
Ottant’anni, caro presidente Moratti: un traguardo straordinario che merita di essere celebrato a dovere. Straordinario perché giunge dopo un’avventura intensa, vissuta al centro delle questioni sportive e politiche nazionali, come ci ricorda anche l’impegno politico della signora Milly e il sostegno concreto offerto a cause importanti come l’ambiente e la libertà d’informazione. E poi il calcio, certo, e di questo vogliamo parlare. L’Inter come eredità paterna, derivante dalla passione di papà Angelo, artefice dei successi dello squadrone nerazzurro che, con le intuizioni di Italo Allodi e la grinta in panchina di Helenio Herrera, illuminò gli anni Sessanta, ponendo fine all’egemonia continentale di squadroni come Real Madrid e Benfica.
Non a caso, quando trent’anni fa, il 18 febbraio del ’95, Moratti rilevò la sua ragione di vita da Ivanoe Fraizzoli, poco dopo i campioni del padre divennero i suoi dirigenti, a cominciare da Mazzola e Corso, che nel luglio del ’97 presentarono a Milano un sorridente Ronaldo, il fenomeno brasiliano con la faccia da bambino, destinato a illuminare tante domeniche, prima che la sfortuna si accanisse contro le sue ginocchia.
Ottant’anni, e ci tornano in mente i giorni in cui le cose non andavano bene: un po’ per responsabilità proprie, un po’ per colpa di un sistema che Calciopoli, almeno in parte, e meritoriamente, ha contribuito a smantellare. Ristabilite condizioni di partenza uguali per tutti, per un quinquennio è stata pura gioia, culminata con la notte di Madrid del 22 maggio 2010, quando, con Mourinho in panchina, i tifosi interisti hanno rivissuto i fasti herreriani, assistendo al trionfo di Zanetti e compagni contro un Bayern Monaco ridotto all’impotenza, al termine di una cavalcata che in quella stagione fruttò il mitico “triplete”, ancora ineguagliato nella storia del calcio italiano.
Massimo Moratti, tuttavia, è stato molto altro e molto di più. Dirigente illuminato, con il numero di telefono in rubrica, disponibile ad ascoltare le recriminazioni dei tifosi inferociti, a patire con loro nel pomeriggio infernale del 5 maggio, quando l’Inter di Cúper si suicidò all’Olimpico, gettando alle ortiche uno scudetto già vinto, indomito per tenacia e dedizione e capace di innamorarsi, come un poeta bohémien, non tanto dei gol di Vieri o delle giocate di Ronaldo quanto del mancino di Recoba, che in effetti, quando era in giornata, era in grado di pennellare dei tiri da cineteca; un romantico del calcio, insomma, uno degli ultimi di cui si aveva la certezza che amasse la sua squadra di un amore puro, rimettendoci valanghe di soldi e affrontando a testa alta insuccessi, stagioni monstre e autentici drammi sportivi, come il motorino gettato dagli spalti di San Siro contro l’Atalanta e lo 0 a 6 della settimana successiva contro il Milan.
Ha perso, ha vinto, ha sofferto, ha gioito, se n’è andato all’apice della gloria e ha lasciato la società in buone mani, come si evince dai successi attuali dopo un decennio di risultati altalenanti e una girandola di acquisti sbagliati, dal campo alla panchina.
Dunque ottanta, caro Moratti. Ne avevi venti quando i fuoriclasse di Herrera facevano la storia al Prater di Vienna contro un Real Madrid giunto a fine ciclo, cinquanta quando hai deciso di dare un’anima ai tuoi sogni da bambino e da ragazzo e ne compi ottanta ora che l’Inter, facendo tutti gli scongiuri, potrebbe laurearsi nuovamente campione d’Europa, il prossimo 31 maggio contro il Paris Saint-Germain. Un romanzo italiano e nerazzurro, un’esistenza spesa bene, una passione che non muore mai, anzi si rafforza, e il desiderio di esserci, sempre e comunque, perché le favole, quando ci si crede da adulti, sono così tenaci da potersi addirittura trasformare in realtà. Come quando sognasti talmente forte che tutto divenne possibile. Adesso lo è di nuovo e ci sei ancora.
Buon compleanno, presidente!
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