
Chi ha avuto il privilegio di nascere in un’Italia ancora capace di sognare, ricorderà senz’altro un furetto brasiliano che saettava in campo con indosso la maglia nerazzurra della Grande Inter di Herrera: era Jair da Costa, che ieri se n’è andato all’età di ottantaquattro anni. Fu suo il gol con cui la compagine del “Mago” si aggiudicò la seconda Coppa dei Campioni consecutiva, dopo aver battuto l’anno precedente il Real Madrid di Di Stéfano e Puskás, ormai a fine ciclo ma ancora in grado di incutere timore a chiunque. Contro il Benfica, il 27 maggio 1965, si giocò su un terreno di San Siro ridotto a risaia, tanto che il suo tiro beffardo, sul finire del primo tempo, ingannò un portiere di qualità come il portoghese Costa Pereira: fu una “papera”, d’accordo, ma non era certo facile controllare un pallone trasformato in saponetta, per giunta se a calciarlo era stato uno dei funamboli più talentuosi della sua generazione. 1 a 0 e Inter in Paradiso.
Non sempre i brasiliani hanno fatto fortuna alle nostre latitudini. Jair sì, perché possedeva doti speciali, a cominciare dall’allegria, dal sorriso stampato sul volto e da un fascino che andava al di là delle prestazioni sportive. Era, infatti, uno dei simboli della rinascita, della crescita, dello sviluppo e del benessere, in una Milano che diventava sempre più protagonista e a quei tempi era davvero la “Capitale morale” del nostro Paese. Oggi molti di quei simboli son venuti meno, lo stesso calcio ha smarrito la sua epica, la passione popolare si è rarefatta, gli eccessi, economici e nella definizione dei calendari, hanno fatto il resto, e sinceramente ci assale un senso di tristezza se ripensiamo a ciò che è stato e purtroppo non è più.
Eppure, quell’asso che guizzava da una parte all’altra, quell’esterno destro imprendibile, quell’estroso fuoriclasse che ha illuminato tante domeniche e tanti mercoledì di coppa, quell’emblema di una stagione felice e, temiamo, irripetibile ci teneva aggrappati se non a un sogno, quanto meno alla speranza di poter tramandare qualcosa alle nuove generazioni. Ora se n’è andato, raggiungendo lassù capitan Picchi, Sarti, Burgnich, Facchetti, Suárez, Mariolino Corso e tanti altri miti di un tempo che vive solo nei ricordi, nelle orecchie di chi ascoltava le radiocronache di Ameri e Ciotti e le telecronache di Carosio, nel cuore di chi festeggiava sobriamente una messe di trionfi e si lasciava andare a un attimo di gioia. Diciamo, dunque, che Jair ha contribuito a forgiare una generazione di tifosi nerazzurri, innamorati di un conducator argentino che procedeva a suon di massime scolpite nella pietra, col supporto di un gruppo di ragazzi che non erano certo dei santi ma avevano un’etica e un senso della responsabilità che erano alla base dei loro successi.
Se ne va, insomma, Jair e ci lascia sempre più soli, con la certezza che il Novecento sia ormai finito da parecchio e il dubbio che il nuovo secolo non sia mai iniziato; o, se pure è iniziato, non ce ne siamo accorti. Sarà che ci divorano nostalgia e amarezza, sarà che non abbiamo più idoli né eroi, sarà che di questo “spezzatino” spalmato su quattro giorni non sappiamo che farcene, sarà che ci manca il profumo dell’erba e della terra, da quello dei campetti di periferia a quello maestoso di San Siro, sarà un po’ tutto questo; fatto sta che anche il nostro asso carioca ci ha detto addio e adesso ci domandiamo cosa raccontare a figli e nipoti, ostaggi del presentismo e di una sorta di non periodo nel quale è diventato quasi impossibile appassionarsi a qu
L’articolo L’ala che faceva volare i nerazzurri proviene da ytali..