
L’artista deve seguire la sua arte, non il suo pubblico
[in A. Barbacane Il grande inganno (quel gran genio di mio zio e quel che non è mai stato detto di Lucio Battisti), Divinafollia, 2019, pag.173]
Negli anni Settanta le carrozze dei treni a lunga percorrenza erano composte da scompartimenti che si susseguivano lungo il corridoio. Ogni scompartimento, dotato di porta scorrevole, conteneva sei sedili in similpelle marrone, tre su un lato e tre su quello opposto e un grande finestrino che si poteva aprire o oscurare tramite tende da tirarsi rigorosamente a mano, se la luce disturbava la vista dei viaggiatori. Anche la porta dello scompartimento era dotata di tende ma in questo caso le tende tirate stavano a significare che chi occupava quei posti non gradiva intrusioni estranee, bisognava passare oltre. Non poche volte filtravano accordi di chitarra, di studenti in gita che si esibivano per un selezionatissimo pubblico di compagni di classe, pigiati uno con l’altro, qualcuno seduto sul pavimento, che accompagnavano la melodia con mugolii o cantavano i testi che avevano imparato a memoria.
Le bionde trecce, gli occhi
azzurri e poi
Le tue calzette rosse
E l’innocenza sulle gote tue
Due arance ancor più rosse…
Ma Lucio Battisti non voleva essere ricordato solo per La canzone del sole e della gita, ma per il percorso musicale che lo ha portato a fare scelte, impopolari ma coerenti con il suo personaggio.
Tutti gli adolescenti che hanno suonato e cantato a squarciagola le sue canzoni non erano sicuramente consapevoli della filosofia dell’autore. Solo a posteriori, emerge la portata rivoluzionaria della musica di Battisti che ha caratterizzato trent’anni della nostra storia, dagli anni Sessanta ai primi anni Novanta. Ce ne parla Massimo Donà, filosofo e musicista jazz, professore ordinario di Filosofia Teoretica, autore di un agilissimo libro La filosofia di Lucio Battisti, uscito per Mimesis.
Sabato pomeriggio, ora di aperitivo. Ci eravamo in precedenza accordati su come modulare l’intervista: focus sul titolo e tre brani su cui soffermarsi. Ecco com’è andata.
Associare la filosofia a Lucio Battisti è necessario per capire il percorso creativo, musicale che non è descrivibile solo dal punto di vista tecnico, ma un percorso di cui va capito il senso. La filosofia, d’altra parte, è una disciplina che da sempre s’interroga sul senso e in questo caso solo questo strumento ci aiuta a capire il senso del percorso creativo di Lucio Battisti. Cosa significa senso? Sicuramente non possiamo tradurlo con significato, che è qualcosa di definibile in modo razionale, logico. Se da un lato tutto ciò che ci circonda ha un significato, dall’altro ha soprattutto un senso che non sempre prevede logica e razionalità. Il senso ci interroga sulle ragioni sotterranee alle scelte concrete e specifiche che ognuno di noi fa. Il percorso di Lucio Battisti, alla luce di quanto detto, esige una domanda di senso perché ha un che di paradossale.
Uno dei più grandi compositori di canzoni, quale egli è stato,culmina il suo percorso creativo con la destrutturazione di quella forma canzone che lui ha portato ai massimi livelli. Subito capisce che la tradizione di cui lui è interprete, la canzone, andava messa in discussione perché era una gabbia difficilmente tollerabile per un creatore come lui era. Pensiamo ai vincoli che ponevano le strutture tradizionali delle canzoni, fondate sulla coppia strofa-ritornello, che vengono eliminati.
Nella prologo del libro, Massimo Donà scrive a questo proposito:
Il fatto è che, forse, la canzone non era mai esistita : forse si trattava solo della solidificazione di qualcosa che da ultimo non avrebbe potuto evitare di farsi pura e singolarissima occorrenza di un evento rigorosamente non replicabile.
Torniamo all’intervista, seduti in quel caffè… Donà propone l’analisi dei tre brani che rappresentano in modo più definito il percorso di Lucio Battisti. Se ne assume la responsabilità della scelta, non facile ,a suo giudizio, e forse non condivisibile da tutti.
29 settembre costituisce la grande rivoluzione; è la prima canzone che non presenta la sequenza strofa-ritornello. È la prima canzone con incisa una voce esterna che irrompe nel brano. È la vera voce di un conduttore radiofonico che legge un notiziario ieri 29 settembre… oggi 30 settembre.. Se andiamo al finale del brano, vediamo che è costituito da una melodia circolare un po’ sghemba, imperfetta, lisergica. Quelli erano tempi psichedelici e l’uso dell’LSD non era certo un tabù nell’ambiente musicale. Altra caratteristica del brano l’introduzione di strumenti sconosciuti nella musica leggera italiana quali il clavicembalo, il fagotto, l’organo e il flauto. In più, introduce i nastri suonati all’incontrario. Battisti non era particolarmente interessato al beat e non amava il rock
ma preferiva le andature sincopate e sempre un po’ spiraliche, perfette per sostenere voci slabbrate, roche e rudi, come quelle di Otis Redding, Ray Charles o Wilson Pickett…maestri del rhythm’ n’ blues.
Nel cuore, nell’anima si struttura come una sinfonia con un’introduzione, un tema principale, uno sviluppo del tema, un corale che prelude al finale. Anche in questo brano si evidenzia l’attenzione di Battisti per i ritmi che provengono da oltreoceano, che lui sintetizza e utilizza secondo il suo stile, che rimane unico. In una intervista ribadisce che la canzone ha bisogno di una rivoluzione come l’hanno avuta la pittura, la letteratura, la musica classica. Come? Attraverso la decostruzione di una forma statica e, una volta ridotta in frammenti, ricombinarli. Le canzoni di Battisti sono fatte di frammenti diversi che possono essere isolati ma cuciti insieme costituiscono una unità.
La sua operazione è paragonabile, come potenza, a ciò che ha fatto Hegel in filosofia. Hegel ha rivoluzionato il sistema della filosofia occidentale mostrando che nel cuore della realtà esiste la contraddizione e la sintesi a cui arriva Battisti non costringe gli elementi sintetizzati all’interno di un’unità forzata, ma è una sintesi che nasce dalla libertà dei singoli elementi.
Non è Francesca, a differenza dei primi due brani scritti e incisi nel 1967 dall’Equipe 84, Battisti la porta al successo nel 1969, dopo una tiepida accoglienza nella versione dei Balordi, nel 1967.
In questa canzone la decostruzione è ancora più radicale. La parte cantata dura solo un minuto e 44 secondi mentre la parte strumentale che porta alla conclusione del brano si protrae per due minuti e dieci secondi. In un minuto fatto di poche frasi, di una cantabilità così perfetta da paragonare all’opera lirica, Battisti opera la sua sintesi dove rovescia il paradigma: la musica domina sul parlato, la canzone non esiste più.
Della rivoluzione musicale di Battisti ce ne accorgiamo consapevolmente solo adesso perché fino a che abbiamo vissuto il tempo presente siamo stati solo stregati e rapiti ma inconsci. Ma non siamo stati i soli. Lo stesso Battisti lìammette.
Fatico a definire la mia musica. È contrastante la mia musica. Trovo molta difficoltà a capirmi, e quindi a capire la mia musica. La mia musica è un po’ un contrasto, proprio come io vedo la vita.
[in Andrea Scanzi “Lucio Battisti. Il genio invisibile”, Paper first, 2023]
Questo contrasto attraverserà trent’anni, non sarà mai soggetto a mode, non chiederà emulatori, si spegnerà con l’uscita di scena di Battisti, nel 1994, dopo l’ultimo disco, Hegel.
Io sono sempre andato dritto e cerco sempre di superarmi. Verrà il momento in cui potrei anche staccarmi dal pubblico, ma non importa, se avverrà andrà bene lo stesso perché l’ho voluto
Intervista rilasciata nel gennaio 1970 a Giuseppee Barigazzi del quotidiano Il Giorno, in E. Assante “Lucio Battisti” Mondadori 2023.
Queste parole, frutto di un’intervista rilasciata nel 1970.
Profetiche.
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