
The Unending Gift
Un pittore ci aveva promesso un quadro.
Ora, nel New England, ho saputo che è morto. Ancora una volta ho sentito la tristezza di capire che siamo come un sogno. Ho pensato all’uomo e al quadro, perduti.
(Solo gli dèi possono promettere, perché sono immortali).
Ho pensato a un luogo già deciso che la tela non occuperà.
Poi ho pensato: se stesse lì, sarebbe col tempo una cosa di più, una cosa, una delle vanità o abitudini della casa; ora è illimitata, incessante, capace di qualsiasi aspetto e qualsiasi colore e non vincolata ad alcun luogo.
In qualche modo esiste. Vivrà e crescerà come una musica e starà con me fino alla fine. Grazie, Jorge Larco.
(Anche gli uomini possono promettere, perché nella promessa c’è qualcosa d’immortale).
Jorge Luis Borges
(Traduzione di Tommaso Scarano)
da “Fervore di Buenos Aires”, Adelphi, 2010
Il villaggio Eden, dov’è la casa di Paolo, è un quartiere di Treviso costruito, agli inizi del Novecento, dall’industriale Graziano Appiani. Un progetto urbanistico di alloggi per chi arrivava in città, con la famiglia, dalle campagne e dai paesi vicini per lavorare nella sua azienda, la Fabbrica laterizi e fornaci Sistema Privilegiato della Ditta Appiani e C.
L’uscio del numero undici di Viale XVI luglio è socchiuso. Entrando, l’associazione mentale è immediata. Non sarà che l’attenzione e la passione di Paolo del Giudice per l’archeologia industriale e per i paesaggi urbani slabbrati hanno a che fare con la scelta di vivere qui, in una casa “operaia”, che ormai, nella Treviso d’oggi, è un’affascinante sopravvivenza del suo passato industriale ai margini del centro storico?
La prima e unica volta che ero stato, qui, da Paolo, fu nel 2000. Con Agnese Zotti, amica storica di Elza, e amica di Paolo, anche per via di suo fratello Carmelo, grande pittore, si fece una gita da Venezia a Treviso per vedere – avrei detto, dopo, ammirare – i più recenti lavori dell’artista trevigiano, già “quotato” allora. Era ancora immerso nel periodo dei grandi quadri dedicati a fabbriche abbandonate, a viadotti di una modernità ormai obsoleta, a camion, a parcheggi.
Un catalogo, che mi fu dato allora e che avrei conservato e guardato e riguardato, si apriva così:
Anni fa ho provato una insolita emozione entrando, in una mattinata tersa, nella chiesa degli Scalzi a Venezia.
Il primo impatto è stato il buio, poi, un po’ alla volta, mi è apparso un mondo di altari, nicchie e colonne tortili assolutamente magico, forse più magico che sacro.
Ho sentito una totale e immediata sintonia con quei chiaroscuri.
Qualche tempo dopo ho avuto una sorpresa maggiore quando, dopo avervi più volte gironzolato attorno, ho trovato un varco nella recinzione delle dismesse fonderie Zamberlan.
(Le ricordavo bene perchè, pochi anni prima, avevo tentato di fotografare quel centinaio di operai che, neri come minatori, a fine giornata attraversavano la strada per andare nei bagni e negli spogliatoi).
Fuori continuava la vita normale della prima periferia, dentro scoprivo un mondo nuovo, intenso, grondante decenni di vissuto, ormai in via di disfacimento.
Non avevo mai visto niente di cosi forte, di cosi sacro, forse di cosi bello. Infinitamente più bello dell’ambiente esterno.
Ci sono tornato ancora e ho scoperto nuovi microcosmi nei macchinari obsoleti, nelle buche, nei mucchi di detriti, negli spogliatoi, negli armadietti, nei bagni, negli archivi cartacei. Come un ladro ho rubato immagini, come un tombarolo ho frugato negli angoli nascosti. In una pozzanghera nero azzurrognola di nafta o catrame, scorie di fusione, pietre refrattarie e una scatola bordata di rosso formavano un arcipelago o un guado.
Ho visto nuove archeologie, nature morte rigorose come dipinti di Morandi, che chiedevano sottovoce di continuare a vivere.
Adesso che le ruspe hanno spazzato via tutto e stanno scavando nuove fondamenta, la pittura fa rivivere le immagini che il tombarolo aveva carpito…
Da allora, rischiando spesso brutti incontri, ho cercato luoghi simili esplorando in bicicletta le periferie di città come Roma, Milano, Torino o Berlino. Ma quelle prime tracce fotografiche, a distanza di decenni, continuano a emozionarmi e restano uno degli stimoli più forti e necessari al mio lavoro.
[Dal testo introduttivo del catalogo della mostra “Archeologie”, galleria Avida Dollars, Milano, autunno 1990].
Autocarro, 1994, e Autocisterna, 1994
Con Paolo ci si è persi di vista. Ma quella visita, quella casa operaia, quel catalogo, quei camion, hanno continuato a vagare nei miei pensieri, tutte le volte, ormai tante, che sono stato a Treviso nel corso degli anni. Più recentemente, con la rivista ytali, hanno fatto bella mostra di sé nella forma di illustrazioni di alcuni articoli. Senza il permesso di Paolo ma – come poi m’avebbe detto – con la sua tacita e felice approvazione.
Di recente avevo iniziato a cercarlo, chiedendo a possibili amici comuni di creare l’opportunità di un incontro. Fatto sta che, ottenuto il suo numero di cellulare, è inziato via WhatsApp un intenso scambio. Sono entrato nella cerchia degli amici destinatari delle sue immagini e delle sue considerazioni, sull’arte, sul suo modo di vedere il mondo traducendolo in quadri di straordinaria forza.
1990
È successo più di una volta che ytali abbia pubblicato un suo ritratto di Kafka per illustrare articoli dedicati al grande praghese. Mi sarebbe piaciuto averlo. Avrei potuto acquistarlo? Era già impegnato, quel quadro, mi rispose Paolo. Poi, ecco che sbuca un altro Kafka. Una buona ragione per rivederci.
Paolo stava già molto male. Non parlava ma “parlava”, nelle ultime settimane, con i suoi messaggi WhatsApp, quasi un bilancio della sua vita d’artista da condividere con amici e sostenitori. Perché non pubblicarli tutti insieme? Così, nasce l’idea di tradurre questo flusso di immagini e di riflessioni in una lunga intervista che abbiamo pubblicato e che può essere letta come una sorta di testamento personale e artistico.
Grazie Paolo, per il quadro che mi avresti dato e che resterà appeso per sempre ai miei desideri.
Da parte della direzione e della redazione di ytali. un forte abbraccio alla moglie Carmen, ai figlia Ulisse e Martino.
Immagine di copertina: Autoritratto, Inverno 1968/69
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