
Cosa manca?
Da tempo siamo abituati al “momento”. All’attimo. Al contingente.
Ed è una abitudine ormai consacrata dagli stessi strumenti della comunicazione.
Provate a pensarci.
Il social trasmette l’umore, la sensazione, l’urlo.
Raramente riflettuto e ragionato.
I quotidiani letti in internet spesso si riducono a titoli e sommari.
E perdono invece le copie cartacee, vendute in calo in maniera impensabile rispetto ad altri tempi.
Le televisioni sono fatte di notizie dette e ripetute a nastro nei sottotitoli e dall’altra sono piene di confronti che più sono “armati” e urlati più funzionano.
Tutto ciò crea la disabitudine al pensiero, alla costruzione logica, al confronto di merito, alla pacata discussione.
Soprattutto educa a un ascolto simbologic
Simbologico perchè evita il ragionamento critico e si nutre di simboli.
È un ascolto che parteggia per le forme espressive (lo spettacolo dei contendenti) o si schiera a prescindere (ha deciso fin dall’inizio per chi tenere).
Educato dagli spettatori presenti in sala che già sono divisi e organizzati volutamente per tifo.
Non si può non considerare questo modo di essere, di dire e di ascoltare.
Il rifiuto del momentaneo, dell’accidente che ci colpisce e che ci lascia spesso inermi e disperati di fronte alla notizia e all’urlo usati come corpi contundenti, serve a poco.
Questo rifiuto purtroppo spesso ci isola e ci riduce ad amanti del passato che non ritorna.
Accanto a ciò c’è l’assenza, il rifiuto, il silenzio dichiarato di chi non intende far parte della minoranza che vive contando nei fatti o pensando di contare.
Quindi di coloro che scelgono di non esprimersi, di mantenersi distanti dalla socialità elettrice e votante.
Ed è evidente che tale distanza è antagonista. Anche quando ciò avviene non dichiaratamente.
Perchè non si riconosce “parte”, perchè ha perso fiducia, perchè dubita troppo, perchè non si fida.
Si è rotto un legame antico.
Il legame democratico che esprimeva la possibilità sostanziale e non formale di esprimersi e di contare. Quando esprimersi era contare.
E questa parte della società, spesso maggioritaria, è invisibile.
Volutamente perché disinteressata per rinuncia o per antagonismo alle strutture possibili della democrazia.
La fatica di contare necessita infatti come base primaria proprio della speranza, della fiducia sulla possibilità prima ancora che sul risultato.
Ed ecco allora le due facce di ciò che ci manca.
Contare tra coloro che usano e adottano una comunicazione basica, immediata, facile ma erronea, strumentalizzabile, incontrollabile e spesso banale.
Contare tra coloro che non ci sono, gli scomparsi, quelli che non puoi convincere soltanto con gli appelli o gli inviti.
Coloro che dubitano dei capisaldi della democrazia e la vogliono sostanziale e propria.
La mancanza può generare opportunità? Credo di sì.
Vi sono però diversi obiettivi.
E va ricordato che le stesse strutture della democrazia partecipata debbono corrispondere ai modi di comunicare e di organizzare il consenso.
Ho tre valutazioni che ritengo utile sviluppare.
La prima è quella sulla comunicazione.
È per certi versi la più semplice e la più attuabile
Nel vedere la politica di oggi è evidente che il voto esistente è una manifestazione di opinioni, non di status sociale.
È il “tuo” modo di pensare che ti porta a schierarti, a ritenere giusto o sbagliato un tema.
È il cosiddetto voto di opinione, lo spendersi per ciò che si crede. E a sua volta si divide in concetti più personali e in opinioni più generali.
Quando in sostanza un tema ti colpisce perché ti tocca nella tua vita e nel tuo sentire e quando invece assume un senso storico culturale più generale, più di atteggiamento verso la realtà.
Le grandi battaglie sono tutte qui.
Pace, ambiente, armi, problemi di “genere”, libertà, diritti.
Le grandi battaglie della idealità consapevole appunto.
Poi vi è la seconda dimensione.
Quella che deve contrastare il sovranismo e il populismo.
Che è tutt’altro che retorica o chiacchericcio da bar.
In realtà si esprime nella vita quotidiana ed è fatta di salario, sanità, scuola, lavoro, spazi di non lavoro, e così via.
Sono le cose che quando ti accadono ti fanno rabbia e che colpiscono in ogni minuto della vita.
Sono le cose che un tempo connotavano il tuo essere sociale e dipingevano le tue relazioni costruendo lotta e unità. E che oggi invece dimostrano solo la solitudine di chi incassa sconfitte con la diminuzione dei servizi, delle opportunità e delle generali condizioni di vita.
E qui valgono solo le proposte concrete, gli esempi, le prospettive credibili.
Perché la parola ha perso valore e senso e alla parola, da sola, si crede poco. Ma tutto ciò non basta. Occorre anche essere credibili.
Vi ricordate Berlusconi?
Aveva convinto mezzo mondo che era possibile diventare come lui.
Una sorta di “sogno americano” che permetteva al povero di arricchire, all’ignorante di sapere, all’abile di farsi strada.
Se si vuole credibilità vera a sinistra bisogna invece guadagnarsela senza sconti.
E quindi non basta scrivere o parlare “su”.
Bisogna spendersi e non essere per forza garantiti.
Perché l’esempio conta.
Allora si capisce, ad esempio, la forza e il limite di questo referendum che abbiamo appena attraversato.
La forza sta nel tornare a esserci su temi drammaticamente normali e veri.
Il limite nell’incapacità di filtrare proprio tra i deboli e gli sconfitti.
Ma bisogna pur iniziare.
L’articolo La sinistra e la società invisibile proviene da ytali..