
Alter Fajnzylberg, Cosa ho visto ad Auschwitz, A cura di Roger Fajnzylberg e Alban Perrin (Einaudi, 2025).
Un recente articolo di stampa ci ricorda che nel 2025, ottant’anni dopo l’Olocausto, il numero di sopravvissuti ebrei sta diminuendo e non deve sorprendere che si preveda la loro quasi completa scomparsa entro i prossimi quindici anni. L’urgenza alla base di questa inesorabile estinzione è che per molti dei quasi duecentomila sopravvissuti ancora in vita, i ricordi e le testimonianze di quegli anni terribili moriranno con loro. Eppure, per ora, quei ricordi rimangono vivissimi, come ci racconta l’articolo sopracitato di Albrecht Weinberg, un sopravvissuto tedesco di cento anni che perse quasi tutta la sua famiglia nell’Olocausto e sopravvisse ai campi di concentramento e sterminio di Auschwitz, Mittelbau-Dora, Bergen-Belsen e a tre marce della morte alla fine della guerra. Weinberg afferma che “ancora oggi i ricordi orrendi lo perseguitano. ‘Ci dormo, mi ci sveglio dentro, sudo, ho incubi; questo è il mio presente’”.
Fu proprio un simile monito sull’imminente perdita delle voci e dei ricordi dei sopravvissuti all’Olocausto, ascoltato in un evento tenutosi vent’anni prima, nel 2005, con 550 bambini orfani sopravvissuti a Buchenwald, a spingere Roger Fajnzylberg a decidersi a esaminare, e infine pubblicare, le memorie di suo padre Alter sul periodo trascorso ad Auschwitz. I testi erano rimasti conservati in una scatola da scarpe chiusa per quasi sessant’anni.
È molto probabile che Alter Fajnzylberg abbia partecipato a una di quelle marce della morte con Albrecht Weinberg, poiché era tra i prigionieri che lasciarono Auschwitz il 18 gennaio 1945, quando fu ordinata l’evacuazione del campo. Alter si unì alle “marce della morte” e riuscì a fuggire lungo il percorso prima di essere definitivamente liberato dall’Armata Rossa il 25 marzo 1945, tre anni dopo la sua deportazione dalla Francia ad Auschwitz-Birkenau. Comunque, la sua esperienza nei campi – e le probabilità di sopravvivere al lavoro che gli era stato assegnato – fu piuttosto unica, pericolosa, orrenda, persino per Auschwitz. Alter Fajnzylberg era un operaio del Sonderkommando, l’unità di prigionieri ebrei incaricata di rimuovere i corpi dalle camere a gas e cremarli, sia su pire all’aperto sia nei grandi, famigerati forni. Sebbene gli operai di questa unità fossero loro stessi regolarmente giustiziati, alcune decine di loro riuscirono in qualche modo a sopravvivere. Tra questi Fajnzylberg.
Questo lavoro, lo svolse ininterrottamente per quasi due anni, fino all’evacuazione dei campi.
Alter e sua moglie, un’altra sopravvissuta al campo, iniziarono una nuova vita in Francia dopo la guerra e non parlarono mai con i figli delle loro esperienze nei campi. Mai. Parlavano di quelle esperienze continuamente, a volte anche con parenti e amici, ma quando lo facevano, ricorrevano al polacco per evitare che i figli capissero, un atteggiamento che Roger ci racconta essere tipico dei sopravvissuti alla deportazione che avevano figli.
All’epoca non era stato attivato nessun servizio di assistenza: non era disponibile nessuno spazio di parola, nessuno sportello psicologico o di sostegno. D’altro canto, erano cosí tanti ad aver subito i traumi della guerra… Come si poteva fare?
Vediamo quindi che per molti, se non per la maggior parte dei sopravvissuti a questi orribili eventi, le parole erano un mezzo importante per elaborare i propri ricordi. Avevano bisogno di parlarne, condividerli verbalmente, riviverli e rivisitarli attraverso il potere del linguaggio, l’unico strumento disponibile degno di tale compito, l’unico veicolo adatto a liberare il dolore. Per alcuni di loro il potere delle parole di accogliere e organizzare quei ricordi nella scrittura divenne un imperativo urgente. Alter fu uno di coloro che si sentirono costretti a impegnarsi a scrivere le esperienze che temevano di condividere con i propri figli. Tuttavia, a differenza di alcuni dei suoi contemporanei molto più noti, gli scritti di Alter rimasero non solo inediti, ma nemmeno letti, relegati in una scatola da scarpe che fu tramandata al figlio dopo la sua morte, ma che non venne toccata.
Qui risiede uno degli aspetti più intriganti e toccanti di questo particolare resoconto dell’Olocausto. Sebbene il testo di Alter sia ovviamente di prima mano, in questo volume veniamo introdotti all’uomo, alla sua vita e ai suoi scritti da suo figlio Roger, che intende condividere apertamente anche la sua storia di figlio di sopravvissuti, oltre a quella del padre. Nessuna delle due, ci viene detto, è stata condivisa facilmente. Anzi, Roger sottolinea la difficoltà di essere figlio di sopravvissuti – la difficoltà di sapere cosa è successo durante la guerra ma non sapere cosa è successo ai propri genitori – e la paura viscerale di scoprire la verità.
Quanto e difficile essere figlio di deportati! Quanto e dura essere figlio di un deportato assegnato ai Sonderkommandos! Quanto e complicato essere figlio di superstiti che non speravano piú nulla per loro stessi, ma tutto per la loro discendenza, affinché la vita potesse rifiorire. Tale responsabilita mi ha ossessionato per l’intera esistenza e mi ossessiona ancora oggi.
Eppure, nonostante questa ossessione, Roger si ritrovò incapace di aprire la scatola, piena degli scritti di suo padre, manoscritti nel 1945-46.
Per anni, nessuno ha toccato quella scatola. Io non ho osato aprirla per paura di scoprire il resoconto di sofferenze ancora piú grandi, di torture ancora piú mostruose, di esperimenti medici condotti sui detenuti dai nazisti… chissa cos’altro ancora?
Anche dopo la morte di entrambi i genitori, ricorda Roger,
quella scatola e rimasta chiusa, inviolata, terrorizzandomi.
Roger prosegue raccontando come un crescente senso di responsabilità, in particolare nei confronti di suo figlio, che gli imponeva di liberare i ricordi del padre e permettere che la sua storia, per quanto raccapricciante e spaventosa, continuasse a spingerlo ad aprire la scatola. Non riuscì a farlo, tuttavia, fino al 2005, dopo aver partecipato all’evento con gli orfani di Buchenwald. Si può immaginare l’intensità dell’emozione, dell’ansia e della paura, del grande momento che ebbe luogo quando Roger tornò in ufficio direttamente da quell’evento, prese la scatola dallo scaffale, sciolse lo spago che la legava e l’aprì. Lì dentro giacevano i manoscritti di suo padre Alter, composti in quattro quaderni scolastici di vari colori e scritti interamente in polacco.
Ancora una volta, Alter si era preoccupato di assicurarsi che suo figlio non conoscesse mai le sue esperienze, nascondendole dietro l’impenetrabile fortezza di una lingua straniera. Roger aveva affrontato le sue paure aprendo la scatola, ma non avevba fatto quel passo in più di avvcinamento alla conoscenza della verità su suo padre.
Parte della storia di questo libro, quindi, riguarda lo straordinario percorso genealogico, storiografico e linguistico che ha portato alla traduzione in italiano dei manoscritti di Alter, poi presentati nel libro appena pubblicato, Cosa ho visto ad Auschwitz. Nella sua portata e ambizione, il volume va ben oltre l’essere un memoir di avvincente valore storico, per abbracciare qualcosa di più ampio, aprendoci al mondo di coloro che vennero dopo, i figli dei sopravvissuti. Le esperienze e i ricordi dei loro genitori, per quanto inespressi, hanno comunque avuto un impatto drammatico sulle loro vite:
Ma poi, attraverso i percorsi di donne e uomini della mia generazione, figlie e figli di deportati o di «bambini nascosti» durante la Seconda guerra mondiale – con i quali ho potuto parlarne piú liberamente negli ultimi tempi (perché prima non potevamo farlo, anche se ci frequentavamo) –, ho capito che eravamo tutti quanti gravati da un fardello terribile, il quale ha permesso a ciascuno di noi di costruirsi in una maniera peculiare e di diventare, ognuno a proprio modo, latore di ricordi, di sofferenze, di dolori, ma anche di speranza, di sogni e di futuro.
Ottant’anni fa, ricordi di portata brutalmente inimmaginabile gravarono a tal punto su Alter Fajnzylberg da essere costretto a metterne per iscritto una parte, su carta, con parole sue. Nel farlo, ci si può solo chiedere, come Roger si chiede ancora, in che misura, se mai, ciò abbia alleviato il suo dolore. Non avendo mai avuto l’intenzione di condividere i suoi scritti con nessun altro, possiamo solo ipotizzare – e forse sperare – che quell’impresa gli abbia offerto un po’ di conforto. Eppure, per coloro che vennero dopo di lui, per i suoi figli e nipoti, quei ricordi nascosti da cui lui, e tanti altri sopravvissuti all’Olocausto, cercarono di proteggere i loro discendenti, rimasero e rimarranno un terribile fardello.
Possiamo quindi essere grati a Roger Fajnzylberg per il coraggio dimostrato nell’aprire la scatola, affrontare la verità della memoria e poi condividere con noi sia il lavoro di suo padre sia le sue percezioni interiori, perché non dovrebbe farsi carico da solo di un simile fardello e, leggendo le parole di un figlio che rende a suo padre un tributo così unico e necessario, anche noi possiamo condividere questo fardello, con lui e altri come lui, in piccola misura.
Immagine di copertina: Alter Fajnzylberg di fronte ai forni del Krematorium di Auschwitz camp in 1985 (Auschwitz-Birkenau State Museum, negative no. 2I202/22).
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