Ali Rashid ha avuto un infarto, il secondo, e ne è morto. Credo che nel conteggio dei morti di Gaza vada aggiunto un “più uno”.
Ali era palestinese, per molti anni aveva rappresentato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e poi l’Autorità nazionale palestinese. Io lo conobbi verso la fine degli anni ottanta, veniva in redazione per parlare con i compagni più amici dei palestinesi e portare la sua opinione, facemmo amicizia e una volta gli dissi: “Sei uno degli uomini più belli che conosca”. Lui, con il suo sorriso morbido, rispose: “Anche tu sei bello”. Lui scherzava, io no. Aveva quella fluidità garbata di molti arabi, nonostante la sua vita fosse stata ingrata, esule due volte da quella che sarebbe diventata Israele, profugo in una tenda in Giordania, infine miracolosamente accettato come studente in una università italiana. Si era laureato e si era dedicato ai suoi, tutti quanti. E non smetteva: qualche mese fa mi telefonò per rinvitarmi a partecipare a una “lezione”, così la definì, a Firenze, sulla Palestina. Io gli dissi: ho appena avuto un problema di salute grave, non posso muovermi. E lui, affettuoso come sempre, mi disse “non preoccuparti, faremo una serie di queste lezioni”.
Fu a metà degli anni novanta, trent’anni fa, che ci legammo davvero. Noi facevamo un settimanale, supplemento del manifesto, che si chiamava Extra, lui venne e ci chiese se ci interessava il racconto del suo primo viaggio in Israele, in un tempo relativamente pacifico, alla ricerca della casa di famiglia, di suo nonno, che non aveva visto da quando erano tutti fuggiti prima in campagna e poi in Gioardania. Ci interessa eccome, gli rispondemmo, scrivi. Dopo un po’ tornò con un testo che io lo aiutai a mettere in piega, discutevamo ogni aggettivo, ogni paragrafo. Lui ci teneva molto, e io anche. La sua era stata una famiglia di antica nobiltà, la casa di suo nonno era un piccolo palazzo di pietra bianca, dove il piccolo Ali era cresciuto.
Lui raccontava di come avesse individuato la via, dentro quella che ora è Tel Aviv, l’incrocio stradale esatto, ma ecco, la casa di pietra bianca era stata rasa al suolo e sotituita da palazzine banali come se ne vedono in ogni periferia europea. Così Ali si sedette su una panchina e rimase a guardare, cercando di vedere la casa di famiglia attraverso i muri e i balconi reali.
Quändo raccontai a Piergiorgio Maoloni, il grande grafico che ci aiutava a fare Extra, la storia di Ali, lui si mise d’impegno e propose una illustrazione in cui le linee di una casa antica si intracciavano a quelle delle case moderne, una specie di groviglio inestricabile. Ali vide il disegno e gli spuntarono lacrime sull’orlo degli occhi: Ecco, disse, è stato proprio così. Si vedeva bene, e si leggeva, la zona oscura tra il passato che non c’è più e un presente che non si vuole accettare.
La scomparsa di Ali Rashid è l’ennesima riprova, durissima, che i compagni, gli amici, se ne vanno, ma io spero che da qualche parte, qui o in Palestina, una piccola targa, magari solo un sasso bianco, ricordino che è esistito un uomo ammirevole come lui.
da fb
L’articolo Un ricordo di Ali Rashid proviene da ytali..