
“Siamo un po’ tutti figli di Walker Evans” scrisse Gabriele Basilico a Wim Wenders in una lettera nel 2009. Oggi, a cinquant’anni dalla morte del grande fotografo americano, possiamo guardarci indietro e osservare come buona parte della fotografia del Novecento gli sia debitrice. Senza Walker Evans non sarebbe mai nato un capolavoro come The Americans (1958) di Robert Frank, mentre hanno ammesso esplicitamente di essere stati influenzati da lui Stephen Shore e Lee Friedlander. Anche Thomas Struth ha dichiarato più volte la sua ammirazione per il lavoro di Evans e, più in generale, tutta la scuola di Düsseldorf gli deve molto, in particolare per la frontalità del punto di vista, l’asciuttezza dello sguardo, la pulizia delle linee architettoniche. Lo stesso Wenders fotografo e regista gli deve molto.
Probabilmente non esagerava John Szarkowski, direttore per trent’anni della sezione fotografia del Museum of Modern Art di New York, quando l’ha definito come “il fotografo americano più influente del XX secolo”. E non è un caso che sia stato il primo fotografo al quale il Moma ha dedicato una personale, nel 1938.
Ma forse è proprio una certa fotografia italiana, riscoperta e celebrata negli ultimi dieci-quindici anni, ad avere un debito fondamentale nei suoi confronti. Nel 2016, nell’ambito di “Fotografia Europea” di Reggio Emilia (che ha appena compiuto vent’anni) Palazzo Magnani dedicò una bella mostra al debito della fotografia italiana verso la figura di Evans. Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi: non è un’esagerazione concludere che senza il suo modello di sguardo sul paesaggio americano, contro la retorica e contro il pittoresco, l’allora rivoluzionario progetto di Viaggio in Italia (1984) non sarebbe mai nato.
Un’occhiata alle date può aiutare a capire meglio. Negli anni Settanta, la fotografia in Italia era ancora poco considerata nel mondo dell’arte e della cultura visiva istituzionale. In questo contesto, studiosi e artisti iniziarono a cercare nuovi riferimenti internazionali per costruire un linguaggio della fotografia contemporaneo e più consapevole. È Arturo Carlo Quintavalle, docente di storia dell’arte all’Università di Parma, a far conoscere in Italia l’opera della generazione di Walker Evans, proprio grazie alla sua amicizia con Szarkowski e al lungimirante acquisto a poco più di un dollaro di 2.200 stampe di Dorothea Lange, Evans, Strand e altri dalla Library of Congress a Washington. Dal Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma, fondato da Quintavalle, vengono così organizzate le mostre “New Photography Usa” (nel 1971) e “Farm Security Administration. La fotografia sociale del New Deal” (nel 1975), accompagnata da una monografia importante, tra le prime pubblicazioni sul tema in Italia. Molti degli esponenti di quella che diventerà la nuova fotografia italiana hanno raccontato di aver scoperto Evans grazie a quella mostra e a quella monografia.
Basilico ha raccontato che Evans ha sempre rappresentato un modello,
il mio vero grande maestro segreto … Fare dell’immagine fotografica un documento. Fare in modo che quel documento diventi arte e dare a quell’arte un incommensurabile valore sociale.
Per Luigi Ghirri e Gianni Celati le fotografie di Evans sono “carezze fatte al mondo” nella sua capacità di dare dignità ai paesaggi marginali e a soggetti apparentemente poco significativi, senza retorica, senza posa, a ciglio asciutto. Guido Guidi ha raccontato che la frontalità delle fotografie di Evans è stata all’inizio e per molti anni un’ossessione.
In realtà la scoperta in Italia di Evans risale a molti decenni prima, addirittura alla fine degli anni Trenta, quando Elio Vittorini dà alle stampe la prima edizione di Americana, la prima famosa antologia di scrittori statunitensi, che esce accompagnata da 27 immagini proprio di Evans. C’è chi ha visto nel suo occhio e, più in generale, nell’operazione di documentazione della Grande Depressione da parte della FSA, una sorta di preconizzazione del neorealismo che dieci anni più tardi, racconterà al cinema un’Italia stremata dalla guerra, povera ma fiera: lo stesso stile documentario, lo stesso sguardo morale.
Walker Evans, foto del cantiere di un edificio di legno (1935-1942) e, a destra, Drish House, Tuscaloosa, Alabama (1936) Farm Security Administration – Office of War Information Photograph Collection (Library of Congress)
In realtà anche all’interno del progetto della FSA Evans difende fin da subito una sua ben precisa idea di fotografia. Basti pensare alla diversità da Dorothea Lange. Mentre quest’ultima è innanzitutto una fotografa di persone, Evans predilige gli spazi. Evans scansa volutamente l’epicità e il pathos per fermarsi un passo prima: è più interessato alle architetture, alle insegne, alla lettura lenta del paesaggio.
Come scrive Geoff Dyer ne L’infinito istante (Einaudi)
la concentrazione temporale che caratterizza le foto di Evans – la sensazione che suscitano di essere capaci di contenere il tempo quando le si guarda, quando quello che raffigurano è divenuto parte del passato – hanno la capacità assai rapida di generare nostalgia”. Come disse lo stesso Evans “sono interessato a capire in che cosa il tempo presente assomiglierà al passato.
Non è un caso che in molte delle sue fotografie in esterna compaiano i binari di una ferrovia, una strada o un viale che si perdono all’orizzonte.
Evans lavorò sulla committenza della Farm Security Administration solo due anni, tra il 1935 e il 1937, prima di litigare con Roy Stryker, il capo del progetto, noto per il suo controllo editoriale molto forte, che arrivava persino a forare i negativi che non considerava adatti alla pubblicazione, gesto che Evans trovava inaccettabile. Abbandonato il progetto, iniziò a lavorare in modo indipendente. Di qui la famosa collaborazione con lo scrittore James Agee per il libro Let Us Now Praise Famous Men (1941), un’opera incompresa all’epoca, ma oggi considerata una delle più importanti testimonianze dell’America rurale.
Evans fu anche un collezionista di insegne pubblicitarie, sperimentò il colore con la Polaroid e diventò direttore del dipartimento fotografia di Fortune dal 1945 al 1965, anno in cui lasciò per insegnare all’università di Harvard. Nel 1966 fu esposta al Moma la sua famosa serie di ritratti in metropolitana, in realtà realizzata alcuni anni prima, che ci aiuta a capire come sia stato uno dei primi fotografi del Novecento a impegnarsi in una riflessione quasi metalinguistica sulla fotografia e sulla serialità, diventando un punto di riferimento anche per gli artisti della Pop Art e dell’arte concettuale, citato da Sherrie Levine, Jeff Wall e Dan Graham. Un gigante del Novecento.
Immagine di copertina: Edwin Locke, Walker Evans di profilo, 1937 Farm Security Administration / Office of War Information / Office of Emergency Management / Resettlement Administration
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