
Schläft ein Lied in allen Dingen,
die da träumen fort und fort
und die Welt hebt an zu singen,
triffst du nur das Zauberwort.
(Dorme un canto in ogni cosa / che sogna e continua a sognare /
e il mondo si leva a cantare / se la parola magica tu sfiori)
J. von Eichendorff, Die Wünschelrute
Ho già scritto un paio di volte di Loredana Bogliun,[1] una delle voci significative della poesia dialettale italiana, pur se fuori dei confini attuali d’Italia, accolta da Franco Brevini nella sua antologia einaudiana de Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo fin dal 1990. Con questi pochi appunti per una storia (questo il titolo della tempera su carta di Giorgio Celiberti che ne impreziosisce il contro-frontespizio) mi riaccosto, dunque, con qualche cautela all’ultimo esito del suo lavoro, perché il rischio di ripetermi – continuo a dirmi – è elevato, e ripetersi, vivere di rendita in un ambito, se ce n’è uno, che richiede sempre rinnovata attenzione e dedizione, capacità d’ascolto, intuizione, una buona dose di umiltà (vale a dire la poesia dalla parte di chi vorrebbe comunicare agli altri le proprie ragioni per amarla) è un tradire innanzitutto se stessi.
Ma poi, riflettendoci meglio, mi sono detto: non devi temere troppo di ripeterti, perché devi fare i conti con questa specifica poesia, una delle cui meraviglie più misteriose e seducenti è il suo essere data come un fatto di natura, come un fenomeno che è da sempre e sarà per sempre, almeno sulla scala breve dell’esperienza umana, poiché si sa bene che in assoluto nulla è per sempre e nulla sarà per sempre, se non il fatto che tutto ciò che è stato è stato. E un fatto di natura ha un rapporto col tempo che è sì dinamico, ma non lineare, bensì ciclico, ed è il ciclo, il cerchio – o la sfera, sua versione tridimensionale – una delle rappresentazioni più tradizionali dell’eterno. E questa proiezione nell’eterno e nell’infinito, nella raccolta che sto tentando di cominciare a decifrare, è esibita programmaticamente fin dalla nota posta in esergo dall’autrice, intitolata La mia voce: «Ho scritto questo libro attingendo pure agli inediti giovanili, rivisitati amati mai dimenticati, coinvolgendoli nell’anelito di un presente immensamente partecipe all’apertura della visione infinita della vita».
Pure: anche ma non solo, come se questo attacco in prosa fosse non un inizio assoluto del libro, ma la continuazione di un discorso precedente, solo inudibile per l’eccessiva distanza, ma vivo, in atto, al quale l’incipit, con quel pure, fa riferimento: un affiorare di un fiume già formato, non un rivolo che si ingrossa, ma una emersione carsica come quella del Timavo vicino a Monfalcone – o il continuo zampillare di una fontanella: «Questa scrittura è come una fontanella zampillante. Ne raccogli una goccia e nasce una poesia: così, in ordine sparso. Così le parole si sono adagiate nell’acqua e sui bordi della fontana. Un segno». I bordi della fontana, un segno che si indovina circolare. Il libro si chiude a cerchio riandando agli inizi e coinvolgendoli nel presente, nell’adesso in cui solo si vive realmente. Ne viene rafforzata l’impressione che la poesia di Loredana Bogliun sia – cioè, viva – da sempre, che non conosca evoluzione lineare ma solo – ciclica – contrazione ed espansione, rispeiro, che inizio e fine siano sempre alla medesima distanza e finiscano per toccarsi.
Scrive da qualche parte Giovanni Raboni che la morte, come l’orizzonte, è sempre alla stessa distanza. In Loredana Bogliun, che conclude il primo paragrafo della sua nota introduttiva con una dichiarazione che è una chiave di lettura del titolo della silloge – «La vita è solo amore» – la vita è come l’orizzonte: sempre alla stessa distanza, o piuttosto alla medesima prossimità. Scrive ancora nel prologo: «Rimpianto e confessione, l’inizio della fine che schiude a nuovi inizi. Non c’è fine, non c’è illusione. Svaniscono i dissapori». Così «l’antico idioma istroromanzo di Dignano d’Istria: il dignanese, lingua di antica civiltà, ancestrale, maturata nell’intimo» diventa «un pegno, una risposta alla recisione che ha sconvolto i destini delle genti istriane, costrette ad abbandonare case, lingua e affetti, per volontà politiche ostili al sereno convivere della gente comune». Attraversato il vuoto e il dolore, la forza ancestrale della lingua che abita tuttora in ogni cosa si fa segno e pegno d’eternità, eternità di vita, contraddetta, calpestata, ammutolita, eppure là, presente, inestirpabile: deve solo essere risvegliata sfiorando ogni cosa con la parola magica che crea.
di Loredana Bogliun
Postfazione di Elis Barbalich-Geromella
Book Editore, 2021
Prezzo: € 14,00
Mi soffermo quasi soltanto davanti al portale di questo piccolo tempio di parole: il titolo della silloge, Par Creisto inseina imbroio – Per Cristo senza inganno. È un titolo potente e suggestivo, perché suscita immediatamente una folla di interrogativi. Ma prima di tentare qualche ipotesi è bene chiarire da dove scrivo ciò che scrivo. La mia lettura in chiave “mistica” di sfisse nella postfazione a quel libro aveva, a suo tempo, suscitato qualche discussione. La poesia di Loredana non è forse completamente e radicalmente terrena? E poi il fastidio che le risonanze della sola parola “mistica” provoca in determinati lettori, subito associata al ciarpame logoro e impresentabile del dolorismo cattolico praticato ai fini di dominio sulle coscienze e di imbrigliamento di ogni libertà vitale! È il segno, a mio modo di vedere, di un fraintendimento e di un preconcetto. Il fraintendimento è sul significato della parola “mistica”, almeno nel senso in cui l’avevo usata io: a denotare una via di scoperta dell’eterno nell’istante presente, nell’imprendibile “adesso”, una via di fuga dal tempo inteso come successione e durata attraverso l’ascolto, il silenzio, l’affinamento di tutti i sensi e la rinuncia all’orgoglio borioso e alla vanità dell’io. Il preconcetto è, poi, quell’astioso senso di rifiuto e di rivalsa che certi stantii detriti catechistici instillano in tanti, troppi bambini e adolescenti, che poi passano la vita adulta a liberarsene come di una sgradevole ombra interiore o, nella migliore delle ipotesi, di una narrazione non credibile, edulcorata e puerile, sorpassata e imbarazzante – ma al prezzo di una rozza semplificazione squisitamente ideologica. Felicemente sfuggito a quell’imprinting per motivi biografici e generazionali, mi concedo la libertà di far ricorso a certe categorie come utili strumenti conoscitivi – sorprendentemente utili proprio perché ormai di minoranza, alternativi alle “narrazioni” egemoni, ma ricchi di una sapienza delle cose umane distillata nei millenni.
Innanzitutto: perché Par Creisto? È una domanda che si pone anche il poeta e critico Maurizio Casagrande.[2] Il titolo, scrive, «sembra giungere direttamente dalle terzine della Commedia» e «si presta a una duplice lettura: con valore di intercessione se non di complemento di vantaggio, oppure come complemento di mezzo o di luogo nel senso di “attraverso”, come a dire che il poeta assume su di sé il carico della propria storia e di quella collettiva quasi come offerta votiva».
Quindi: per Cristo (a suo vantaggio, per lui) e attraverso Cristo (ad esempio nel senso della preghiera “Per Cristo nostro Signore”, che rimanda al ruolo di Cristo inteso come unico mediatore, colui che porta il peso del male sollevandone gli altri).
L’accostamento di “Cristo” e “senza inganno” è al cuore della tradizione: lo si trova ad esempio già in un’omelia pasquale di Sant’Agostino: «Cristo Signore, che è Verità senza inganno» (Discorso di Pasqua 375/B).
Notevole è poi – lo noto di sfuggita – che in un luogo così esposto come il titolo Loredana traduca “imbroio” con “inganno” e non con l’apparentemente immediato equivalente “imbroglio”, sebbene “eingano” sia pure attestato nel dignanese (e usato ad esempio nella lirica spità). È utile leggere la definizione di “inganno” che dà il vocabolario Treccani: «è il termine più generico per indicare l’azione del raggirare qualcuno (o il suo esito). I numerosi sinonimi sono tutti più specifici e marcati». Dunque “inseina imbroio” sembra voler bandire nel modo più assoluto ogni forma e modo di azione che abbia come esito la perdita della affidabilità e della fiducia.
“Creisto” in tutto il corpus poetico di Loredana Bogliun è una parola usata soltanto sei volte, escluso questo titolo. Pochissime, se solo si nota che la louna (la luna) compare ben 27 volte (mai in sfisse, però). Di queste sei occorrenze di “Creisto”, due hanno l’iniziale minuscola, a marcare l’appartenenza a un’imprecazione (noto appena che “preghiera” e “imprecazione” hanno la stessa radice etimologica): «a ∫ì douto ingraià / deio creisto / porca vaca putanassa ladra» (è tutto incolto / dio cristo / porca vacca puttanona ladra; la bes’cema, in sfisse); «deio creisto madona santa / el ∫ì massa firmo cussei piantado in tera» (dio cristo madonna santa // è troppo fermo così piantato in terra; la noto, in sfisse). Un’occorrenza con iniziale maiuscola, per certi aspetti simile alle appena citate, ma già caratterizzante per il ruolo che vi assume il Cristo, è in un testo di Ma∫ere che si intitola Leimidi / Sentieri di campagna: «pistèiga sto Creisto, i bes’cima la Madona» (calpesta questo Cristo, bestemmiano la Madonna).
Restano altri tre casi. Il primo di nuovo in Ma∫ere, nella poesia intitolata I oci de la cru∫ / Gli occhi della croce, si legge: «vulì par Creisto la cru∫ ch’a breila» (volere per Cristo la croce che brilla). Infine, due soli casi in Par Creisto inseina imbroio. Il primo in una poesia dal titolo altamente significativo, Quista ∫ì ouna bela poe∫eia, ouna prighiera / Questa è una bella poesia, una preghiera: «Deio Creisto ch’a ∫ù de ci∫a / i te iò fato cumo oun ocio de viro» (Dio Cristo che giù alla chiesa / ti hanno fatto come un occhio di vetro). Il secondo ne La Ma∫erussa, penultimo testo del libro il cui titolo è il soprannome dignanese scelto per sé dall’autrice per radicarsi nella sua tradizione:
«I sugnein inseina / debiti, inveidia e donca / inseina preto / difeissile ∫ì anca par nuialtri ch’a i savein parchì / i ne iò mostrà, cumo anca deito / ch’a ∫uta al campaneil ∫ì la ci∫a e in tala ci∫a oun / Creisto».
(Siamo senza / debiti, invidia e dunque / senza prete / è difficile anche per noi che sappiamo perché / ce l’hanno fatto vedere, e pure detto / che sotto il campanile c’è la chiesa e nella chiesa un / Cristo).
“Cristo” è dunque innanzitutto il crocifisso, il manufatto ligneo, che sta nella chiesa vuota e senza prete o dal prete inaffidabile ed estraneo allo spirito profondo del paese, e che rimanda a colui che ha patito e patisce la violenza degli uomini. La costellazione «chiesa vuota» – «paese senza prete» – «prete venuto da fuori» – «non capisco questo prete / che sembra senza chiesa // gli dico piano / lascia in pace Dignano!» – «era il prete – non mi piaceva» – «senza / debiti, invidia e dunque / senza prete» sembra alludere al prosciugarsi di una spiritualità secolare e al venir meno al dovere della rappresentante ufficiale di quella spiritualità, la chiesa-istituzione, al suo non essere all’altezza di ciò che predica mentre infuria il vento della storia e la cui autentica rappresentazione è invece il Creisto calpestato, dall’occhio di vetro, abbandonato nel vuoto della chiesa vuota: vuoto di gente e vuoto di senso, ma presente dentro alla chiesa, sentinella e segno di compassione, segno del patire insieme.
La spiritualità allora resiste e si difende nelle cose, e nelle parole che ne dicono il nome autentico, inseparabilmente loro, le parole dell’antico idioma dignanese, capace di evocarne il senso profondo e profondamente naturale, «alteissimo urdene oulteimo be∫ogno» (altissimo ordine ultimo bisogno), di farne una universale e ubiqua preghiera: Quista ∫ì ouna bela poe∫eia, ouna prighiera, che consente di ritrovare in ciò che è ormai solo nel ricordo, come gli occhi dei genitori ormai scomparsi che però furono bambini, scaturigine dell’io e del mondo, «douto al bel de sto pai∫ ch’a no se distouda» perché «quil ch’a insembro i vein avù / ∫ì quil fià de veita scampada veia» (tutto il bello di questo paese che non si spegne; quel che insieme abbiamo avuto è quel po’ di vita fuggita via).
«in quisto leibro i vuravi somenà / doute quile favele ch’a reiva incantade» (in questo libro vorrei seminare / tutte quelle parole che arrivano incantate) anche se «a reivà de l’altra banda / no sarò mai pioun cumo preima» (arrivare dall’altra parte / non sarà mai come prima), anche se «al moulein no ma∫ina, la ci∫a ta∫o» (il mulino non macina, la chiesa tace), anche se «∫ì scoura la noto a Dignan» (è buia la notte a Dignano) e « douti ∫ì ∫eidi» (se ne sono andati tutti), anche se la “Madona traversa” è «sempro sarada» (sempre chiusa) e la porta « no ver∫o gnente» (non apre niente).
Perché? Perché «l’amur ∫ì sconto drento la favela / cumo in t’oun maga∫ein stagno / ch’a tien drento al rispeiro li∫iero / de doute le veite ch’a se incanta» (l’amore è nascosto dentro la parola / come in un magazzino sicuro / con dentro il respiro leggero / di tutte le vite che s’incantano). La poesia di Loredana Bogliun passa sempre dalla contemplazione dell’amore a una determinazione etica, fin dalla nota introduttiva: «Parlo dell’amore dovuto, per il mondo, per il Creato». Dovuto. Amare è innanzitutto un ben preciso dovere, una responsabilità. Ne è spia la frequenza della parola “begna”, “bisogna”, ossia “è necessario”, che compare sette volte in Graspi, cinque in sfisse e di nuovo sette in Par Creisto inseina imbroio: «begna scultà l’anema ch’a favela» (è necessario ascoltare l’anima che parla), «begna sulo fasse sempro curaio» (è necessario solo farsi sempre coraggio); «begna ch’a ∫oin in piantada / a consà le fuie in tra le veide» (dobbiamo andare in vigna / a sistemare le foglie tra le viti); «begna deite e no de scondòn / ch’a fora in tala tera te spita arbori grandi / e la nivo beianca ch’a incanta l’anema» (serve dirti e non di nascosto / che fuori nella terra ti aspettano alberi grandi / e la neve bianca che incanta l’anima); «begna ch’a femo l’Eistria bela / arada muli∫eina» (dobbiamo fare bella l’Istria / arata morbida). Bisogna ascoltare e ascoltarsi dentro, bisogna avere coraggio, bisogna aver cura, bisogna parlare e non di nascosto, bisogna fare l’Istria bella con amorosa cura.
de∫mentegà begna al strapasso de l’eingano
pai nustri feioi somenerein furmentòn feisso
parchì forto e bel iò da issi al mondo
co d’al siel peioverà caratei d’arsei∫io
(al ben d’al Signùr)
(bisogna dimenticare lo sfinimento dell’inganno / per i nostri figli semineremo frumento folto / perché forte e bello deve essere il mondo / quando dal cielo pioveranno barili di narcisi; Il bene del Signore).
Silenzio, abbandono, vuoto, mistero, grande innocenza, incanto, abbondanza, lusinga, purezza, pienezza, meraviglia, anima, magia, parola. Tutte parole di questa silloge.
in tal’anema de sto pai∫ inseina preto
rampeigada a cascamorto par i speci
∫brudeighi preghi e de boto inguanti
Scarabocchio, prego e magari colgo qualcosa.
[1] «In tal seilensio de la favela. L’incanto e la louss di Loredana» – prefazione a Graspi /Grappoli, Fiume, Edit, 2013; postfazione a sfisse fessure spiragli, Roma, Cofine, 2016.
[2] M. Casagrande, Una voce da Dignano, «Il Ponte Rosso» 85, ottobre 2022, p. 29.
Immagine di copertina: Foto di Steve Johnson su Unsplash
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