
Un autore che ha rivoluzionato il linguaggio teatrale. Un “enfant terrible” quando uscì Publikumsbeschinpfung [Insulti al pubblico]. Un artista pop – così era considerato. Poi icona di un mondo che si riconosceva in una neoavanguardia fortemente ribelle, infastidita dai rituali ortodossi. Scrittore grandissimo, tacciato di intimismo, quando l’intimismo non era merce quotidiana. Oggi non sarebbe certamente criticato per questo. È stato uno scrittore che ha destato scandalo, con prese di posizione che non ci si attendeva da un autore, tutto sommato ben accolto dallo star system e dalla buona cultura europea. Quando prese posizione – non già a favore della Serbia – in difesa di una visione obiettiva dei fatti, sulla guerra nell’ex Jugoslavia, le critiche piovvero e furono pesantissime, fino ai limiti di una vera e propria censura da parte della cultura europea. Peter Handke ha rivestito tanti ruoli e ha avuto molte figure che oggi faticano a stare insieme nella mentalità chi lo legge o anche di chi semplicemente ne sente parlare. Naturalmente chi ne sente parlare, più d’i tutti’ogni altro sente parlare del famoso scandalo legato alla sua figura e alle sue prese di posizione [sulla ex Jugoslavia].
A parlare così di Peter Handke è Luca Crescenzi, alla vigilia di un convegno dedicato al Premio Nobel per la letteratura europea, “Peter Handke, tra letteratura e teatro: un caso europeo”, organizzato dal Teatro Stabile del Veneto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari, un’iniziativa in cui l’illustre germanista è stato coinvolto dalla rettrice Tiziana Lippiello e dal presidente del teatro Giampiero Bertotto che, spiega, “avevano condiviso l’idea della necessità di riproporre un autore ingiustamente trascurato nell’attuale percezione generale”.
Personaggio geniale ma figura polenica, al centro di controversie. Un autore che rifiuta l’ambitissimo premio Buchner. O, nei confronti del quale, c’è chi mette in discussione anche l’assegnazione al premio Nobel? Qualcuno ha chiesto addirittura che gli fosse revocato….
… Il premio Buchner l’ha addirittura restituito, ha restituito il premio in denaro. Qualcuno ha persino chiesto che gli fosse impedita la pubblicazione di altri libri. Proprio in seguito a queste vicende, Peter Handke, come personaggio pubblico, è di fatto scomparso. Lui si è ritirato in una in una solitudine ben “ripagata”. Fino agli anni in cui prese posizione sui fatti jugoslavi, Handke aveva vinto una ventina fra i grandi premi letterari tedeschi e austriaci, quindi era un autore già di grandissimo rilievo; dopo quei fatti ne ha vinti una trentina. Se posso esprimermi in modo un po’ tendenzioso, il suo silenzio è stato pagato con questi premi, e dicendolo non si va molto lontano dalla realtà. Handke ha poi continuato a mietere i riconoscimenti fino al Premio Nobel.
Figlio di padre austriaco e di madre della minoranza slovena, nasce in Carinzia. Le origini lo influenzano?
Il tentativo di avere un occhio poetico nei confronti della realtà della ex Jugoslavia, questo casomai lo influenza. Di per sé le sue origini – diciamo slovene – non sono dirimenti nelle circostanze polemiche che hanno accompagnato la sua vita e invece diventano importanti per capire perché uno scrittore che ha scritto sulla madre, che ha scritto delle sue origini, che ha scritto sul dolore e ha scritto anche di questioni che sono legate all’Europa e al suo divenire, poi senta il bisogno di prendere posizione su una questione come quella jugoslava negli anni della guerra.
Ingegno multiforme, artista eclettico e prolifico. C’è un filo che connette tra loro le sue varie attività artistiche?
Certo che c’è, ed è il fatto che è uno scrittore. Se Peter Handke è. come ritengo, il maggior scrittore di lingua tedesca della seconda metà del Novecento è perché ha sempre interpretato integralmente la sua attività in qualsiasi campo, in qualsiasi situazione e in qualsiasi contesto, anche mediatico, come l’attività di un poeta, di uno scrittore, di uomo di teatro e di cinema. Handke non ha mai, veramente mai, rinunciato, non ha mai abdicato alla rivendicazione di essere principalmente, se non esclusivamente un poeta. E questo è il filo conduttore di tutta la sua attività, qualsiasi cosa abbia fatto.
Citando il cinema, immediata l’associazione con Wim Wenders. Pensiamo alla realizzazione del film il cielo sopra Berlino. Allora cosa caratterizza qui il suo lavoro di sceneggiatura?
L’aver impresso un marchio lirico sulla rappresentazione di una Berlino di quei tempi, cioè di una Berlino tornata a essere una realtà unitaria, una rappresentazione tenuta sul filo della riflessione e sulla caducità delle realtà storiche. Per me, è la cosa più importante realizzata da Handke, avendo trovato un regista congeniale. Credo sia stato un atto davvero ancora eversivo, rivoluzionario, rispetto a sceneggiature che all’epoca inclinavano decisamente all’azione, alla sorpresa, alla suspense, creare un film di riflessione, di meditazione o ricrearlo perché si erano persi dai tempi della Neoavanguardia francese. Ricrearlo e ripensarlo in quel modo è stato un fatto straordinario, decisamente fuori dagli schemi, rendendolo suggestivo per il pubblico. Poi, certo, le immagini hanno fatto tutto il resto.
Poesia e cinema, poesia nel cinema…
Handke non ha mai aderito allo strumento cinematografico in quanto tale. Ha aderito allo strumento cinematografico così come all’articolo di giornale, o al diario, o al pezzo di teatro o al romanzo, sempre in quanto veicolo di una visione poetica, che poi è una visione essenzialmente legata alle capacità del linguaggio di dare una forma alle cose, di dare una forma ai pensieri. È quello che trapela in tutto Handke, che faccia cinema, che scriva per il cinema. Handke scrive per scrivere, scrive perché ha bisogno di esprimere attraverso il linguaggio, sperimentando con ciò che il linguaggio è in grado di fare. Una prospettiva poetica sulle cose.
Nel tempo si osserva un’evoluzione nella sua scrittura, nel suo modo di esprimersi e di raccontare?
Handke non si evolve, sperimenta numerosi punti di vista. Hans Magnus Enzesberger, che certamente non è stato tenero con Handke, lo vede come un boxeur, con la sua capacità di essere sempre dalla parte in cui l’avversario non si aspetta che sia. Credo che questo esprima bene la natura dello sperimentalismo di Handke: è sempre dove non ti aspetti che sia. Non per nulla ha potuto cambiare tante maschere di se stesso e della sua attività poetica e facendolo sempre con estrema abilità. Alla fin fine quello che tiene tutto insieme è il suo lavoro sulla lingua, un lavoro veramente senza pari. Passa da un estremo all’altro, passa dalla quasi dissoluzione della lingua ai ritmi musicali in Publikumsbeschinpfung a una lingua quasi hemingweiana per quanto è carica emotivamente, nella brevità, nella secchezza, in romanzi come Infelicità senza desiderio, Breve lettera del lungo addio. Sono lavori sulla capacità della lingua di restituire emozioni su cui riflettere, oggi, al cospetto di ciò che la letteratura del sé, la letteratura del privato è diventata: esibizione, narrazione senza riflessione sulla capacità di trasmettere emotività.
Nelle sue prime opere, per esempio nella succitata Publikumsbeschinpfung, c’è chi sostiene che dal punto di dal punto di vista della scrittura erano quasi illeggibili.
Su questo ha scritto cose veramente importanti. Francesco fiorentino, che, tra l’altro, è tra i relatori del convegno. Credo cabbia chiarito in modo esemplare in che modo quella rappresentazione teatrale abbia mostrato in scena le conseguenze di un dissolversi della fiducia nella capacità della lingua di esprimere realtà. La separazione fra linguaggio e realtà, che è uno dei capisaldi già della delle poetiche novecentesche, in Handke si dissolve fino ad arrivare a pura musicalità.
Ma ripeto, quello è stato un punto di partenza. Che è servito da trampolino di lancio per andare a indagare tutte le possibilità del linguaggio. È stato anche criticato, Handke, per la sua produzione davvero sconfinata. In realtà essa legata alla necessità di esplorare tutte le zone del linguaggio. Ci sono romanzi sperimentali il cui linguaggio è completamente raggelato in una sequenza di scene o di nomi o di brevi frasi che si ripetono e si potenziano l’una con l’altra, come certi esperimenti di Stockhausen. Se si considera la poetica di Handke come una lotta dello scrittore con la sua lingua, credo che si vada vicini a capire meglio le ragioni della sua opera.
E che dire dei reportage?
Sono una specie di diari del sé, legati al desiderio di esplorare, al desiderio di vedere con i propri occhi le cose, al desiderio di restituire una visione delle cose, una visione che è individuale e che raggiunge gli altri attraverso proprio il veicolo di un linguaggio che è solo apparentemente da cronaca, da reportage. È un’altra delle trasformazioni di cui è capace Handke, che diventa, per così dire, un osservatore non neutrale, cioè noi chiediamo normalmente un reportage che ci mostri le cose come stanno. Il reporter dev’ essere quanto più possibile una lente obiettiva? Handke rifiuta tutto questo, prende posizione rispetto anche all’impossibilità dell’obiettività e alla necessità del reportage come dimensione/confronto di un io con una realtà politica, sociale e persino appunto, bellica, come è successo in Jugoslavia. O anche semplicemente con la realtà che ci circonda.
Per dire quante dimensioni, in Handke, trapassino da una da una polarità della scrittura a un’altra, un buon esempio è Il cielo sopra Berlino, che lo si può vedere anche come un reportage su Berlino. Nessuno lo legge in questo modo, perché sarebbe nella corrente concezione e percezione del reportage, sarebbe come umiliare quel film. Ma in realtà il desiderio era quello, e lo vediamo anche nell’evoluzione di certi esperimenti di Wenders nella dimensione del documentario. Da ultimo Perfect Days, dove il reportage si contamina con la poesia,
Che incontro, quello tra Handke e Wenders!
Quando s’incontrano diciamo due figure di questa levatura, se riescono a collaborare, è perché si contamina l’una con l’altra. Con riverberi anche sul teatro. Penso a Ancora tempesta, che va in scena. Goldoni, penso alla scena in cui la tempesta si scatena, una scena, anche visivamente, dal punto di vista dell’efficacia dell’immagine, molto wendersiana, molto legata insomma alla realtà che si abbatte sul corpo umano, alla connessione fra terrore e natura poetica dello spettacolo teatrale. Qualche cosa di molto, molto wendersiano.
Immagine di copertina: Heimo Luxbacher, Ritratto di Peter Handke, 2024
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