
“Calciattore”, macchina da soldi, icona del divismo pallonaro ante-litteram, sgradito a un puro di cuore come il compianto Gianni Mura (e, si parva licet, anche al sottoscritto), sicuramente eccessivo sotto molti punti di vista, eppure serio, elegante, in grado di trascinare il Manchester United e l’Inghilterra in molteplici occasioni prima di approdare nel dorato universo “merengue”, alla corte di Florentino Pérez, e perdere definitivamente l’innocenza. Buon compleanno a David Beckham, che lo scorso 2 maggio ha compiuto cinquant’anni e li ha festeggiati accanto alla sua mitica “Posh”, reginetta delle Spice Girls, con cui l’amore dura da tre decenni e non accenna a un momento di crisi, a dimostrazione che l’uomo è sì tutto ciò che abbiamo detto in precedenza ma probabilmente è anche dotato di un’intelligenza che spesso manca agli epigoni moderni. Non c’è dubbio, infatti, che il bell’inglese sia stato l’iniziatore dei calciatori da copertina, almeno per quanto riguarda l’evo contemporaneo (Totti e Del Piero sono sempre stati di un’altra pasta e Zidane era quanto di più introverso si potesse immaginare); non c’è dubbio, tuttavia, che abbia mantenuto in ogni circostanza un minimo di sobrietà e, soprattutto, un atteggiamento rispettoso nei confronti dei compagni e del pubblico.
Era un mito planetario, un’icona, lo corteggiavano gli sponsor e aveva un conto in banca da fare spavento: tutte caratteristiche che, a dire il vero, gli sono rimaste; fatto sta che Beckham ad allenarsi ci andava davvero, in campo scendeva da professionista, le punizioni le batteva alla grande e non si risparmiava mai, dimostrando un attaccamento alla maglia e una passione per il suo lavoro ahinoi sconosciuta a troppi galli moderni, che si atteggiano a star pur non valendo la metà del campione londinese.
Del resto, lo stesso Milan, che fra il 2009 e il 2010 si inventò una singolare forma di prestito del centrocampista inglese dal Los Angeles Galaxy, ebbe modo di constatare la sua professionalità: non era venuto a Milano solo per seguire le tendenze della moda e accompagnare la moglie alle sfilate; al contrario, dimostrò di sapersi integrare al meglio in un gruppo di fuoriclasse, rendendosi utilissimo in un club di indubbio prestigio e con all’interno straordinarie individualità.
Cosa resta del Beckham calciatore? Le sue punizioni telecomandate, certo, la sua capacità di dettare i tempi alla squadra, d’accordo, ma più che altro ci resta un senso di nostalgia, perché all’epoca persino uno come lui ci metteva l’anima, pur dovendo dividersi fra una comparsata e l’altra e pur campeggiando più sulle pagine dei tabloid che su quelle dei giornali sportivi, al punto di fare infuriare un vecchio socialista come Ferguson, col quale, non a caso, quando la fama del divo David divenne planetaria, l’idillio si ruppe, provocando il suo addio ai Red Devils. Aveva torto il condottiero scozzese? Pensiamo di no, specie se si considera che la trovata di metterlo in campo non ha fruttato al Real la messe di trofei che avrebbe voluto conquistare il suo esuberante presidente bensì anni di delusioni e sconfitte, specie in ambito europeo, che costrinsero Pérez medesimo a rassegnare le dimissioni, prima di riprendere, tre anni dopo, il timone della Casa blanca per non abbandonarlo più. E se oggi vediamo un Madrid più oculato nella scelta dei giocatori, non più ispirata alla logica della raccolta di figurine ma a criteri di effettiva utilità, lo si deve proprio alla delusione di allora, quando l’arrivo dell’ennesimo “galactico”, anziché rafforzare la squadra, ne minò gli equilibri tattici, trasformando una stagione nelle attese trionfale in un fallimento e costringendo l’erede di Bernabéu a rivedere i suoi piani.
Mezzo secolo, e ora che il bell’inglese fa il bello e il cattivo tempo oltreoceano, presiedendo l’Inter Miami e potendosi permettere il lusso di veder giocare Messi nelle proprie file, la distanza fra lui e gli eredi pare ancora più evidente. Di Beckham, difatti, ce n’è stato uno; gli altri sono solo imitazioni mal riuscite che, oltre a non possedere lo stesso piede destro, non hanno ancora capito che per potersi permettere il glamour bisogna prima dimostrare di saper fare qualcosa.
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