
Crede che Venezia potrebbe… non piacermi?
Sono certo di sì ma… vede, non a tutti fa lo stesso effetto: alcuni la trovano troppo quieta, altri la trovano chiassosa… ed è molto chiassosa. Ma la maggioranza la trova molto bella…
Capisco, be’ io mi schiererò con la maggioranza.
[Jane Hudson (Katherine Hepburn, Tempo d’estate) e un passeggero sul treno in prossimità di Venezia].
È solo un luna park sull’acqua. Lloyd McIlhenny, un turista anche lui appena arrivato, dall’Illinois, gela l’entusiasmo di Jane impegnata in un corpo a corpo con valige e turisti sul vaporetto che la porterà dalle parti della pensione della signora Fiorini.
È una delle prime scene di Summertime, Tempo d’estate, diretto dal grande David Lean. È un bel film turistico-sentimentale interamente girato a Venezia.
Nel 1955.
Siamo dunque a una decina d’anni dalla fine della guerra e a settant’anni dai giorni d’oggi. Nel film l’uscita dall’affollata stazione di Santa Lucia è caotica come può esserlo oggi, e così l’arrembaggio ai vaporetti sulla riva sottostante. E i turisti che arrivano, allora su treni con locomotive a vapore, hanno le stesse aspettative che possono avere oggi i loro figli e nipoti che atterrano al Marco Polo o scendono da treni ad alta velocità. L’aspettativa di una città da sogno e dei sogni. Oppure, molto banalmente, l’aspettativa di un luna park sull’acqua, per dirla con il cinico Lloyd.
Inutile combattere con i cliché che da sempre sono appiccicati su Venezia e che sembrano destinati a non staccarsi più. È il destino, nel bene e nel male, di una città unica. Speciale. Eccezionale. Straordinaria. E compagnia cantante di altri superlativi. Ognuno ricama su Venezia quel che vuole.
Scrive Massimo Cacciari:
“Alter Mundus” la definì il Petrarca dopo più di sei secoli. È indubbio che anche al più frettoloso e superficiale visitatore di Venezia non sfugge la sua alterità rispetto alle pur omologhe città storiche e d’arte. Venezia è città speciale, ma speciale perché? Nell’ottica della sua realtà comunale, caratteristica di Venezia e l’essere città plurale. L’articolato complesso di un centro storico in una laguna con un estuario abitato e di una grande moderna città di terraferma, pur essendo realtà distinte, sono di fatto saldamente unite in una città sola. Ma non è certo a questa alterità, a questa specialità che poteva pensare il Petrarca e con lui oggi il visitatore in comitiva, né è essa a nutrire nel mondo il mito di Venezia e a farne l’oggetto del desiderio, talora del sogno, quale meta di una visita, fosse pure una sola volta nella vita, per milioni di persone. Né a spiegare questa attrazione bastano quelle caratteristiche urbane che pure attraggono gli studiosi, come il suo essere regno del pedone e la sua netta divisione tra la viabilità pedonale e la rete acquea dei trasporti, per cui Le Corbusier additò Venezia a modello e profezia della futura città ideale, o quel ridursi dei palazzi a facciate, un sistema non di volumi e di piani, ma di ombre, di luci ben definito da Sergio Bettini. Forse è l’alterità sentita e cantata dai poeti quella che meglio interpreta, se non l’animo più profondo di Venezia, almeno la sua immagine fascinosa che trova nell’acqua l’elemento distintivo.*
L’eccezionalità di Venezia ha sempre coperto, agli occhi di molti visitatori, la sua normalità di città come ogni altra, per chi ci vive, ci lavora, ci nasce e ci muore, certo con la sua specificità di città d’acqua e di città pedonale ma, anche come nota l’ex sindaco, il suo essere originalmente plurale nella sua dimensione amministrativa. Eppure, col tempo, questa doppia natura e identità – di città vera e di città sognata – non ha più tenuto, si è via via stemperata, fino al punto che molta della sua “normalità” semplicemente se n’è andata via, spostandosi verso la terraferma. Lasciando il campo sempre più alla città dei sogni, o degli incubi, per i residenti.
E quel che resta di una città “normale” è sempre più minacciato dalla marea montante del turismo, più insidiosa di quella fisica, ormai, almeno per un po’, contenuta com’è dalle dighe mobili del Mose.
Eppure, questa città/città ha una sua resilienza complessiva. Che merita di essere messa in evidenza, nei tanti aspetti in cui si manifesta, fino al punto da far pensare/sperare che la resistenza dei suoi abitanti e delle tante associazioni in movimento in città possano anche produrre un mutamento di tendenza, contenendo l’industria turistica e mitigandone significativamente gli effetti collaterali, non solo con misure restrittive, ma anche con iniziative volte a creare opportunità d’impresa, di lavoro, di associazione, di produzione di idee e di cultura.
Venezia è viva, proclama un libro appena pubblicato, a cura di Donatella Calabi, storica. Non un titolo ottativo, ma una precisa e consapevole asserzione, corroborata da una serie di situazioni prese in esame in cinque diversi contesti cittadini,
frammenti di attività produttive diverse da quelle puramente turistiche e segni di esistenti relazioni interpersonali,
cinque aree nelle quali la proverbiale resilienza dei veneziani si accompagna alla presenza di conoscenze, di saperi, di invenzioni, di usi del suolo e dei materiali che ci permettono di cogliere la straordinaria vitalità di cui la città lagunare è ancora portatrice.
Il libro di Calabi, scritto con Stefania Bertelli, Ludovica Galeazzo, Martina Massaro, Elena Svalduz, e pubblicato in inglese (traduzione di Paul Rosenberg) e in francese (traduzione di Marianne Faurobert), nasce col sostegno, anche ideativo, di Liana Levi, che ne è l’editrice. Un libro internazionale, dunque, com’è la città che è raccontata nelle 160 pagine bene illustrate (con foto di Gianlorenzo Della Bartola, Nicolò Folin, Luodivica Galeazzo, Roberta Orio, Simone Padovan, Elena Svalduz, Andrea Vio, Immagino Studio e Venice Garden Foundation, dell’Archvio Iveser, impostazione grafica di Denis Hoch, stampa Grafiche Veneziane).
Il viaggio che propongono le autrici di Venezia è viva, dentro e oltre il cosiddetto “pesce”, fin in alcune isole della laguna, disegna il percorso verso un possibile futuro per la città, fatto prevalentemente di attività immateriali e creative, come già accade in molte delle situazioni esaminate, a partire dall’area di Rialto, dove da tempo peraltro Donatella Calabi è molto attiva con l’associazione Progetto Rialto, volto alla riqualificazione del cuore veneziano, ancora pulsante ma sempre più a rischio, in assenza di una visione lungimirante del suo futuro.
Venezia è viva è un libro di agevole e gradevole lettura, un’iniziativa propositiva che disegna un campo di gioco, dove disputare la partita per la salvezza, giocando all’attacco non solo di rimessa, perché Venezia – come quella del calcio – non precipiti in serie b, tanto più mentre la città si avvia al rinnovo del consiglio comunale sull’onda di uno scandalo politico amministrativo che sembra fatto apposta per aggravare l’immagine di un luogo sempre meno attrattivo, per chi voglia provarci a vivere e a investire risorse e tempo.
*Venezia, strana città, autori vari, Cicero, 2010
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