
Cinque Giri d’Italia, cinque Tour de France, una Vuelta di Spagna, il record dell’ora, i campionati del mondo e tutte le classiche: basterebbero questi numeri per definire chi sia stato il neo-ottantenne Eddy Merckx come ciclista. Se a ciò aggiungiamo le oltre cinquecento vittorie complessive, in una stagione nella quale non è che gli avversari fossero scarsi (vedasi alla voce Gimondi), ci rendiamo forse conto di quale portento sia stato il belga nel corso di una carriera inimitabile. Eppure non bastano gli aridi dati per definirne la grandezza, in quanto “il Cannibale”, com’è stato comprensibilmente soprannominato, aveva in sé qualcosa di più. Sarà stata la personalità, sarà stata la grinta, sarà stato il fascino nordico, sarà stata la potenza che sprigionava ad ogni scatto, sarà stato l’insieme di tutti questi elementi, fatto sta che mai più abbiamo assistito a un portento di quelle dimensioni.
Oggi furoreggia Tadej Pogačar, e non c’è dubbio che lo sloveno possa candidarsi a essere un epigono del fuoriclasse appena descritto; temiamo, tuttavia, che dovrà passare forse un secolo prima di veder nascere qualcosa di simile. E non è detto che possa accadere, essendo venuti meno la passione, l’entusiasmo e la dedizione totale di un tempo. Intendiamoci: non è che all’epoca di Merckx fosse tutto perfetto, che non ci fossero spallate, rivalità feroci e momenti poco edificanti, non è così. C’era, però, quello spirito zingaro, quel desiderio di battersi in maniera quasi cavalleresca, quel rispetto per i valori dello sport di cui ora s’è smarrito il seme.
Questione di soldi, di sponsor, di televisioni, di avidità, della presenza asfissiante, anche nel ciclismo, di paesi che poco hanno a che spartire con l’epica che fu; mettiamoci pure la perdita di quell’impronta mitica costituita dall’infanzia e dall’adolescenza trascorse in sella a una bici, magari per effettuare delle consegne. Ormai è diventato tutto perfetto, tutto professionistico, tutto impeccabile: una bicicletta costa migliaia e migliaia di euro, è leggerissima ed è dotata di comfort inimmaginabili ai tempi del Cannibale. Non è detto che sia un male, anzi, ma come son venuti meno gli antichi conquistatori della strada, così sono scomparse le penne che accompagnavano, con disincantata illusione, le gesta di quegli eroi spesso ridotti a una maschera di fango e di sudore, descrivendole poi in articoli destinati a diventare pagine di storia del giornalismo.
Eddy Merckx è stato, probabilmente, l’ultimo personaggio memorabile di uno sport che, progressivamente, è scivolato, come del resto ogni altro ambito della società, verso l’anonimato, risorgendo per qualche anno grazie alla purezza d’animo di Pantani, per poi tornare a essere una delle tante componenti del nostro stanco trascinarci. Un giorno dopo l’altro, una pedalata dopo l’altra, una carovana dopo l’altra, Giro, Tour, Vuelta, classiche, Mondiali: tutto si perde, quasi nulla rimane impresso e ci domandiamo se non sia anche, se non soprattutto, questa mancanza di sentimenti forti a determinare il nostro senso di indeterminatezza, come se proprio non riuscissimo a trovare un posto nel mondo.
Di recente, gli ha dedicato una bella biografia Guy Roger, già firma dell’Équipe, intitolata “Merckx. Il Cannibale”. La prefazione l’ha scritta il diretto interessato e vogliamo riportarne alcune righe:
Mi chiedete infine quale immagine vorrei che la gente conservasse di me una volta che non sarò più qui? Soprattutto, vorrei essere un esempio per i giovani. Dire loro che la cosa più importante è rimanere se stessi, con i piedi per terra, e che si divertano, anche se fanno fatica. La bici è una lezione di vita. Che il mio nome si cancelli o sparisca, è la legge del tempo che passa. Che ci si ricordi di me, sarebbe una forma di riconoscenza. Ma non sta a noi decidere.
Stia tranquillo, caro Merckx: il suo nome è destinato all’eternità.
Immagine di copertina: Luc De Blick, Statua di Eddy Merckx nel suo villaggio natale. Kiezegem
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