L’uovo è nell’iconologia del cristianesimo simbolo di rinnovamento legato alla natività e alla resurrezione della Pasqua come rinascita di speranza nel mondo. Anche Pesach (la Pasqua ebraica) è festa di rinascita per la liberazione degli israeliti dalla schiavitù d’Egitto. Il destino ha voluto che da noi a seguire la ricorrenza religiosa ce ne sia una di rinascita laica: il 25 aprile, festa di liberazione dalla dittatura e dal nazifascismo, premessa di superamento della monarchia e di un’affermazione democratica basata sui principi e i valori della Costituzione repubblicana nata in quella stagione di fiduciosa speranza di rigenerazione.
La Festa della Liberazione non è un rito stancamente ripetuto per forza d’inerzia, ma il rinnovamento di un impegno valido nel presente come rilancio di memoria collettiva operativa, utile a non dimenticare ciò che è stato, vigilando nel presente per evitare che quel passato torni a farsi presente sotto mentite spoglie. Oggi è quanto mai attuale la necessità di tornare ad affermare la centralità dei valori basilari del rinascimento postbellico Novecentesco fondato sulla fiducia nella ricostruzione fisica e nella rinascita culturale, in funzione della costruzione di una nuova casa comune democratica fondata su solide basi culturali (studio, educazione, formazione, lavoro, ricerca).
Partigiano
Ad avere l’onore e l’onere di tenere vivo il dovere della memoria dei fatti sono gli ultimi testimoni rimasti di quegli eventi è innanzitutto l’ANPI, l’associazione dei partigiani con pochi sopravvissuti molti dei quali giovani di allora, staffette più che combattenti. Il testimone è stato poi raccolto da figli e nipoti delle vittime della Shoa e dei partigiani alcuni dei quali hanno male interpretato il messaggio e i contesti (penso alla nascita delle Brigate Rosse o all’estremismo dei coloni che perpetuano logiche coloniali). Poi c’è la memoria della progenie dei fascisti, repressa e inespressa perché non elaborata a sufficienza, intangibile.
Torniamo ai partigiani, cioè coloro che parteggiano …per la giustizia, l’uguaglianza, la libertà, la pace, messe a repentaglio da invasori e occupanti stranieri con la complicità di sodali nostrani. Sono combattenti civili irregolari che si organizzavano in gruppi per opporsi a eserciti regolari in una guerra asimmetrica che devono però combattere in modo regolare, cioè nel rispetto delle regole. I partigiani italiani usavano la violenza nel rispetto di un codice d’onore che impediva loro di aggredire civili e di fare tra loro ostaggi, com’è avvenuto il 7 ottobre con il rapimento di giovani che facevano festa ballando nel deserto.
Altro aspetto da tenere a mente è che la minoranza e i diversi non sono parassiti del corpo sociale, ma fattore fondamentale di vitalità nell’ordinamento democratico. La maggioranza degli italiani sosteneva il regime fascista e l’alleanza con i nazisti, salvo poi additare a posteriori i tedeschi come invasori e causa della sconfitta del fascismo, dimenticando di essere stati noi a farli accomodare in casa nostra. Quindi, i partigiani sono una minoranza critica che nuota controcorrente, sono avanguardia minoritaria rispetto a una maggioranza complice o silente, sentono stretto il ruolo di spettatori e si fa attori di cambiamento.
Scriveva Antonio Gramsci in Odio gli indifferenti:
“Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. …L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti” (11 febbraio 1917).
Insieme a coloro che restano alla finestra e a quelli che si girano dall’altra parte stanno quanti scendono in campo senza studiare, seguono il loro branco ripetendo slogan ideologicamente pregiudiziali. Costoro sono pericolosi perché hanno precise convinzioni, sbagliate, e vanno contrastati culturalmente e politicamente. Non sono esclusiva di una parte sola, ce ne sono dappertutto.
Il ruolo del partigiano si prolunga tuttavia oltre il momento dello scontro fisico, il campo di battaglia da militare si fa poi civico con una funzione che si perpetua nel tempo, sempre verde: partigiani sono quanti si rifiutano di stare a guardare e decidono di impegnarsi sul campo per l’innovazione politica, economica e sociale. Non sono solo quanti hanno combattuto allora, ma quanti continuano a farlo quotidianamente, progressisti e riformisti, una comunità composita che s’impegna in un processo graduale finalizzato in prima battuta a vincere la guerra, ma in realtà a vincere la battaglia più dura, quella della pace, che non è punto di arrivo ma tensione permanente, nel senso di impegno a tendere verso un orizzonte ideale che si allontana man mano che ci avviciniamo facendosi reale. Le fasi sono:
resistenza e liberazione (combattimenti armati e sensibilizzazione culturale contro il potere dominante),
riforma e rinnovamento (definizione di nuove regole per l’esercizio del potere e il rinnovamento politico e culturale, etico e morale),
vigilanza e monitoraggio (a presidio, tutela e garanzia di principi e valori),
aggiornamento permanente (l’assetto non è statico, non si raggiunge una volta per tutte ma deve adeguarsi alle condizioni variabili in divenire).
Dico tutto ciò perché in molti guardano all’ANPI come a un’accolita di non aventi diritto che si arrogano un ruolo improprio non avendo preso parte agli eventi. Oggi l’ANPI è ancora in prima linea nella custodia e nell’attuazione dei valori della Costituzione, quindi nella tutela democrazia e nella promozione della memoria di quella grande stagione di conquista della libertà che fu la Resistenza. Non ci dev’essere intento nostalgico o proiezione d’identificazione in altre vicende (è successo in Italia con il terrorismo, che non era lotta partigiana), ma volontà di difendere e far presente i valori di libertà e democrazia con iniziative per la promozione di studio ed educazione, formazione professionale e lavoro, per finalità di progresso democratico della società (cfr. Statuto ANPI). La resistenza è guerra di liberazione e rifondazione, mai di sopraffazione.
Venezia 25 aprile 2025, Festa di San Marco e della liberazione
La festa di liberazione non celebra la vendetta e la guerra, ma una pace che porta al di là facendosi ponte tra opposte visioni; è ponte nello spazio (impegno per espandere e spandere pace) e nel tempo (per vivere il presente, guardare al passato con serenità, rivolgersi al futuro con la fiducia di chi sa che la pace si può fare, ma si deve poi difendere, senza riproporre contrapposizioni e rinnovare condizioni conflittuali).
Per questo il 25 aprile dovrebbe essere iniziativa unitaria e unificante. Non lo è. Il nostro è il tempo della divisione. Non solo tra schieramenti, ma anche all’interno di ciascuno di loro. Ci sono i pro e i contro all’interno dei partiti e degli schieramenti, con polarizzazione trasversale incapace di unire, frammenta mischiando le carte in tavola. Pro difesa ma contro il riarmo, pro-pace considerata giusta quando coincidente con la propria ma contro trattative considerate una resa. A destra e a manca dominano le spaccature.
A Venezia, città dei ponti, i momenti istituzionali sono stati l’alzabandiera in piazza San Marco e in piazza Ferretto. Le manifestazioni popolari si sono svolte in separata sede, al mattino: nella città insulare, in campo del ghetto dov’è confluito un corteo acqueo (nel senso che non ha smesso di piovere un momento) partito da campo SS. Apostoli dopo due tappe davanti alle lapidi per i martiri del 7/8 luglio 1944 in campo Santa Sofia e Santa Fosca; a Mestre, con una grande manifestazione di cittadinanza organizzata dal Laboratorio Climatico Pandora. Poi nel pomeriggio si è tenuta una festa popolare a San Francesco della Vigna organizzata dal Laboratorio Occupato Morion e poi un corteo da Sant’Elena al monumento della partigiana dove si è parlato e cantato.
Ho voluto andare al ghetto, per sentire l’ANPI e il presidente della comunità ebraica nei cui interventi ho trovato elementi utili alla costruzione di dialogo nel quadro della urgenza d’imboccare una prospettiva di dialogo, anticamera di pace.
In coda al corteo che ha raggiunto campo del ghetto, dietro uno striscione contro il riarmo, c’era un vivace gruppo di ragazzi che sventolava bandiere di Rifondazione Comunista e palestinesi, urlando slogan che in alcuni casi potevano essere pertinenti, ma in altri decisamente impertinenti. Lo slogan “con ogni donna che lotta in Palestina, la resistenza è viva e continua” è generico su base emotiva, ma può starci riferendosi alla resistenza contro Israele invasore e occupante dei territori (per l’appunto) occupati. È però in contraddizione con il tentativo di sottrarre e bruciare la bandiera Ucraina portata dalla dissidente russa e militante del Partito Radicale Katia Margolis, quasi a dire che c’è invasione e invasione. “Ucraina, Yemen, Palestina NATO terrorista, NATO assassina” appare invece un tantino semplicistico, le istituzioni internazionali sono un tema importante che non ammette scorciatoie di piazza. “Razzi razzi razzi da Gaza a Tel Aviv, la pace in Palestina si fa così” è provocatoriamente infantile, sbagliato e pericoloso. Innanzitutto, perché si piega alla logica dell’equazione pace=vincita in armi del più forte, poi perché giustifica attacchi indistinti alla popolazione civile che sono sempre criminali, infine perché alimenta il clima di contrapposizione e confusione che fa coincidere il governo con stato di Israele, e gli israeliani con gli ebrei tutti. Di gravità inaudita è invece stato lo slogan riportato nelle cronache da Milano “Cosa vogliamo? vogliamo tutto, lo stato d’Israele dev’essere distrutto”, la barbarie dimostrata da Netanyahu e dal suo governo non deve far perdere la bussola e far cadere nella trappola della legge del taglione, da cui si esce tutti perdenti.
Non bisogna sottovalutare, ma neanche esasperare episodi e circostanze come questi. Sono comunque segni allarmanti perché basati su strumentalizzazioni, semplificazioni e ignoranza; sono dannosi alla causa della pace che è esercizio di composizione di diversità. Non bisogna “tollerare” il diverso, è poco utile far pazienza e sopportarlo, bisogna invece riconoscergli il diritto ad essere, ascoltarlo, rispettarlo, valorizzarlo come opportunità critica perché il diverso non è nemico, è solo altro da noi e per questo ci può dare nuovi occhi …che non solo quelli della testa a volto coperto avvolta in una kefiah che abbiamo visto in corteo, caricaturale e fuori luogo. Inopportuna la presenza di bandiere quando il codice di comportamento che ci si era dato prevedeva di abbassarle entrando in campo, allo stesso modo in cui la Brigata Ebraica di Milano ha abbassato le bandiere a Milano entrando in piazza alla fine del corteo.
Trovo però che il bilancio della manifestazione sia positivo. Si poteva far meglio? Certamente, ma poteva andar peggio, non hanno prevalso scontro ed esasperazione dei toni. Si è riusciti a non far degenerare la situazione, i relatori hanno fatto regolarmente i loro interventi grazie a noi tutti, cittadinanza veneziana che abbiamo consentito ai ragazzi di esprimere le loro contestazioni e che ai relatori non fosse impedito di parlare o di essere interrotti. Mi pare sia stato dato un buon segnale con l’ordinato svolgimento della manifestazione. Che non ci fosse volontà di nuocere era evidente dai supporti delle bandiere, senza manici di legno, solo i piccoli tubi di plastica flessibili degli impianti elettrici, non atti a offendere.
Il disagio serpeggiava non solo tra gli ebrei che sentivano violato lo spazio del campo sentito come il cuore della comunità, ma anche nella maggioranza dei manifestanti molti dei quali pronti a interporsi in caso di disordini. Una cosa simile era avvenuta qualche settimana fa in campo San Luca, dove un gruppo di giovani ebrei hanno urlato “Hamas terroristi” verso i manifestanti che contestavano il concerto di Noa al teatro Goldoni. Qualcuno era partito al loro inseguimento, fermato dagli stessi manifestanti. È positivo che in entrambi i casi si è dato modo di esprimere contestazioni e dissenso anche aspro, senza farlo degenerare in scontro, non c’è stata violenza grazie a un servizio d’ordine spontaneo e autogestito. Giochiamo però sul filo di lana per l’esasperazione generata dal disastro epocale in corso che le comunità ebraiche fanno fatica anche solo a nominare, con una reticenza speculare a quella da loro contestata a quanti non hanno condannato subito e senza esitazioni il vile attacco criminale alla popolazione civile da parte di Hamas. È solo una minoranza di esponenti delle comunità ebraiche che critica apertamente il massacro d’innocenti da parte di Israele.
Il dissenso si esprime non solo rumorosamente, ma anche esprimendo la diversità dei punti di vista con discrezione e determinazione. Proprio così si costruiscono i ponti. Lo hanno fatto il Presidente della comunità Ebraica Dario Calimani e la segretaria dell’ANPI Tamara Ferretti. Molti spunti interessanti nell’intervento di Calimani che dice cose importanti, seppure costringa a leggere tra le righe, non ci sono riferimenti espliciti, tutto implicito, sottinteso. Apre il suo discorso con un cenno al lutto per Papa Francesco che il governo israeliano ha voluto ignorare e di cui forse Netanyahu ha in privato gioito. Accenna ma non riesce a nominare Gaza e a prendere le distanze dal massacro in atto, di cui si parla in termini generici e generali, astratti. Rinnova l’allarme per il crescente antisemitismo e lamenta l’assenza della politica.
Diplomazia non è evitare di parlare dei problemi, ma farlo con onestà intellettuale, nel rispetto della verità dei fatti senza nascondere le divergenze e al tempo stesso senza considerarle invalicabili, alimentando lo scontro a tutti i costi.
Criticare Israele è possibile e legittimo, il suo governo ha la responsabilità di essersi macchiato di politiche criminali, come specularmente ha fatto Hamas. Se siamo arrivati a questo punto è perché le popolazioni di Israele e Gaza hanno lasciato spazio agli estremismi, alle ideologie d’eliminazione fisica dell’avversario, all’esercizio autoritario del potere.
La teoria dell’evoluzione di Darwin non afferma che nell’evoluzione prevale il più forte, ma il più adatto, il più utile allo sviluppo e all’evoluzione della specie quindi determinante non è l’individuo singolo ma colui che si dimostra capace di costruire cooperazione di società, ed è dalla società civile che occorre ripartire. È tempo che l’opinione pubblica avvii una rivoluzione culturale permanente, terreno fertile per la semina di un nuovo inizio, insomma è bene tornare all’uovo che, come diceva Bruno Munari, “ha una forma perfetta benché sia fatto col culo” da una gallina che lo genera e ne è generata, noi.
Immagine di copertina: A destra Tamara Ferretti segretaria nazionale ANPI, a sinistra Dario Calimani Presidente della comunità ebraica di Venezia
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