
Terrae Aquae – Padiglione Italia, Biennale Architettura
Via Maris, l’affresco digitale che Francesco De Melis* ha concepito per il Padiglione Italia della Biennale Architettura, prodotto dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale nell’ottica della valorizzazione delle culture del mare promossa dal suo direttore Leandro Ventura, è, come promette il sottotitolo, un “omaggio alla civiltà marinara italiana”. Il progetto espositivo del Padiglione Italia di quest’anno, deno-minato “all’antica” Terrae Aquae e proteso al futuro nello sguardo della curatrice Guendalina Salimei, è dedicato agli orizzonti di mare e di costa del nostro paese e l’opera Via Maris ne illustra l’antropologia.
Siamo di fronte ad una sorta di flusso di coscienza visiva e auditiva, in un viaggio sospeso tra memoria del passato e registrazione del presente, caratterizzato da un continuo sovrapporsi di immagini e suoni (sono numerosissimi i clusters visivi e auditivi) per dare l’idea di un magma indistinto, di un groviglio inestricabile, di un grumo rappreso e inscindibile di emozioni, ricordi, stati d’animo, sensazioni, tutti legati al mondo del mare, della pesca e della tradizione popolare. Si potrebbe quasi supporre che sia una ipotesi di rappresentazione del mondo visivo e auditivo che scorre veloce e tutto insieme davanti agli occhi di uno dei pescatori protagonisti, colto nel momento di lasciare la vita, quando, come si dice, il film della propria esistenza – in limine mortis – si proietta nella mente a titolo ricapitolativo di tutte le esperienze attraversate.
Da un peschereccio in uscita notturna ci giungono immagini di ingranaggi meccanici e reti a strascico, catene, funi, argani e ancore; i gabbiani, come angeli custodi, seguono l’imbarcazione. In fondo, si assomigliano: entrambi cercano la fonte della propria sopravvivenza. In rapida sovraimpressione si sommano assolvenze e dissolvenze di fuochi d’artificio, echi di feste paesane, lampi di tempesta, scene di processioni votive, accompagnate da clusters di suoni indistinti. Le esplosioni paiono, ad un tempo, segni di gioia e rimembranze di catastrofi. L’attività della pesca si svolge a bordo febbrile e concitata, l’acqua inonda gli abiti, chili di pesce vengono riversati nelle ceste di raccolta: bisogna fare in fretta, perché i momenti propizi passano in un lampo. Le lampade notturne spezzano qua e là un buio impenetrabile e lasciano intravedere la schiuma dell’acqua affiorare nell’oscurità.
Stratificazioni sonore complesse accompagnano altrettante stratificazioni visive: si susseguono freneticamente immagini in bianco e nero alternate a quelle a colori, che riportano alla mente il ricordo di giorni di pesca, passati e presenti. Quando arriva l’alba, ritornano i gabbiani: una musica dolce per chitarra acustica annuncia un momento di quiete, appare un timido sole. Sulla calma della distesa marina e del paesaggio costiero, si sovrappongono le immagini dei lavori tradizionali e di routine che vanno continuamente eseguiti.
Si salpano le reti: la gioia del raccolto è palpabile e contemporaneamente la memoria dei marinai va a quella della festa di piazza, dei momenti di celebrazione in cui si sparge nell’aria l’incenso in segno di ringraziamento e di auspicio favorevole, mentre lo sferragliare degli argani di bordo si fonde alle grida della folla e i dettagli degli oggetti si frammentano come deflagrati, un corrispettivo visivo dei lapilli dei fuochi d’artificio. Sono gesti rituali, cadenzati da suoni di campane a festa; le acque si sposano con la terra, sentiamo e vediamo applausi, braccia levate al cielo, il baldacchino del santo in processione issato come una vela. A poco a poco ecco volti, voci che risuonano, riverberate, all’interno di una cattedrale, baci rivolti alla Madonna di marmo, ma anche memorie di sciagure, naufragi, relitti di navi affondate, con l’acqua che pervade tutto, il suono che diventa man mano sempre più ossessivo e minaccioso, forse l’eco confusa di preghiere votive o di ringraziamento per salvezze insperate in occasioni di pericolo. Le immagini si liquefano, vibrano come nascessero sotto il torbido movimento delle acque, il suono si ovatta come accade nelle immersioni profonde, e scandisce gli ultimi dettagli di scafi affondati con rumori indefiniti e sinistri: gli ultimi spasmi di vita prima della fine.
Si torna al presente, che incombe con il lavoro incessante, le reti che corrono come volando sulle funi in trazione e compongono un mosaico astratto multicolore, fatto di piccole tessere luminose, contro il sole. Un canto popolare accompagna il momento della preparazione del pranzo, anch’esso dal carattere rituale e sacro, approntato con cura e movimenti precisi. Il cou cous di pesce e verdure è richiamato per analogia visiva dalle immagini delle funi di canapa e corda. Dopo la sosta il lavoro riprende, si bagna il pesce raccolto, il cigolio delle reti si interseca con il verso dei gabbiani. Una chitarra classica esegue un preludio lento, a contrasto con l’intenso lavoro sulla barca, ma è un lavoro rituale che ha un suo tranquillo andamento, perché abitudinario, cullato dal rumore del motore e dalle onde che lambiscono lo scafo. C’è festa anche per i gabbiani, cui va una parte di scarto della pesca, restituita al mare.
Ritorna ancora la memoria delle feste di un tempo, delle immagini dell’antico mercato del pesce, della “processione a mare” con la scia delle barche dei fedeli che la seguono, dei lavori nei cantieri navali. Il suono si fa industriale: martelli che battono, rumori metallici, “friggiture” sonore di saldatori all’opera, sirene, trombe, campanacci, tamburi che simulano il tossire dei motori.
Un nuovo salto temporale ci riconduce al presente; la chitarra, nella chiarezza architettonica della composizione eseguita, sottolinea il lavoro ordinato e senza affanno della deposizione ordinata del pesce nelle diverse cataste, la pesatura, la messa sotto ghiaccio. Poi la musica si anima al gioco arioso e visivamente intrecciato di funi, vele e mani che le issano, stagliantesi in controluce, con il cielo che si specchia nelle acque e ne assorbe le movenze, in una unione solidale tra elementi che si danno colore reciprocamente. Ecco l’orizzonte, ma sempre rappresentato con rapida alternanza di mondo emerso e sommerso, sopra e sotto il velo dell’acqua. Il ribollire del mare disegna nuvole nella sovrapposizione continua con le immagini del cielo, mentre il gioco delle funi che scorrono, quasi senza fine, rimanda alle corde della chitarra che arpeggia senza posa.
Mentre la pesca riprende, pesci e braccia umane che portano in processione la statua mariana si intersecano: a loro modo, sono naviganti anche loro, ma di terra. Faticano fisicamente, fanno un lavoro di squadra, si incitano a vicenda, manovrano e dirigono, si dividono i compiti, affondano le asprezze dei pesi su braccia e spalle. Le reti da pesca si sovrappongono a piatti di frutti di mare; è come se già si prefigurasse il destino del pescato, una volta arrivato sulla tavola, in un processo di identificazione immediata tra quanto raccolto e il pasto quotidiano. Le reti contengono visivamente le pietanze, perché la pesca è la prima immediata forma di sussistenza e sopravvivenza.
Poi uno sguardo d’insieme: la barca tradizionale con la vela al terzo in mare aperto, la sonorità del vento e gli scrosci dell’acqua, il gioco astratto delle onde che si riverberano sull’armo velico come in una composizione liquida su tela, una pittura colta nel suo farsi con gli elementi naturali. Lo scafo solca le acque e le vele giocano con la luce del cielo limpido.
La conclusione è a Venezia, approdo inatteso in un bianco e nero di repertorio che rinvia ad un antico passato: i bambini camminano a piedi nudi immersi nell’acqua in un giorno di alta marea e di città allagata, gli adulti si muovono sulle passerelle di emergenza. Chi lavora, chi cammina con gli stivaloni, chi gioca tuffandosi dai pontili. Poi lo sguardo indugia sulle barche, i cantieri, il mercato del pesce: insomma, la vita continua, sempre diversa e sempre uguale, perché il mare dà le sue leggi, condiziona le esistenze, le indirizza, dettando i suoi tempi. Il tutto avviene poggiando su accordi di pianoforte pacificanti, né trionfalistici, né tristi: è il cerchio delle attività umane e della vita che ricomincia e che continua, mentre lo sguardo si allontana dall’ultimo peschereccio che solca le onde.
Scorrono i titoli di coda sulle note di un organo liturgico accoppiato a effimere bolle di note acute di pianoforte che simulano lo scoppiettio di un brodo sommerso. È una fiamma a fuoco lento, che genera improvvisi rigurgiti affioranti in superficie, increspandola e animandola in modo intermittente, come un coro di voci sommerse che pulsa dal profondo.
Via Maris, grazie all’uso estensivo delle ellissi narrative, all’incrocio dei piani temporali e all’astrattismo figurativo e sonoro che ne risultano, rappresenta una fase nuova della creatività di De Melis, ove la gran parte del compito interpretativo è lasciato sempre più agli occhi di chi guarda, togliendo quasi del tutto ogni residuo di narrazione e di racconto tradizionale, in cui il punto di vista dell’autore è quasi sempre collocato in posizione prominente. Qui invece ci troviamo come dentro un quadro cubista, in una sovrapposizione di molteplici punti di osservazione, a comporre un mosaico polisemico, un caleidoscopio che racconta ancora una storia, ma lo fa quasi disintegrandola dall’interno e lascia che i suoi frammenti costitutivi galleggino come relitti alla deriva, tracce di un fragile paesaggio umano, di un ecosistema in pericolo di vita, che sembrano lanciare un grido di allarme, una invocazione di aiuto in cui far convergere ogni sforzo per la loro salvaguardia, conservazione, memoria.
Francesco De Melis è un antropologo del mare, video-artista, fotografo, regista, e compositore italiano, docente di Cinema e videoarte del patrimonio immateriale all’Università di Roma “La Sapienza” e professore di Antropologia all’Università degli Studi della Tuscia. Tra i musei etnologici che ha ideato, promosso e corroborato con le sue installazioni cronofotografiche e audiovisuali, figurano il Museo della Civiltà Marinara delle Marche di San Benedetto del Tronto, il Museo Etnografico della Provincia di Belluno a Seravella di Cesiomaggiore e i Cantieri della Civiltà Marinara di Porto San Giorgio. Sulla base di intense ricerche sul campo e videorilevamenti in medio Adriatico, dalla fine degli anni settanta ai nostri giorni, ha raccolto, studiato e valorizzato un notevole corpus di testimonianze di protagonisti del mondo della vela al terzo, riguardo alla memoria storica della vita a bordo e delle tempeste, documentazione visiva e sonora che ha rappresentato il nucleo primario della valorizzazione del patrimonio immateriale marinaro nell’ambito della mostra internazionale “Racconti invisibili” prodotta e promossa in Europa Orientale e in America Latina dal Ministero della Cultura attraverso il suo Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale. Formatosi alla scuola di Diego Carpitella, ha effettuato ricerche sulla musica di tradizione orale e l’iconografia musicale, specializzandosi sulla teoria e la prassi del rilevamento audiovisivo in campo antropologico ed etnomusicologico. Ha firmato la regia di molti film scientifici sulle musiche folkloriche e le danze tradizionali in Italia e promosso il restauro di diversi classici del nostro cinema etnografico, tra cui Meloterapia del Tarantismo, Is Launeddas e Cinesica 1 (Barbagia) di Diego Carpitella. Ha composto numerose musiche di scena per il teatro di Amiel, Montherlant, Pasolini, Yourcenar, Scarpetta, Copi, Ruccello, Molière, Celestini, Petito, Shakespeare, De Filippo, Viviani, Feydeau, Austen, Williams e Patroni-Griffi, collaborando con i registi Luca Coppola, Mauro Avogadro, Arturo Cirillo. Suo è il testo lirico della cantata mistica “in tre navate” Vuoto d’Anima Piena, musicata da Ennio Morricone per il millenario della cattedrale di Sarsina, diretta da Antonio Pappano ed eseguita dall’orchestra e coro di Santa Cecilia. Francesco De Melis ha anche composto e orchestrato una serie di partiture per la danza contemporanea, coreografate da Adriana Borriello, tra cui Tammorra, Kyrie, e Chi è devoto, una produzione della Biennale di Venezia. Dei suoi testi audiovisivi Francesco De Melis cura la fotografia, compone la musica, esegue il montaggio e firma la regia. Il film viene girato in prima persona con la speciale tecnica della camera a mano, che implica una danza del corpo dell’operatore. Tale flusso visivo si sincronizza alla colonna sonora che spesso nasce prima di dare inizio alle riprese. Dal video d’arte al video musicale, all’installazione, al documentario, Francesco De Melis compone i suoi testi videosonori giovandosi di questa personale modalità di formalizzazione.
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