
Donald Trump nel gorgo di una guerra, a neppure cinque mesi dal suo insediamento come 47mo presidente degli Stati Uniti. Uno scenario impensabile, riavvolgendo il nastro della sequenza delle sue dichiarazioni, fin dall’esordio in politica, contro ogni forma di impegno militare di rilievo in aree di crisi, tanto meno con l’intento di affermare i “valori democratici” occidentali, calpestati peraltro negli stessi Stati uniti. Se c’è una linea di coerenza nella sgangherata condotta di Trump è proprio sul terreno dell’impiego delle forze armate, che ha sempre considerato più utili all’interno dell’America e lungo i suoi confini che fuori confine. Il disegno più di un dittatore che di un gendarme globale. Mentre era nella Situation Room con i massimi responsabili della National Security, decidendo il da farsi a sostegno d’Israele, altri duemila soldati della Guardia nazionale erano inviati e dispiegati a Los Angeles nell’escalation della “guerra” contro i lavoratori senza permesso di soggiorno. La guerra a cui veramente tiene.
Trump fa lo spavaldo pur capendo che sta per finire nella trappola di Netanyahu. Dice e non dice quel che ha in mente per le prossime ore: “Nessuno sa quello che farò”. Non è la stessa risoluta spavalderia ostentata nel dibattito tra aspiranti repubblicani alla presidenza, nel febbraio 2016, quando mise ko il povero Jeb Bush, colpevole di essere il fratello di George W. e figlio di George H., i responsabili di due disastrose campagne di guerra che hanno reso Medio Oriente e Golfo una regione fuori controllo, devastata e in conflitto permanente, senza dire dell’Afghanistan. Fino ad arrivare alla guerra in corso in Iran. “Non avremmo mai dovuto essere in Iraq”, urla l’allora candidato repubblicano rivolto a Jeb. “Mentirono. Dissero che c’erano armi di distruzione di massa. Non ce n’erano e lo sapevano che non c’erano”.
Non è lo stesso quadro in cui incorniciare l’offensiva israeliana contro l’Iran?
Da allora la polemica con i neoconservatori bellicisti e interventisti è stata un tratto saliente della retorica di Trump. Qualcuno di loro è arrivato alla sua corte, come John Bolton, per essere scaraventato brutalmente fuori dalla porta. E la sua idiosincrasia per i neocon è arrivata al punto di collocarla nella lista dei nemici più cari, Liz Cheney, in quanto figlia del principe delle tenebre dell’epoca neocon, Dick Cheney. Ma di quella schiera era ed è parte anche Bibi Netanyahu, il primo capo dell’esecutivo israeliano nato in Israele (1949) dopo la costituzione dello stato ebraico, ma anche il primo premier culturalmente “all American”. Parte rilevante della sua biografia s’intreccia con gli Stati Uniti. Mai un leader israeliano aveva avuto una altrettanto notevole capacità di interagire direttamente e personalmente con gli ambienti politici, culturali ed economici americani. E i suoi interlocutori privilegiati sono e sono stati esponenti della destra, in particolare quella neconservatrice. Infatti la relazione con Trump non è così amichevole come vorrebbe far credere Bibi. Lesto nel riconoscere la vittoria di Biden nel 2019, fu la prova regina, per Trump, della sua scarsa affidabilità e lealtà. E non è un caso che nella prima importante visita di Trump nella Regione mediorientale non abbia toccato Gerusalemme, ma solo Riyadh e il Golfo.
Netanyahu, con l’intervento in Iran, ha creato una situazione di fatto, sapendo che non avrebbe avuto altrimenti luce verde da Trump, attento più alla costruzione di una rete d’affari con bin Salman e sceicchi vari che al sostegno d’Israele (Biden andò a Gerusalemme pochi giorni dopo il 7 ottobre). E adesso che il conflitto è a un punto di svolta, l’intervento americano diventa decisivo. Non solo per colpire al cuore il potenziale atomico iraniano, un’impresa possibile solo con l’aviazione americana, ma anche solo per fornire a Israele i mezzi di difesa aerea che, secondo il Washington Post, sono in via di esaurimento, rendendolo vulnerabile ai missili e ai droni iraniani.
Trovarsi nelle condizioni di doversi adeguare all’iniziativa di Bibi, in un campo di gioco scelto dal leader israeliano, è qualcosa che prima o poi gliela farà pagare, all’amico israeliano. Ma intanto non può che giocare da gregario. Così, prende tempo, aspetta che la situazione militare sia tale da richiedere solo il colpo finale e renderla plausibile alla platea dei suoi sostenitori evangelizzati con la dottrina dell’isolazionismo America First. Sta pensando come e quando mettersi a capo tavola, e come apparecchiare la tavola, perché si festeggi la vittoria finale sul “cosiddetto leader supremo”, come ha definito Khamenei, nel segno delle stelle e strisce.
Possono anche esserci, nel calcolo di Trump, le riserve di gas e petrolio? Sono tra le maggiori del mondo e della migliore qualità – non il bitume che producono gli Usa, che ha altissimi costi di estrazione e raffinazione – e diretto soprattutto alla Cina. Un obiettivo che può apparire remoto ma che potrebbe perfino finire come uno dei punti di trattativa sul tavolo di un negoziato, se fosse riaperto. Al momento appare ipotesi irrealistica ma non da scartare, essendo quello l’obiettivo dichiarato di Trump prima dell’attacco israeliano.
il manifesto
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