetti, aperitivi, sfilate di moda, da decenni sono in uso in musei e gallerie da Venezia a Milano, da Nord a Sud… un caso su tutti, stando ad Erbani:
Molto scalpore ha destato, a giugno 2024, la cena promozionale di un’azienda di cosmetici organizzata a pagamento nella sala di lettura della Biblioteca Braidense di Milano, rimasta chiusa agli studiosi per tutto il giorno e dove sarebbe vietato mangiare un tramezzino.
Tutto questo e ancor di peggio con la scusa di dover “cercare” fondi per restauri o allestimenti di mostre, spesso scientificamente non più necessarie o perché curate in passato già da ben altri patrimoni di conoscenze, secondo contributi consistenti sul piano degli studi e di conseguenza con cataloghi dovuti e non effimeri. È il caso recentissimo e ancora in corso tra polemiche e sghignazzi della cosiddetta mostra che dovrebbe esserci sul “Futurismo”, a Roma mi pare, forse e nonostante il rischio del ridicolo nel cercare, direbbe Piantedosi, di “portare le opere d’arte verso la gente”. Quale gente? E poi perché? Già, perché ciò che fu realmente il Futurismo, il nostro paese e non solo, lo ha perfettamente conosciuto nel corso del tempo grazie a piccole e grandi mostre, innumerevoli pubblicazioni e imperdibili cataloghi. Su tutti quello a corredo di una mostra a Venezia assolutamente irripetibile, quale si ebbe a Palazzo Grassi nel 1986, “Futurismo & Futurismi”, curata da Pontus Hulten e a cui collaborarono tutti coloro che avevano autorevolezza in materia: da Maurizio Calvesi a Renzo De Felice, da Germano Celant a Stanislas Zadora, eccetera. Nella sua “breve (e provvisoria) conclusione”, Erbani ci sottopone alcuni casi di quel che Roberto Calasso chiamerebbe l’innominabile attuale, un rigurgito sprezzante che ben si attaglia a quel che succede o è da poco avvenuto a Pompei, Firenze, Napoli, Roma. Pompei dove “il lavoro è svolto con competenza e dedizione”, ma Pompei è Pompei e allora il nostro “cronista” non può rinunciare a dire quel che va detto, tenendosi lontano da insopportabili racconciature:
Al pubblico dei lettori o dei telespettatori viene offerta sempre la Pompei in cui si rinviene qualcosa, un affresco, il bancone di una taverna, una scritta muraria, un corredo, ciò che resta di un povero animale. È la regola del bene culturale che fa spettacolo, che stuzzica emotività, alla quale però si prestano anche archeologi, i quali non possono non sapere, e non possono non saperlo perché lo mettono in atto, che lo statuto della loro disciplina non contempla solo la scoperta a beneficio di un fotografo.
Ancor peggio, un peggio di cui Erbani è sicuramente a conoscenza: alcune di quelle sbandierate “scoperte” sono state più volte “scoperte”, e quindi all’improvviso magnificate a beneficio solo dell’esibizionismo del soprintendente di turno, subito di corsa ad emozionare il ministro pro tempore che non vede l’ora di farsi vedere a Pompei. L’implacabile Erbani:
Ma la catena di rinvenimenti, sempre registrati con aggettivazioni magniloquenti, rischia di oscurare il lavoro di fondo, quello ordinario, che tiene in piedi Pompei.
Sempre più di frequente la scena archeologica viene tremendamente abusata, “come quando, era il giugno 2023, si è trovato un affresco in cui compariva una pietanza malamente identificata come una pizza” (Erbani). A onor del vero per Pompei è passata la migliore archeologia mondiale. Così con Karl Schefold (1905-1999, tedesco di nascita e di studi, fuggito in Svizzera negli anni del nazismo, in un suo saggio pubblicato in Italia nel 1960, scrivendo sugli affreschi pompeiani, dice:
L’accordo fra libertà e necessità è il motivo dominante della più bella copia di dipinto greco che sia pervenuta fino a noi; raffigura Achille che rinuncia a Briseide. Qui non ci troviamo soltanto di fronte alla bellezza giovanile di Nikias, alla forza di Eufranore, bensì riconosciamo una nuova immagine dell’uomo.
Così, archeologo anche a Pompei, Eugenio La Rocca con Riflessi di Roma a Pompei: alcuni aspetti della colonizzazione, pubblicato nel 1993. La Rocca come Pier Giovanni Guzzo o Rita Paris, allora ai suoi inizi, cioè nei primi anni Ottanta, protagonisti o testimoni della indimenticabile stagione archeologica romana guidata da Adriano La Regina. Guzzo, che ha lasciato il segno di ciò che significa archeologia dalla Calabria all’Emilia Romagna, dal 1994 al 2008 alla soprintendenza di Pompei, semplicemente così nel profilo di socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei:
I miei campi di ricerca sono sempre stati motivati da necessità che il lavoro di tutela poneva. Oltre alle edizioni degli scavi compiuti, ho redatto studi specifici sui comprensori culturali antichi all’interno dei quali ho operato, e su classi di produzione che hanno caratterizzato quegli stessi comprensori.
Ma senza alcun osanna per i suoi lunghi e proficui anni pompeiani, né tantomeno esultanza nei riguardi di questo o di quel ministro. Impossibile infine non ricordare un libro che, chi si appassiona a simili avventure di storia e di arte, non può non conoscere Pompei di Paul Zanker, lì dove
era nata per la prima volta nella storia la cultura come sfera di vita in sé conclusa …uno spazio della vita privata separato dalla sfera pubblica.
Al di là delle celeberrime Ville, è proprio nelle case di Pompei che si costituisce lo “spazio della vita privata” in cui l’arte, in ogni sua espressione, è voluta, è commessa, è vissuta, ed è da questo contornarsi di “cose” e paesaggi, per cui provi un grande piacere (in Plinio il Giovane magnam capies voluptatem), capisci che l’idea di civiltà equivale a dire bene culturale.
Torniamo al libro e a un caso, nient’affatto isolato, di vicende che un tempo si sarebbero elencate tra i “misteri dei ministeri ed altri misteri”, mentre a noi basta dire che è cronaca sconcertante dell’innominabile. Si vuol dire di Eike Schmidt, vorace storico dell’arte di più opportunità possibili. Erbani in una pagina veramente emblematica:
Eike Schmidt, per esempio, dopo aver formalizzato la sua candidatura a sindaco di Firenze, che in queste pagine veniva data per certa ma, appunto, ancora senza bollino ufficiale, ha effettivamente chiesto un’aspettativa come direttore di Capodimonte appena designato e il ministero gliel’ha accordata.
A costui in precedenza gli erano stati affidati gli Uffizi. Riprendiamo quella pagina:
Ha poi corso per conquistare Palazzo Vecchio, ma è stato battuto sonoramente. In caso di successo, aveva annunciato, avrebbe rivoluzionato l’assetto del Museo del Novecento, confermando sia la sua attenzione ai beni culturali fiorentini sia la sua inveterata avversione nei confronti di un rivale, il collega Sergio Risaliti, che di quel museo è direttore. Appreso l’esito del voto, Schmidt ha assicurato ai suoi elettori che resterà comunque in consiglio comunale come capo dell’opposizione. E Capodimonte? Merita il museo napoletano di restare ancora nel limbo? Ha una plausibilità scientifica, culturale e amministrativa considerare la direzione di quel luogo come un incarico part-time, un’opzione lavorativa al pari della poltrona in un consiglio comunale distante alcune centinaia di chilometri?
Ciò detto, di Eike e suoi similari, almeno da vent’anni a questa parte, abbondano gli uffici centrali e periferici del ministero in via del Collegio Romano. Fatte salve le debite e meritorie particolarità s’intende, che tuttavia ci sono e resistono a (faticoso) vantaggio dei beni culturali. Solo a mo’ di esempio o di segnali confortanti. Nel paragrafo sugli Archivi di Stato c’è l’ammonimento “gli archivi sono la chiave d’accesso alla storia” di Claudio Pavone “approdato alla storiografia dopo una carriera da archivista”. Continua Erbani:
Ma sono anche ‘il luogo in cui s’instaura un patto di cittadinanza fra lo Stato e tutti noi’, aggiunge Diana Toccafondi, per molti anni alla guida della soprintendenza toscana, da qualche tempo in pensione, rimasta comunque un riferimento per tanti colleghi di diverse generazioni, impegnatissima in una militanza a difesa di questo patrimonio. Col seguire i modi e il non senso di un malfatto che ha sconvolto l’intero sistema pubblico dei beni culturali, dagli archivi e biblioteche ai musei, alle gallerie, eccetera. Ormai gli Archivi di Stato, salvo rare eccezioni, non sono più sede dirigenziale, vuol dire che a guidarli sono funzionari che provengono da altri settori oppure sono archivisti molto preparati ai quali, però, non è stato dato il tempo di acquisire la necessaria consapevolezza sia storica che di tipo gestionale. Si è spezzato qualcosa nella trasmissione di un sapere che invece aveva bisogno di passare con gradualità da una generazione all’altra.
Un’analisi questa che andrebbe tatuata sulla fronte di chiunque stia operando nel pubblico e nel privato, stabile o precario che sia in soprintendenze o gallerie, a maggior ragione in fondazioni ibride tra interessi particolari o a supporto eccessivo e indebito di pubbliche insufficienze. La stessa appassionata musica da parte dell’architetta Carla Di Francesco, che prima della pensione è stata testa pensante e saggia sia da soprintendente che da segretaria generale del ministero. Un ministero particolarmente iellato nei primi decenni del terzo millennio, se non altro per il susseguirsi di riforme distruttive alla stregua di più bombardamenti, e che si sarebbero guadagnate ferocissimi aforismi da Beniamino Placido o da Ennio Flaiano, e perché no, anche da Alberto Arbasino. Erbani che coglie della Di Francesco il lato inevitabilmente stoico:
Ritengo, e non sono la sola a dirlo, che la vera rivoluzione organizzativa sarebbe di lasciare tutto com’è, ma finalmente dotare gli uffici di personale e risorse sufficienti allo svolgimento dei loro compiti. Questa è in verità l’azione più rivoluzionaria e razionale che si potrebbe fare , di cui il ministero ha maggiormente bisogno e che nessuno ha mai fatto.
Non se ne avrà Erbani se insisto con Carla Di Francesco, che non molla la presa sui guai prossimi venturi del Ministero della Cultura, come ha ripetuto solo qualche giorno fa in relazione ad una nuova riorganizzazione approvata ufficialmente nel marzo di quest’anno. Di Francesco:
Ho già avuto modo di dire che di questa riorganizzazione non c’era affatto bisogno, che ripercorre una strada già sperimentata tra 2004 e 2006 e ben presto abbandonata per sovrapposizioni, conflitti interni tra i Dipartimenti, poca chiarezza; che allunga la catena del comando con conseguente appesantimento di ogni azione delle strutture centrali e periferiche; che prima di arrivare a regime provocherà un altro lungo periodo, calcolabile in anni, di incertezze e scarsa operatività per gli uffici del Ministero, che saranno sottoposti a processi di divisione e riaccorpamento di Istituti, da attuarsi attraverso mobilità del personale e riassegnazione di sedi e attrezzature.
Se questa è l’immagine precisa dipinta da un Hopper donna e architetto diviene impossibile accettare un simile involucro, il ministero e i suoi dintorni, che non solo è diventata “cosa” inspiegabile, quindi anche vagamente inquietante come certe realtà potenzialmente dannosa. Insomma, una specie di Alien che ci farà perdere per intero quanto di più prezioso appartiene alla storia di un paese, i suoi beni culturali.
Erbani dedica un illuminante capitolo, nel verso del negativo o dell’innominabile, a ciò che fu presentato come “un passo storico per l’Italia”, compiuto nel 2015 per volontà dell’allora ministro Dario Franceschini. Partì allora l’infausta impresa “dei concorsi per i direttori dei musei autonomi”: che se stranieri fossero stati costoro, meraviglie indicibili ne sarebbero venute per l’Italia, il paese che l’istituzione Museo aveva, per prima al mondo, creato nel XVI secolo. Ricorda Erbani:
Il bando era destinato a designare chi avrebbe guidato per tre anni, rinnovabili per altri tre anni, gli Uffizi o Capodimonte , Brera o la Galleria Borghese , il Museo archeologico di Reggio Calabria o la Reggia di Caserta.
Erbani spiega perfettamente l’insensatezza culturale e l’opportunismo politico di chi avviò quel “passo storico per l’Italia”:
Era evidente, e il ministro lo sottolineava, che i beni culturali diventavano il terreno sul quale sperimentare la rottura di una prassi amministrativa. Da luogo propriamente o impropriamente identificato con la conservazione, in cui la parola museo trascinava una scia di significati polverosi, a luogo in cui si compiva il grande salto verso lo svecchiamento, l’innovazione, l’adeguamento a standard internazionali. Quasi un modello per tutta la pubblica amministrazione. Il risvolto politico era ricercato e reso manifesto. Come intuibile era la possibilità che la riforma potesse tornare utile al ministro in termini di traguardi futuri.
Traguardi non raggiunti da Franceschini e per fortuna evitati anche dal suo partito di appartenenza. Comunque, un misto di provincialismo culturale e di arroganza del potere capace di scardinare quanto di buono sopravviveva ancora negli uffici centrali e periferici di quel ministero veramente iellato, e che in via del Collegio Romano ha visto affastellarsi una sorta di Torre di Babele sovrastata da ministri confusi e imprevedibili, addirittura irrisi per un argomentare giudicato oscuro e incomprensibile, quello che ha subito travolto il babelico Giuli nel sottoporre ad esame il suo “piano” alle commissioni cultura di Camera e Senato.
Erbani, per scrivere ciò che bisogna conoscere, si è fatto drone non artificiale, bensì sguardo penetrante e accuratissimo nel sorvolare “ vizi, virtù e gestione dei beni culturali”. Libro il suo da consigliare con fervore a chi in simili questioni già è coinvolto, ma ancor di più a coloro che intendono farlo, al dunque preparati nel superare ostacoli più che innominabili. Per esempio, come quello rappresentato da una commissione esaminatrice chiamata a scegliere i più meritevoli nel dirigere Musei come Capodimonte, gli Uffizi, le Gallerie dell’Accademia di Venezia, eccetera, e a presiedere gli esaminatori fu chiamato Paolo Baratta, economista, politico, “con una vasta esperienza di management culturale” (Erbani), a lungo presidente della Biennale di Venezia, ma notoriamente non storico dell’arte, né archeologo o archivista o museologo. E ancor peggio con il Caso Estense. Erbani:
Non rientra però in un criterio di valutazione né di tipo manageriale, la designazione di Alessandra Necci quale direttrice delle Gallerie Estensi vera e propria, con sede a Modena, la Pinacoteca di Ferrara, il Palazzo Ducale di Sassuolo e altri luoghi ancora.
Costei, scrittrice e consulente di diversi ministri, dal 2023 direttrice delle Gallerie Estensi, che per Adolfo Venturi e Giulio Carlo Argan rappresentavano il “sancta santorum” per gli storici dell’arte. A scegliere la Necci fu Massimo Osanna, soi disant archeologo e di casa in tempi recenti nello iellato ministero. Il minuzioso Erbani ha compilato una pagina intera con i nomi, evidentemente molto più meritevoli della prescelta da Osanna, che ignoro se sia ancora direttore generale dei Musei. E di ridicolo in ridicolo: fu Dario Franceschini a scegliere l’archeologo Zuchtriegel chiamato a dirigere il parco archeologico di Pompei, nome emerso da una commissione esaminatrice presieduta da Marta Cartabia, costituzionalista ed ex ministra della giustizia ma di cui non sono noti studi in archeologia. Ma simili, validissime personalità nei loro specifici campi, non farebbero bene a rifiutare quel genere di incarichi del tutto insensati? La politica, quando non è all’altezza di ciò che politicamente si aspetta la migliore e trasparente cittadinanza, causa tsunami, come quello combinato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dalla direttrice Renata Cristina Mazzantini, che ha “segnalato”, secondo la Repubblica, al ministero e anche alla prefettura i nomi di quaranta dipendenti della Galleria, che dissentivano a buon diritto dalla decisione di presentare in quella pubblica istituzione il libro di Italo Bocchino Perché l’Italia è di destra. La Mazzantini, probabilmente ben inserita nelle terrazze culturali e politiche romane, e che in una intervista al Giornale dell’Arte, dopo la sua nomina alla Gnam, ha esordito con un affabile “tutti mi chiamano Cristina”. Ma più avanti nella stessa intervista, Cristina è indicibilmente chiara: “Ora avrò la fortuna di gestire un hardware moderno ed efficiente, ma dovrò perfezionare il software. E questo per me significa definire un brand del museo…”. Basta così . Chissà se la digitalica direttrice troverà in qualche brand il barlume del principio deontologico che giustifichi il suo “ segnalare” a chi di dovere i nomi dei dipendenti della Galleria. Quaranta cittadini in dissenso rispetto a una proposta assurda e impropria, almeno rispetto a quanto fino ad ora ha significato la Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove quei cittadini lavorano. Se scendi su diversi capitoli e paragrafi percorsi dal drone Erbani, ci s’imbatte in molto di buono, che però è costretto a muoversi tra bandi, concorsi, attese interminabili e difficoltà d’ogni genere, a cominciare dalle condizioni di precariato e da salari più che minimi. Erbani: “ Una prima svolta si è avuta nel 2015 quando è nata l’associazione ‘ Mi riconosci ? Sono un professionista dei beni culturali’. Fin dal nome scelto, chi l’ha promossa ha voluto rompere il velo d’invisibilità che grava su un settore polverizzato ma dove spiccano eccellenti professionalità. Si è inteso così denunciare la scarsa considerazione per la qualità e la quantità dello studio e dell’impegno necessari per essere buoni archeologi o buoni bibliotecari, e facendo risaltare il valore sociale del lavoro nei luoghi dove si fa cultura , a prescindere dalle ricorrenti retoriche sul loro eccezionale pregio”. Comunque: “ Nel frattempo il blocco delle assunzioni, i concorsi a lungo rinviati e l’incalzare dei pensionamenti hanno svuotato soprintendenze e luoghi. In alcune regioni la situazione è comatosa, ma si cerca di farvi fronte reclutando volontari. In Calabria, per esempio, sono previsti in organico 19 funzionari presso la soprintendenza archivistica e bibliografica, ma ce n’è uno solo” ( Erbani).
Chi vi ha lavorato o li ha visitati più volte per suo interesse e piacere musei, biblioteche, spazi per mostre, scavi archeologici, giardini, sale da concerto, oppure ha compiuto viaggi di studio e conoscenza, eccetera, praticando chi di questi patrimoni o servizi culturali si occupava durante ultimi trent’anni del secolo scorso, una volta letto il libro di Francesco Erbani sarà preso, Erbani innanzitutto, dallo sbalordimento di essere vissuto in una specie di età dell’oro della cultura, in special modo di quanto si iniziava a chiamare un bene culturale. L’autore del libro in questione ha sparso qua e là accenni significativi di quanto avvenne allora, a partire dalla nascita nel 1974 del Ministero per i beni culturali e l’ambiente, che ebbe per suo primo ministro Giovanni Spadolini. E mentre si stava chiudendo quel decennio, a Roma esplose una travolgente stagione archeologica che archeologi come Adriano La Regina, soprintendente, Filippo Coarelli, Giovanni Guzzo, e poi molti altri ancora, per esempio chi archeologo era nella soprintendenza capitolina come l’indimenticabile Anna Sommella Mura, credettero tutti al progetto di un’archeologia fattore di visioni urbanistiche rivoluzionarie per Roma, cui parteciparono appunto Benevolo, Insolera, Manieri Elia, Aymonino.
Un insieme di personalità dal genuino talento sul piano culturale, e che il sindaco Luigi Petroselli ascoltava e incoraggiava, con il sostegno creativo e operativo di Renato Nicolini, il turbine di una politica culturale metropolitana che attraverso cinema-musica-teatro-mostre-poesia e il seminare di biblioteche le periferie della capitale, avrebbe segnato un’epoca, purtroppo assai breve, per l’inimmaginabile felicità di vivere Roma come cultura totale. Furono anni quelli “serviti” dai grandi quotidiani (Corriere della Sera, Repubblica, la Stampa) mediante pagine culturali indispensabili per una vasta cittadinanza, cui collaboravano i dotti e i giornalisti che da quei dotti erano conosciuti e stimati. Sempre allora Paese Sera e il manifesto si erano dotati di paginate riservate solo alla storia dell’arte antica e contemporanea, all’archeologia, e alle questioni più impegnative e politiche riguardanti i beni culturali: due quotidiani cui non mancavano articoli e interviste con nomi quali Manfredo Tafuri, Nello Ponente, Argan, Francis Haskell, Salvatore Settis, Gombrich, André Chastel, Andrea Carandini.
Un tema questo dell’informazione culturale giustamente a cuore di Francesco Erbani. A Napoli intanto, su iniziativa della Fondazione Napoli Novantanove, scese giù per la città un’eruzione di autentica voglia culturale e civile di conoscere realmente la città, e questo avvenne con il progetto “Monumenti porte aperte”, che conobbe per più anni la partecipazione di folle paragonabili, in una certa misura, a quelle esultanti per la vittoria dello scudetto, solo che in questo caso la soddisfazione era data dal poter conoscere chiese come San Giovanni a Carbonara o gli affreschi del Domenichino e del Lanfranco o monasteri di norma non visitabili o che cosa si poteva ammirare in palazzi privati e in pubblici archivi o antichi tribunali. Un immergersi nel bene culturale che era di per se stesso un bene culturale.
Sempre a Napoli, per volontà e sapienza del soprintendente Raffaello Causa ci fu nel 1979 l’esaltante mostra “Civiltà del Settecento a Napoli, 1734-1799”. Causa:
La mostra come punto di arrivo di una nuova stagione di studi , e rivolta ad una più approfondita conoscenza del fenomeno nella sua interezza. Non si poteva, come nel 1938, limitarsi alla sola pittura, ma bisognava necessariamente spaziare dall’una all’altra esperienza di linguaggio; e però la mostra è risultata tanto ampia da dover occupare più sedi. Né v’era altro modo perché la rassegna riuscisse, seppure in sintesi emblematica, il più possibile esplicativa: ci auguriamo possa valere anche per un più saldo impegno di conservazione e tutela.
Nel 1985, Nicola Spinosa, soprintendente, nel dedicare la Civiltà del Seicento a Napoli a Raffaello Causa, scomparso l’anno prima, completa, da grande storico dell’arte qual è, il progetto immaginato dal suo maestro e scrive:
Il progetto di una ‘grande’ mostra sul Seicento napoletano, Raffaello Causa l’aveva già maturato nei giorni in cui si celebravano , tra Capodimonte e Villa Pignatelli, la Floridiana e Palazzo Reale, i fasti del Settecento a Napoli. E non fu senza senso, specie per chi, come lui, aveva dedicato al secolo di Battistello e Cosimo Fanzago gran parte dei suoi interessi di studio e della sua passione per l’arte napoletana.
Un modello quello , interpretato da Causa e da Spinosa, che andrebbe applicato da chiunque intenda svolgere l’impegno in soprintendenza con la più assoluta dedizione agli studi di storia dell’arte o di archeologia, eccetera. Naturalmente, se si vuole stare dalla parte della conservazione, della tutela e della conoscenza del bene culturale. Ecco perché il libro di Erbani va letto e sottolineato in più pagine, nella speranza di un ritorno al futuro, che è quanto si ottenne a Roma, a Napoli e a Venezia in quegli stessi anni di fine millennio. Simili i criteri metodologici sia storico-critici che di coinvolgimento di altre istituzioni e saperi, e fu così che l’amministrazione comunale veneziana, nel programmare mostre e attività culturali in funzione del suo vasto e articolato patrimonio museale, divenne il centro promotore di una rifondazione dell’intera politica culturale della città.
A sinistra: Venezia, Andronio Canova, Dedalo e Icaro. A destra: Antonio Canova, la statua di Paride con sullo sfondo i rilievi sempre di Canova nelle condizioni in cui si trovavano prima della mostra “Venezia nell’età di Canova”, Venezia 1978.
Di qui una collaborazione tra istitutuzioni pubbliche e private che in seguito scomparve, lasciando soltanto le briciole di un rincorrere scomposto di progetti e iniziative buttate a casaccio pur di alimentare l’incendio turistico. Fondamentali nel senso della riscoperta, o meglio, di una scoperta di beni culturali più che trascurati (rinati però secondo la scuola di storici dell’arte e soprintedenti quali Andrea Emiliani o Raffaello Causa) e che dettero luogo ad alcune mostre indimenticabili: “Venezia nell’età di Canova” e “ Venezia e la peste”. Indimenticabili, nel dare un contributo decisivo alla conoscenza di Antonio Canova, fino ad allora quasi dimenticato e abbandonato nei depositi, e con Canova il neoclassicismo. Il catalogo di quella mostra resta passaggio obbligato a livello internazionale per gli studi canoviani e l’epoca neoclassica. Mentre con “Venezia e la peste” si capì come, nel corso di tragedie disumane ricorrenti, la Repubblica aveva saputo ricostruire se stessa e la sua città, mettendo in primo piano il genio e le opere dei suoi grandi artisti e architetti, da Palladio a Tiziano, da Sansovino al Tintoretto, da Longhena ai Bassano, da chi volle i lazzaretti a Giambattista Tiepolo.
In che anni quelle mostre e non sono quelle? Seconda metà degli anni Settanta, tenendosi, la squadra comunale, a stretto contatto con storici dell’arte come Rodolfo Pallucchini, Francesco Valcanover, Sergio Bettini, Giulio Carlo Argan, i quali potevano intendersi perfettamente con l’allora giovane Giuseppe Pavanello e altri allievi della scuola di Pallucchini, chiamati a curare quelle mostre.
Ma nella speranza di tornare a quel futuro, si inizi con l’imparare a memoria quanto scritto da Francesco Erbani nel suo libro.
Immagine di copertina: Pavimento nella chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli (© Franco Miracco)
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