
Procuratore Gratteri, il boss mafioso Giovanni Brusca da oggi è un uomo libero dopo 25 anni di carcere, di cui gli ultimi 4 in libertà vigilata. «Il ritorno in libertà di Giovanni Brusca ci amareggia molto, moltissimo», commenta Tina Montinaro, vedova del capo scorta di Giovanni Falcone. «Questa non è giustizia per i familiari delle vittime della strage di Capaci e di tutte le altre vittime». Lei cosa pensa dell’indignazione della gente?
«Voglio chiarire alcuni aspetti importanti. La norma sui collaboratori di giustizia prevede che, per esserci un programma di protezione, il dichiarante sia o un indagato mafioso, che deve dire cose rilevanti, oppure un testimone di giustizia. Per il collaboratore di giustizia la legge prevede che debba dire tutto ciò di cui è a conoscenza di rilevanza penale. Quindi la norma non prevede il pentimento di chi dichiara. Ripeto, la legge prevede semplicemente che lui debba dire tutto ciò di cui è a conoscenza».
Dunque nessun pentimento, sentimento che invece resta un’aspettativa morale della pubblica opinione.
«La cosa importante per un pubblico ministero, per un investigatore o per un ufficiale di polizia giudiziaria che si trovi eventualmente a chiedere il programma di protezione, è che quando si va a interrogare l’aspirante collaboratore di giustizia, prima si prepari, studi la vita criminale di quel dichiarante, quella dei suoi parenti, dei suoi amici e dei suoi nemici, in modo tale che nel corso dell’interrogatorio il collaboratore di giustizia, o l’aspirante collaboratore di giustizia, non “lo porti a passeggio” (da intendere non lo dirotti dove lui vuole ndr.). Dopo che si è completato un interrogatorio serio, stringente ed esigente, e quindi si è svuotata completamente la testa e le conoscenze del mafioso in questione, allora si deve procedere a chiedere il programma di protezione. E lì è ovvio che scattino i benefici, perché altrimenti, se non ci fossero dei benefici, degli sconti significativi di pena, nessuno chiederebbe di collaboratore con la giustizia».
II termine “significativi” fa la differenza.
«Se io criminale, con il rito abbreviato ho già un terzo della pena in meno, poi in carcere mi comporto da detenuto modello, e quindi ogni anno mi scalano diversi mesi di pena, poi ottengo la semi-libertà, ho già varie strade da percorrere per uscire prima dal carcere. Però, se io voglio completamente cambiare vita, faccio il collaboratore di giustizia. Ma, ripeto, la legge non prevede il pentimento. Quindi anche per Brusca vale la stessa regola. Se fosse un salesiano, un seminarista, non avrebbe nulla da dire. È ovvio che il collaboratore di giustizia lo fa chi ha commesso reati, chi ha commesso crimini, altrimenti di che deve parlare? La legge dà questi benefici, è non è il numero di omicidi commessi a determinare la possibilità o meno di godere sempre di questi benefici. Non si possono fare distinguo, la legge è uguale per tutti».
La percezione pubblica non è la stessa che Lei descrive.
«Intanto noi dobbiamo preoccuparci dell’osservanza ortodossa delle regole, della legge. Nel percorso, anche quello di Brusca, è stata osservata la legge. Perché si discute oggi di questa cosa? Ha vissuto 4 anni in semi-libertà, sapete cosa vuol dire? Che di giorno, dalla mattina alle 7 alla sera, lui era in giro per la città. Lui andava a lavorare in un posto, quindi camminava per le strade, poteva anche commettere dei reati. E sicuramente non l’avrà fatto. Ma la sera tornava in carcere. Perché solo adesso se ne parla?».
In realtà, all’epoca, l’allora esponente di opposizione Giorgia Meloni, oggi premier, asserì: «È una notizia che lascia senza fiato e fa venire i brividi. L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile, è un affronto per le vittime, per i caduti contro la mafia e per tutti i servitori dello Stato che ogni giorno sono in prima linea contro la criminalità organizzata. 25 anni di carcere sono troppo pochi per quello che ha fatto. È una sconfitta per tutti, una vergogna per l’Italia intera». Una reazione scomposta che poco attiene al senso dello Stato.
«Chiunque è libero di criticare la legge, il Parlamento ha il potere di modificarla se lo ritiene, ha il potere di abrogare o di abolire la legge sui collaboratori di giustizia. Può fare tutto, però non possiamo chiedere la disapplicazione di questa legge. Noi dobbiamo dire se questa norma serve o non serve, se è utile o non è utile. Se il potere politico ritiene che non lo sia, la può abolire, abrogare».
Andando a memoria, ricordiamo che Lei ad alcuni cosiddetti “pentiti” non ha concesso il programma di protezione.
«Certamente. Anche detenuti eccellenti. Ho interrogato un capocrimine, cioè un criminale appartenente ad una struttura apicale, che ha esordito dicendo che mi doveva parlare di più di cento omicidi. Stava parlando sì di cento omicidi, però non mi parlava di elementi che riguardavano la sua famiglia. Così per me è inaccettabile, non posso consentire a un aspirante collaboratore di giustizia che trattenga delle informazioni per sé o per una famiglia mafiosa, perché lui può ricattare quella famiglia mafiosa, oppure può ricattare altre persone. Io non posso consentire questo. Ai miei sostituti insegno la mia regola: prima devono studiare il profilo criminale dell’aspirante. Non bisogna immediatamente correre da chi manifesta che vuole rendere delle dichiarazioni. Sarebbe solo voler mettere il cappello sulla sedia. No. Prima si studia. Poi si va lì preparati, altrimenti è il mafioso a condurre la cosa portando l’investigatore, o chi per lui, dove meglio crede».
Questo è il suo metodo per capire se l’aspirante collaboratore sta dicendo la verità?
«Esatto. Prima si studia. Ma anche qui a Napoli mi è capitata una situazione simile con uno dei vertici della camorra storica, camorra di serie A per intenderci, che ha chiesto più volte di collaborare, di parlare. Io l’ho studiato, perché non sono un esperto di camorra, ma ho studiato tutta la parte criminale, investigativa, le sentenze che hanno riguardato quel gruppo camorristico e quando sono andato a interrogarlo, insieme ai colleghi, abbiamo convenuto che non era sincero al cento per cento. Non firmo programmi di protezione in questo modo, il motivo è che non posso consentire che la legge venga applicata a metà o a tre quarti. Per essere più chiari, se tu vai a messa, se sei credente, perché la messa valga, devi ascoltarla tutta. Qui vige lo stesso principio».
Sono tutti scrupolosi come Lei?
«Il livello investigativo dei magistrati che sono alla DDA (Direzione Distrettuale Antimafia ndr.) è medio-alto. C’è gente che ha molta esperienza. Personalmente, come metodo, sia alla procura di Reggio Calabria, poi come procuratore distrettuale a Catanzaro e adesso come procuratore di Napoli, esigo che il target sia alto. Tu “pentito” devi dire tutto quello che sai, altrimenti il programma di protezione non lo firmo. E infatti i collaboratori di giustizia a Napoli sono diminuiti».
Lei considera ancora uno strumento valido il programma di protezione?
«Validissimo. Visto che adesso, con le riforme che si stanno facendo, ad esempio quest’ultima sul sequestro dei telefonini (la nuova proposta di legge in esame alla Camera sull’autorizzazione al sequestro degli smartphone ndr.) ci stanno complicando il lavoro e ci rimane ben poca libertà d’azione. Pensiamo inoltre a quanto previsto dalla nuova legge Zanettin in tema di intercettazioni, la durata complessiva delle stesse non può superare i 45 giorni. Il limite si applica a tutti i procedimenti penali, comprese le indagini della Procura ordinaria. Cosa significa? Che questi provvedimenti vanno a ingolfare, nella logica del doppio binario, la procedura nella fase delle indagini preliminari e pre-dibattimentale nei processi ordinari. Tutto ciò si ripercuote ovviamente sui processi di mafia, non fosse altro per i tempi della definizione dei processi e tenuto conto che il numero di magistrati è sempre quello. Dunque è vero che nella teoria le procedure per i processi di mafia non sono state toccate, ma nella pratica le cose vanno diversamente».