
Pietro Cardelli, Andrea Donaera e Rebecca Garbin sono i tre vincitori dei Premi Ceppo Selezione Poesia Under 35 del 69° Premio Internazionale Ceppo, presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi. I tre vincitori sono anche finalisti al Premio Ceppo Under 35: l’11 maggio 2025, infatti, saranno votati a Pistoia dalla Giuria dei Giovani Lettori (www.premioceppo.it).
Pietro Cardelli (Mugello 1994), Tu devi prendere il potere (Interlinea, Novara 2023)
Andrea Donaera (Salento 1989), Le estreme conseguenze (Le Lettere, Firenze 2023)
Rebecca Garbin (Milano 2001), Male minore (Vallecchi, Firenze, 2024)
Autobiografia e poesia
In questo suo primo libro, Tu devi prendere il potere, Pietro Cardelli pubblica testi scritti dal 2013 al 2022, ordinati cronologicamente in otto sezioni (Allestire una difesa, I Padri e i figli, Del mondo, Costellazione, Tu devi prendere il potere,The entire history of you,La radice, A te che leggi), tre delle quali erano già uscite, in parte e con varianti, nel 2019 per Marcos y Marcos a cura di Franco Buffoni nel XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea.
Nel medesimo quaderno, con leggere varianti, era comparsa anche la serie di sette prose Memory che si intercalano, senza altra suddivisione interna, ai testi, risalenti al quinquennio 2018-2022, pubblicati in Le estreme conseguenze da Andrea Donaera, già autore di varie raccolte di versi, di romanzi e racconti, di saggi.
Rebecca Garbin, con Male minore, è al suo primo libro, diviso in cinque sezioni (La casa di Serravalle, Milano è un altro mondo, Heirlooms, Ido, Recoaro Terme…) aperte da un prologo, Una storia vera.
Proprio Garbin in Male minore, nella sua ambiguità lucianea, insinua nel lettore un dubbio che vale per tutti e tre i poeti in causa e in generale per ogni scrittura lirica e auto-finzionale: fino a che punto credere all’autobiografia esibita in questi testi? Fino a dove giunge la costruzione del personaggio che dice “io”? Quanto sono trasfigurate qui le “storie vere” di cui si parla? E poi: che rapporto c’è, se c’è, con la tradizione (anche del contemporaneo)? Che rapporto tra verso e prosa? Quali sono le funzioni tematiche e narrative portanti? Che cosa fa di questi testi non una raccolta di frammenti, ma degli organismi coerenti, dei libri veri e propri?
Rebecca Garbin cuce insieme le sezioni iniziale, centrale e finale di Male minore distribuendo in esse i dieci testi che hanno come titolo V. seguito, tranne che nel testo finale, da un numero da 1 a 9, ma non nell’ordine naturale, bensì costruendo la sequenza V.1, V.3, V.5, V.7, V.6, V.2, V.4, V.8, V.9, V. (qualcuno vi riconosce un significato matematico-cabalistico?). L’iniziale puntata rinvia a Viviana, una delle presenze femminili che entrano in questi versi, vive e morte insieme, tra realtà e leggende folkloriche che ci parlano delle anguane, dette anche “Vivane”, appunto: “le anguane sono donne con la pelle di serpente / ragazze morte, dicono / che abitano solo l’acqua dolce”. A Viviana appartiene il leit motiv di un “ostinato” allitterante, “Vive ut vitas vivi”, nucleo sapienziale del libro: “e questo è quanto / questo è quanto basta”. Il detto latino vive ut vivas vivi (vivi in modo da vivere la vita di un vivo, in modo da vivere veramente) viene trasformato con il cambio di una sola lettera in “vivi in modo da evitare la vita di un vivo”, perché morte e vita convivono (“in casa nostra ci abitavano gli altri”, con rinvio, forse, a The others; “Non esiste cosa morta per davvero / nella grotta delle anguane”).
Donaera sceglie invece come trait d’union del suo libro le prose, numerate da 1 a 7, titolate “Memory”, che rievocano le feste natalizie dell’infanzia, quando “dal Ventiquattro all’Uno” i bambini della famiglia allargata erano in qualche modo uniti, giocavano, guardavano la tv o ridevano inorriditi dei grandi, madri che lavoravano sempre più stanche, padri che fumavano e bevevano. Ora che di padri e madri è rimasto ben poco, i figli ne hanno preso il posto e “ora che siete a tavola, siete seduti, vi fanno una foto, siete, siete uniti, inorriditi”. La poetica memoriale è scevra di qualsivoglia idillica nostalgia, si avverte anzi una tensione che potrebbe preludere alla tragedia e conclude comunque con la notazione che generazione dopo generazione si ripete l’orrore. La memoria non salva, i ricordi dei tempi della scuola, delle feste in famiglia, degli amici, dell’amore, o sono in sé negativi o si rovesciano nella negatività del presente e nell’assenza di futuro.
Per Cardelli, quelle di Memory sono (a parte il pezzo che chiude la raccolta, Un diario di campo, e due prosimetri, Notte e L’assioma) le uniche prose del libro, che presenta dunque una soluzione mediana tra il mantenimento della versificazione (a parte il prologo di Una storia vera e di Dedizione) in Rebecca Garbin e la presenza decisamente prevalente della prosa in Pietro Cardelli.
Ma al di là del dato quantitativo, comunque anch’esso significativo del rapporto con la tradizione, le prose di quest’ultimo sembrano quelle in cui la gradazione del linguaggio lirico, pur variata, è più accentuata. Nella sua raccolta, in assenza di espedienti strutturali come quelli sopra ricordati per gli altri due autori, la compattezza del libro è minore, anche perché, come nota Stefano Dal Bianco nella Presentazione, ha “i tratti tipici di un libro d’esordio, a cominciare dall’arco temporale di gestazione – una decina d’anni – bene attestato dalla scansione cronologica delle sezioni interne e dalla varietà delle soluzioni stilistiche”.
Memoria e romanzo familiare
Andranno allora evidenziate le ricorsività tematiche e formali che danno identità a questo fare poetico, essendo tra l’altro alcune di esse comuni anche agli altri due autori. In primis c’è, per tutti e tre i poeti, il dato esistenziale, la narrazione autobiografica, la memoria che costruisce il soggetto.
Per Cardelli questo aspetto arriva fino a creare un vero e proprio romanzo di formazione, che proietta verso un’auspicata età della responsabilità, personale e collettiva in una dimensione anche generazionale: “C’è la storia personale e c’è la storia collettiva, intrecciate e irrisolte…La storia personale è l’Appennino. La storia collettiva è lo spazio occupato e in disuso, i quotidiani e i telegiornali, il colore e la posizione delle bandiere” [da Costellazione, in corsivo nel testo].
La postura generazionale è presente pure in Donaera, per il quale tuttavia non sembra esserci proiezione verso un futuro diverso dal presente, connotato dalla crisi del soggetto e della sua generazione, dal disfacimento del corpo e del senso in un contesto ambientale asfittico e bloccato.
Per Cardelli, invece, “siamo molto lontani dal sentimento di fine della Storia…Qui comincia il futuro…la vita adulta…coincide con l’apertura al mondo” (Dal Bianco). Pur sullo sfondo, emerge la dimensione politico-civile del fare e dello scrivere di Cardelli, determinata sicuramente dall’impegno reale in un collettivo fiorentino e anche dal modello fortiniano. Ci sono riferimenti espliciti a Brecht, alle morti sul lavoro (Mulinuccio), alle tragedia del passato remoto e familiare (Tomba di Sipra ‘44) e di quello più recente e collettivo del terrorismo, alla militanza politica (Costellazione).
Secondo Leardini, anche in Garbin “si nasconde una forte dimensione politica”. In effetti tale dimensione politica è molto implicita, si dovrà individuare anche qui almeno nelle tragedie della storia e della famiglia, nella sezione Ido, in Mio nonno era un Nazista, dove colpisce la citazione di Paul Celan in bocca al nonno morente: “Scavatemi una tomba dentro l’acqua /perché là non si sta stretti”. All’aria come luogo di “sepoltura” delle vittime “passate per il camino” di Todesfuge si sostituisce qui l’acqua come “tomba” del carnefice: “Nonno tu dall’acqua ci sei nato e la conosci: / non importa quanti morti, non si rompe / il patto stretto col diluvio” (A Lourdes dopo la guerra).
Per Donaera la paralisi del soggetto, il suo annichilimento non sembrano lasciare spazio all’intento politico-civile che non sia quello di denunciare una vita individuale, familiare e collettiva abbrutita nella sua passività.
Eppure anche qui il soggetto lirico sente “un’urgenza…gettarsi nella catabasi vorticosa della sua memoria per provare a porre un ordine”; l’“ordine” e la “forma” che lo dà, sono in Cardelli parole chiave (Dal Bianco). Per lui poesia e azione politica hanno uno scopo comune, quello di mettere un po’ di ordine nel caos del mondo e muovono dalla non accettazione dell’esistente: “Quando come unico fine resta l’accettazione / si finisce per perdere anche tutto il sacro / che c’è / nelle cose” (corsivo mio). La poesia, la letteratura (quella che Calasso definiva “assoluta”), possono aiutare, appunto, in un recupero, tutto laico, della sacralità dell’essere, che in Cardelli avviene attraverso l’uso di allegorie che rinviano ancora a Fortini, in particolare in testi come La radice, La costellazione, Il cane,
In Garbin il recupero della sacralità dell’essere avviene attraverso la dimensione mitico-folklorica. “Molte creature si trasformano in queste pagine, l’autrice stessa ha scritto questo libro con la forza della metamorfosi: qualcosa di rapace in lei preda il reale per farne visione” (dal risvolto di copertina di Isabella Leardini). Vedi ad esempio la figura archetipica del serpente, che se non ha la circolarità dell’Uroboro, simbolo dell’eternità dell’essere nel suo ciclo di trasformazione, è comunque “il mio primo ricordo: la vipera sul gradino e mia madre che non aveva paura. Si conoscevano” (Una storia vera) e “Sono io che cambio pelle ad ogni inverno” (V.6) e “Ho strati diversi di pelle / e ogni corpo mi cambia la forma, la faccia. / Ogni cosa si trasforma” (Esercizi di autocontrollo).
Ai tre autori è comune una disposizione narrativa che si realizza in particolare nei frammenti di un romanzo familiare: l’abbiamo visto in Memory per Donaera, lo possiamo ritrovare in I padri e i figli di Cardelli.
Si manifesta soprattutto in Garbin, la cui geografia familiare ci porta da La casa di Serravalle a La casa di Recoaro a Milano, ancora a Recoaro Terme e Milano nella sezione Heirlooms (Cimeli di famiglia) e infine di nuovo a Recoaro Terme, conca di smeraldo dove i fossili e i morti escono dalle montagne, come recita il lungo titolo dell’ultima sezione del libro. In Milano è un altro mondo (Milano è l’altro mondo? “In certi posti non esisti per davvero / nel dispiegarsi degli ingressi (Porta Volta, / Porta Nuova, Garibaldi e via dicendo)”), titolo della seconda sezione del libro, “Mentre io, sul diretto che affaccia sul Lambro / mi chiedo cosa resta di Milano”, si risponde: “Resta in piedi solo lui, il Monumentale. / Quello che era bianco è diventato trasparente / o di metallo, e fanno male / le gengive per il caldo.”; e in particolare, tra i tanti morti vivi e morti in vita, il monumento funebre a Maria Beruccini, “la fidanzatina”, secondo la leggenda suicida per amore. Ma anche a Recoaro “Dopo il ponte morte / -così lo chiamano, da dove vengo io- / c’era la tenuta di famiglia, stava lì / ben prima del ponte…La verità è che passa accanto al cimitero, / per questo il ponte Garbin si chiama ponte morte.” (La casa di Recoaro II). E infine “Per me la porta è sempre aperta / c’è posto in mezzo ai morti (Mausoleo Garbin, Cimitero Monumentale).
Tre voci diverse ma affini
Qual è infine l’impressione più forte che ognuno dei tre autori sembra lasciare nel lettore? Tre voci diverse ma affini, “a pochi centimetri dal baratro”, per resistere ai tempi con la parola della poesia.
In Donaera direi “le estreme conseguenze” del lavorio sulla lingua, con una fitta trama di anafore, allitterazioni, rime e rime al mezzo, replicatio, paranomasie che producono un progressivo potenziamento del senso, ma soprattutto con un ritmo ribattuto che può ricordare il bebop della prosa beat generation o il rap contemporaneo (già elevato a dignità letteraria da Sanguineti):
Qualcosa, non sai cosa, si è staccato, spaccato –
tematizzi: non riesci; simbolizzi: non riesci; fai
qualcosa: non sai cosa, non riesci – e la casa è
di carta, ti pare, tutta una scoperta; e sollevi la
coperta: ci sei, come ieri, come eri – come eri
sempre stato, ti pare: ma poi ti appari come un
te prima di esser nato e hai coscienza, ora, di
te, e hai paura: hai freddo, hai caldo, e non sai
quanto dura – tematizzi: non riesci; simbolizzi:
non riesci; fai qualcosa: non sai cosa, non riesci;
esci
Ti resta lo stacco, lo spacco – il grido
lasciato silenziato nelle cuffie,
la bottiglia piena lasciata andare,
il poco pavimento praticabile,
apri, esci, spacchi, stacchi,
sei come un tempo: solo: non hai paura:
nell’affanno sospetto fai alla svelta,
anche se i treni passano
tutti uguali, passano, ogni mezz’ora:
“Cosa dirti?”, ti dici: “A te la scelta”.
Ritorni. La porta lasciata aperta.
Chiudi. Fai innanzitutto l’inventario
del tuo privato che hai distrutto. Poi
scoperchi armadi e cassetti – in realtà
cerchi un qualcuno a cui dire “Ci sono,
non so cosa ho fatto, si è rotto tutto”
[trovi (come già eri sicuro) solo
te, nello specchio a muro].
Ecco il testo incipitario della raccolta, Solus ad victimam, dove l’io, scisso in un tu, è solo davanti a sé stesso, davanti al tedio della propria irrequietudine che gira a vuoto, davanti alla “distruzione” del proprio privato e di tutto. Ma ciò nonostante “Resisti Donaera”, si dirà il tu monologante, e la resistenza, l’esistenza sta nella musica della scrittura, nel ribattere con ostinazione la stessa parola o, spesso, quasi la stessa parola, in endiadi o con piccoli slittamenti di significato, fino alla rima, per tessere una partitura che dia senso al non senso.
Al cuore della poesia di Garbin è l’unheimlich per eccellenza, la morte (è forse questo Il male minore), che è qui il doppio della vita, poiché i morti vivono tra noi e i vivi lo sono solo in apparenza, in un’atmosfera di incombente tragedia (nel segno di una maestra del romanzo “nero”, Shirley Jackson), in cui la luce manca, la terra diventa nera, tutta la città diventa sotterranea:
Per me la porta è sempre aperta
c’è posto in mezzo ai morti –
torneremo a non guardarci
nel cassetto di cemento che divide corpo e corpo,
tutti quanti avremo addosso
il nostro vestito migliore,
l’abito da sera troppo largo per le ossa
e sarà una grande festa
perché una festa è sempre meglio
di un funerale quasi vuoto,
in cui nessuno piange
e anche i vivi non si guardano negli occhi.
I miei morti sono quelli che alle feste non venivano invitati
quelli di troppo che non se ne vanno,
neanche se cerchi di farli sparire
e lasci vuoto il mausoleo.
“Io sono di quei morti che si lasciano morire,
che trovano la porta sempre aperta
e non chiedono il permesso di entrare”.
(Mausoleo Garbin, Cimitero Monumentale)
Il percorso decennale di Cardelli attraverso il rapporto con l’altro (il sé stesso del passato, le generazioni precedenti, la famiglia, la donna amata, i compagni) è quello della comune fatica di vivere, di superare il disfarsi caotico della realtà in un tempo in cui “A noi tutto è precluso. Accampiamo scuse e mai una lotta”, e il corpo stesso “si concede alla decomposizione”. “Tu devi prendere il potere” su di te, si dice il soggetto, trovare il tuo posto nel mondo, prendere le responsabilità, personali e politiche, della vita adulta, dare ordine e senso al mondo, attraverso la forma dell’azione e della parola poetica.Forse è il tuo modo di esistere che è così, che deve essere così, padre. Plasmare le cose, carpirne la forma: scavarle, conoscerle e poi mutarle. Ogni sabato, ogni fine settimana, per sempre e indietro nel tempo. Una modalità differente di guardare alla vita. Io che voglio capire i perché e tu che cerchi il come, la spiegazione più vera. Mi chiedo a cosa porti il tuo affaccendarti, questo continuo costruire, distruggere e poi ricreare: un demiurgo come padre, questa è la constatazione. Se io provassi, sbaglierei, rovinerei le cose, farei un danno. Il tuo è un comportamento atavico, questo capisco, di nonni muratori abituati a resistere al caldo e alle intemperie, a conoscere le angolazioni, gli spigoli, i novanta gradi dei fili a piombo sospesi sulla rena: innalzare strutture, costruire paesi, muretti, case in cui dormire, case dove difendersi. Un rapporto diverso con le cose: io così distanti, voi così sincere. E in questa fisicità, in questa abilità, donarsi a chi si ama, senza ricompense o traguardi a cui affidarsi. Eccola però la somiglianza, il tratto vero che ci eguaglia, e scovarlo è una sofferenza che non ha alternative. Sta negli scheletri ossei, nelle strutture armate, nei cementi che si formano nelle betoniere, in queste costruzioni resistenti al tempo, oltre le grammatiche. La lingua è un corpo a più piani, una struttura verticale – e in questa voce che parla – così ostinata, assurda, disperata ma sincera, a pochi centimetri dal baratro – riconosco un respiro comune, il battere e il levare della spatola quando riempie i recessi dell’intonaco. La forma è un principio d’ordine. (I padri e i figli, 7).
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