
L’8 e 9 giugno si voteranno cinque referendum abrogativi: quattro riguardano alcune regole del mercato del lavoro, e uno la legge del 1992 che regola la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. Attualmente un adulto straniero, cittadino di un Paese che non fa parte dell’Unione europea, deve risiedere legalmente da dieci anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza. L’obiettivo del referendum abrogativo è ridurre da dieci a cinque anni questo periodo di residenza. Alba Lala è di origini albanesi, ha 27 anni e da 24 vive, studia, lavora, sogna in Italia, a Genova, ma non è cittadina italiana. Un assurdo tutto nostrano che riguarda migliaia di persone nel nostro Paese.
Ciao Alba, ci racconti la tua storia?
«Sono arrivata in Italia quando avevo solo tre anni, con mia madre, mio padre e mia sorella, che aveva solo sei mesi. Non è stato un viaggio facile, i miei genitori hanno fatto una scelta obbligata e hanno deciso di prendere la strada del mare».
Avete viaggiato su un gommone?
«Sì, con tantissime altre persone e la mia sorellina di sei mesi. Far tacere una bambina che piange, nel buio della notte tra le onde alte, non fu facile. Avevo solo tre anni, ma rivivo ancora quei momenti attraverso i racconti. Allora era l’unica strada, la normalità per molte altre famiglie che stavano cercando una vita migliore altrove. Una vita che nel nostro Paese non era più garantita».
Di cosa ti occupi?
«Sono un’operatrice sociale in un CAS. Incontro molti migranti. In 20 anni nulla è cambiato».
Da quale città dell’Albania siete partiti?
«Da Fier, a sud del Paese».
Siete partiti mossi da motivazioni economiche?
«Mio nonno era già in Italia, a Genova, dal 1994, mio padre e mio zio lo avevo raggiunto qualche anno dopo. Con il loro lavoro mantenevano il resto della famiglia rimasto in Albania. Poi siamo partiti noi per riunirci tutti insieme. Tra costi e burocrazia, era impossibile aspettare un permesso di soggiorno, tra l’altro i miei non parlavano l’italiano e negli anni Novanta era tutto molto complicato. Così, per una scelta obbligata, hanno deciso di viaggiare per mare. Per quanto già lavorassero, e fossero integrati in Italia, era comunque difficile per uno straniero a quei tempi conoscere anche le dinamiche burocratiche».
Dove siete sbarcati?
«In Puglia, poi da lì un treno ci portò direttamente verso Genova».
Come è stato crescere in Italia?
«Fortunatamente i miei genitori mi hanno subito iscritta all’asilo. All’epoca non parlavo italiano, però il bello dei bambini è questo, non ci sono differenze e un modo per comunicare lo si trova sempre. C’è stato poi un periodo in cui ero un po’ confusa, portavo a casa le paroline italiane che sentivo all’asilo e mia madre non mi capiva. Non lavorando e occupandosi solo di me e mia sorella, non parlava italiano. Poi, pian piano, ho capito che dovevo utilizzare la mia lingua nel contesto casalingo, la lingua nuova con gli amici, gli insegnanti, a scuola o comunque fuori».
E poi?
«In terza elementare i miei genitori hanno comprato casa e ci siamo trasferiti in un altro quartiere. E proprio in questo nuovo quartiere penso di aver conosciuto la prima persona che ha iniziato a “seminare” su di me».
Spiegaci meglio.
«Mi ritengo un albero con radici albanesi ma cresciuta e fiorita a Genova. Quando sono entrata in questa nuova scuola ho conosciuto anche una nuova insegnante. Eravamo nuove entrambe in quel contesto. Arrivata in classe ci chiese di presentarci, dire il nostro nome e da dove venivamo. C’erano bambini di diverse etnie e provenienze. Ascoltai con interesse tutti ma nel momento in cui dovetti presentarmi dissi solo “Alba”, senza aggiungere che venivo dall’Albania. Era il 2005, e nell’immaginario comune l’albanese era visto come uno spacciatore, un assassino, insomma solo percezioni negative. Nonostante fossi piccola, avevo già capito, e me ne vergognavo».
Quindi cosa fece l’insegnante?
«La maestra avvertì il mio disagio, aprì il registro e vicino al mio nome lesse “Albania”. E disse esclamando “che bella che è l’Albania!”. Mi ricordo che sobbalzai sul banco cambiando posizione. Da che stavo tutta ricurva e chiusa su me stessa, mi rialzai con le spalle ben aperte e dissi “sì, io sono albanese”. Mi sentii accettata e fu come se avesse piantato un primo seme di consapevolezza su me stessa, su chi fossi e come sarei cresciuta. Negli anni questa persona è rimasta per me un punto di riferimento».
Crescendo hai invece subito episodi di razzismo?
«Credo di aver patito sulla mia pelle quello che io chiamo “razzismo istituzionale”. Il primo episodio risale alle medie, quando la mia classe sarebbe andata in gita a Malta. Quando mi proposero il viaggio sapevo già che il documento che avevo in tasca – il permesso di soggiorno – non mi avrebbe permesso di prendere l’aereo e volare in altri Paesi al di fuori di quello di origine. Realizzai, dunque, di non essere uguale ai miei compagni di classe. Qualcosa ci differenziava. Fino a quel momento ero cresciuta con l’idea di essere uguale a loro, ma quando ci diedero il fogliettino da portare a casa per questa gita, mi inventai subito una bugia. Ero consapevole del fatto che se avessi voluto partecipare, i miei genitori avrebbero dovuto perdere giorni di lavoro per chiedere i visti al consolato e all’ambasciata a Milano».
Una vita portata avanti con i permessi di soggiorno…
«In buona sostanza, sì. Ora ho un permesso di soggiorno a lungo termine, che però comunque mi ha limitato in tante cose che avrei voluto fare nella vita».
Tipo?
«A 18 anni il mio sogno era diventare una carabiniera. Puoi provare il concorso fino a un certo limite di età. Ovviamente tra i requisiti c’è la cittadinanza italiana. Ho raggiunto quel limite di età senza essere cittadina italiana e quindi senza poter accedere alla candidatura. Alla fine ho dovuto pensare a un piano B per la mia vita, ho dovuto ridefinire i miei sogni. Il fatto di non avere un documento in tasca che ti permetta di essere uguale agli altri è una cosa che mi ha ferito e mi ferisce nel profondo».
Come mai non hai ancora la cittadinanza italiana?
«È per una questione burocratica che nessuno aveva mai spiegato né a me, né alla mia famiglia quando – in questi anni – siamo andati a rinnovare i nostri permessi di soggiorno. La legge prevede che ogni volta che fai il rinnovo del permesso devi comunicare e confermare la tua residenza, per testimoniare che sei rimasto in Italia. Nessuno però ci aveva spiegato che questa comunicazione al Comune fosse obbligatoria. Si chiama “rinnovo di dimora abituale”. Purtroppo, non avendolo fatto prima, a 18 anni, quando ho iniziato a girare io per i vari uffici, è come se l’iter per la cittadinanza fosse ripartito da zero. Finalmente, a dicembre di quest’anno, saranno trascorsi 10 anni e potrò almeno fare la domanda per la cittadinanza italiana. Per averla poi, chissà. Potrebbero trascorrere altri quattro anni. Dipende da Roma…».
A conti fatti, dopo 30 anni in Italia ancora potresti non essere cittadina italiana.
«È una situazione assurda. Molte persone oggi mi dicono che a 18 anni avrei potuto fare ricorso. Ma una ragazzina non pensa a queste cose, abbassa la testa scoraggiata e accetta di ripartire».
Nel frattempo, però, sei cresciuta e hai acquisito consapevolezza.
«Sì, molte persone hanno avuto i miei stessi problemi burocratici. Vuoi per cavilli della legge, vuoi per ignoranza della lingua. Inoltre oggi sono la vicepresidente del CONGI. Il CONGI è un coordinamento che è nato insieme al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Nasce da una “call” che il ministero ha fatto richiamando a Roma le seconde generazioni attraverso un’iniziativa che si chiamava “filo diretto con le seconde generazioni”. Queste associazioni hanno dialogato dal 2014 al 2016 e nel 2016 hanno deciso di costituirsi in un coordinamento nazionale».
Di cosa vi occupate?
«Siamo un coordinamento che vuole rappresentare le associazioni di giovani con background migratorio in maniera unitaria, sia a livello nazionale, sia internazionale. Nel 2017 siamo nati ufficialmente attraverso la sottoscrizione di un protocollo d’intesa e abbiamo ritenuto importante fin dall’inizio lavorare su scuola, lavoro, cultura, sport e partecipazione. Abbiamo scritto un manifesto che si chiama “il manifesto delle nuove generazioni italiane” che portiamo avanti e in giro per l’Italia, nelle istituzioni, e con tutte le persone con le quali ci rapportiamo per dire che noi esistiamo, seguiamo queste linee guida e questo è il nostro impegno per un’Italia migliore».
Arriviamo al quesito referendario sulla cittadinanza.
«Siamo noi i firmatari di questo quesito, ossia siamo tra coloro che dal 15 agosto 2024 hanno lavorato sul tema della cittadinanza con la consapevolezza che fino a quel momento la politica non era riuscita a far nulla. Allora ci siamo presi l’impegno di pensare come voler cambiare questa legge. Certo, non è assolutamente esaustivo, ma portare un secondo quesito e altre 500mila firme era impossibile. Quindi abbiamo preferito iniziare a cambiare qualcosa. Una piccola modifica che in realtà agevolerebbe più di due milioni e mezzo di persone. Beneficerebbero persone anche come me che in Italia ci sono cresciute, vivono, lavorano, studiano».
Perché quindi votare sì al referendum?
«Voglio chiarire che la modifica dei requisiti per la cittadinanza riguarda solo i tempi per fare richiesta, che si riducono da 10 a 5 anni. Ciò vuol dire che restano saldi gli altri requisiti, come i carichi pendenti. Dunque la propaganda sul fatto che ci sarebbe meno sicurezza viene meno. Stiamo chiedendo di legittimare, di riconoscere le persone che si sentono già italiane nella sostanza, perché sono nate e cresciute in questo Paese, stanno studiando, stanno costruendo tutta la loro vita in Italia. La mia storia è la storia di una persona come tante. Persone che stanno rivendicando un diritto, che si sentono di appartenere all’Italia, a volte anche più di chi è italiano da generazioni. Come me, le persone che oggi chiedono il riconoscimento formale si sentono già italiane, anzi, lo sono».