
Era da tanto che la moda non faceva politica in modo diretto, lampante, chiaro, lasciando da parte gli intellettualismi e le interpretazioni personali. Quello che oggi, 27 giugno, abbiamo visto sulla passerella parigina di Willy Chavarria è un evento raro, purtroppo.
La moda è un’arte, anche se molti sembrano dimenticarlo, e l’arte è politica, o quantomeno si può fare politica attraverso l’arte. Questo anche quando si usano le espressioni e i media più pop, più legati a una certa forma di industria. Se nella musica e nel cinema nomi di grandi autori che hanno raccontato, e raccontano, il sociale sono tanti e immediati, nella moda non è sempre così.
Franco Moschino ha costruito un’estetica e una poetica artistica, tanto quanto un brand di successo, sulla critica di un certo tipo di persone, di ceto sociale, sempre attraverso un’ironia mai più replicata. Adrian Appiolaza, attuale direttore creativo del brand, sta tentando di recuperare quanto fatto dal pioniere lombardo, ma non è semplice. Non è semplice perché il suo predecessore, Jeremy Scott, aveva trasformato il marchio in un contenitore vuoto, fatto di kitsch assolutamente privo di qualunque sottotesto politico, andando contro sia alla visione di Moschino sia al concetto di camp, che non è mai, mai fine a sé stesso, neanche quando sembra esserlo (vedi i film di John Waters). In più i tempi sono cambiati, la maison veniva fondata negli anni Ottanta, da un ex collaboratore di Versace, pronto a fare suo quel massimalismo rendendolo ancora più ricco di significato. Se Versace racconta il gusto del sud, fatto di barocco, influenze arabe, rom, e spagnole, Moschino racconta, o meglio prende in giro, la borghesia, il lusso, lo sfarzo, la moda. Un’operazione che oggi, nell’era dell’ossessione del fatturato, è impossibile, semplicemente perchè troppo pericolosa, troppo rivoluzionaria, non rassicurante.
Il già citato Appiolaza, con la sua sfilata n.2 raccontava l’alienazione dell’uomo o della donna d’ufficio, che sembra lasciare il lavoro per andare in viaggio, per poi rendersi conto che in realtà è tutto nella sua mente e così il suo mondo comincia a sgretolarsi, a passare attraverso un tritadocumenti. Purtroppo tale profondità di racconto non la possiamo ritrovare nelle collezioni successive dello stilista, obbligato a fare vestiti che in primis si vendano.
Ma il caso di Moschino non è unico, stilisti che, attraverso i tessuti tentano di fare riflessioni importanti ce ne sono, il problema è che nella maggior parte dei casi lo si fa sempre con una visione a dir poco intellettuale, non immediata e, addirittura, incomprensibile a un occhio non allenato. Sto parlando, ovviamente, del buon Demna Gvasalia, il quale nei suoi dieci anni da Balenciaga ha ridisegnato i confini di ciò che può essere definito moda e ciò che resta spazzatura, letteralmente. Nastri adesivi come braccialetti, asciugamani come gonne, pacchetti di patatine come borse, tutte vendute a centinaia di euro. Demna denuncia il capitalismo, ma non sempre lo fa in modo comprensibile, tanto che a volte sembra che ci stia prendendo tutti in giro, e forse lo fa per davvero.
Altro trasgressivo è Rick Owens, designer californiano che ha passato tutta la vita alla ricerca di un luogo dove potersi esprimere, poter essere sé stesso nel modo più libero ed estroso concepibile. Con il suo marchio non firma collezioni di vestiti, ma crea un vero e proprio culto, che, a differenza delle sette pseudoreligiose, è davvero un posto sicuro per chiunque, anche se non indossi i suoi costosissimi vestiti e non hai un sarcofago egizio in casa (sì lui ha un sarcofago in una delle sue numerose abitazioni, oltre a letti di marmo e muri volutamente scrostati, in piena estetica brutalista, che lo ha spinto ad acquistare una casa a pochi metri dal Palazzo del Cinema del Lido di Venezia, monumento dello stile).
Tutto il resto, o quasi tutto il resto, è un mondo della moda, ormai, sempre più succube del mercato e della necessità di far cassa, a qualunque costo. Se non performi, vieni licenziato, a prescindere da chi tu sia e da quanto lavori in quel brand. In tutto questo Willy Chavarria sembra un miraggio, un pazzo, un reietto per scelta che sta lontano dalle grandi firme che potrebbero definitivamente lanciarlo nell’olimpo della moda (almeno fino al giorno in cui scriviamo, si sta parlando di un suo coinvolgimento nel progetto Fendi) perché vuole dire quello che vuole, fare quello che vuole, senza censure.
Willy Chavarria nasce, nel 1967, nella città californiana di Huron, la cui popolazione è composta al 95 per cento da latino-americani. Nelle sue vene scorre sangue irlandese e messicano, rendendo Willy il perfetto esempio del multiculturalismo statunitense, ma anche vittima del razzismo che ne deriva. Nel 2015 lancia la sua etichetta e nel 2021 si unisce a Calvin Klein. Esordisce dal marchio di underwear e costumi Joe Boxer, per poi trasferirsi a New York grazie a un incarico presso Ralph Lauren, ma nel suo cuore il ricordo della comunità operaia/agricola del sud della California non è mai svanito.
La carriera esplode nel 2023, dopo aver ottenuto il premio per Menswear Designer of the Year dal CFDA (Council of Fashion Designers of America), solo terzo latino a ottenerlo. Willy diventa subito riconoscibile grazie alla sua estetica ampiamente ispirata al mondo ispanico, il quale non viene solo copiato e reso altamoda, ma raccontato. I completi di velluto rosso e i pantaloni col cavallo basso sono il simbolo di un popolo, di una cultura che negli USA è vittima di un razzismo estremo. Denis Villeneuve in Sicario ritraeva un’America di confine, quella di El paso/Ciudad Juárez, attraverso le avventure di un ex avvocato messicano vittima dei cartelli e quelle di un gruppo di agenti della CIA al limite della corruzione. Chavarria fa lo stesso ma con i vestiti.
La collezione autumn/winter 2025, presentata quest’inverno, è un viaggio nella moda ispanica. Grandi cappelli da cowboy bianchi a tesa larghissima, accostati a splendidi completi morbidi fatti in tessuti preziosi e colori sgargianti, ma anche jeans e giacche da lavoro, per poi arrivare all’estetica da gang. Tute realizzate in collaborazione con Adidas dallo stile retrò seguite da calzoni da boxe, che mettono a nudo i modelli tatuati e sudati post allenamento. Il racconto di una cultura dagli occhi di chi ne fa parte. Dall’eccesso dei vestiti dei narcos al casual dei ragazzi di strada, la parola sobrietà non è contemplata. Uno sporco messicano lo vedi lontano un miglio, solo per come è vestito, quel cattivo gusto che fa ribrezzo ai repubblicani ben pensanti, con cabine armadio ricolme di Versace e Cavalli. Loro, quei poveracci non li vogliono su suolo a stelle e strisce, la più grande nazione del mondo. Un pensiero, una realtà, che a gennaio stava appena cominciando a (ri)prendere forma, ma che ora, dopo i primi mesi dall’insediamento di Donald Trump, sta diventando quotidiano, normalità.
Il 27 giugno 2025 sarà ricordato nei libri di storia della moda come il giorno del debutto di Jonathan Anderson da Dior. La superstar nordirlandese approda come direttore creativo della maison più importante del mondo, dopo mesi di speculazioni, con una divisiva collezione menswear che ha catalizzato l’attenzione di tutti. È da settimane che si parla solo della nuova era JW, e probabilmente si continuerà a farlo ancora per un po’. È normale che oggi sia divenuta la sua giornata. Il problema è che a qualche minuto dalla fine di Dior Homme, sempre a Parigi, è andata in scena la collezione più potente e politica degli ultimi anni.
Willy Chavarria non poteva prendere slot peggiore, nonostante la grandezza della sfilata, questa sta passando decisamente in sordina, rispetto a quella di quest’inverno, tutto a causa dello straripante “gossipparo” Dior. Nelle storie dell’account ufficiale del designer americano spunta un video che ritrae i lavoratori di Huron fuggire dai propri posti di lavoro nei campi a causa dell’arrivo di un gruppo di forze dell’ordine. La descrizione del video-notizia recita
Huron, CA: i contadini sono stati visti correre spaventati per via della nutrita presenza di forze dell’ordine, che si trovavano nel pieno di una caccia all’uomo. Gli operai non hanno corso rischi.
Ecco che la stessa Huron dà il titolo alla collezione spring/summer 2026 e tre immagini vengono fissate sulla pagina Instagram del marchio: una scena religiosa, un video di un gruppo di ragazzi che guidano nel deserto californiano, un’ombra di un uomo da cui emerge il riflesso dei denti d’oro. Religione, deserto, facce, questa è l’America degli ispanici, che oggi più che mai si sentono indesiderati nel loro stesso paese.
Sapete l’inglese non è la mia lingua madre, spero che voi pubblico mi possiate aiutare se vengo… come si dice… deportato!
Così scherza l’attore messicano Diego Luna in diretta nazionale mentre fa il suo monologo durante la prima sera della sua settimana da presentatore ospite al talk show Jimmy Kimmel Live.
L’invito allo show era un facsimile di una lettera di deportazione, in cui il testo viene sostituito da: “questa lettera è un riconoscimento formale che l’individuo il cui nome è sotto riportato ha un incontestabile Diritto a Esistere”. La sfilata inizia, ma a uscire non è un modello, bensì un ragazzo che sembra appena uscito da una prigione del sud. È completamente vestito di bianco, con dei calzoni e una maglia larghissimi. Dopo di lui un gruppo sempre più grosso di ragazzi, vestiti allo stesso modo, si raggomitola a terra in fila indiana e si siede in cerchio, con le mani dietro la schiena, intorno al monogramma dello stilista. No non è una scena tratta dalla prigione di Bukele e l’unica cosa che ce lo ricorda è California Dreaming in sottofondo. Un’immagine che, da sola, ci ha fatto capire tutto quello che lo stilista vuole dire, trasmettere, raccontare, giudicare, criticare, denunciare.
Ancora una volta Chavarria racconta l’uomo ispanico passando dai completi formali alle tute, indossate da grandi personalità dello sport, tra cui il rugbista italo-neozelandese Montana Ioane, che sfila mettendo in vista i tatuaggi, accentuati dal colore azzurro (come quello della maglia dell’Italia che indossa nelle partite della nazionale) del due pezzi che veste. Per la prima volta, però, c’è anche tanto womensweare. Le donne di Willy sono di tutti i colori, ispirate all’estetica anni Sessanta, ma fatta contemporanea. Sono le mogli dei narcos, ma anche giovani madri lavoratrici che non rinunciano allo stile. Sono fiere, sono bellissime.
Le sfilate di Chavarria sono fatte di abiti e colori, tanto quanto di facce e politica. Il suo modo di fare moda, di fare arte, è ormai una chimera. Oltre al racconto delle ingiustizie, però, Willy ci dice che tutti noi dovremmo essere come le sue modelle, fieri di vestire le nostre culture, anche se vittime di odio da parte di chi ci vede come diversi. Tuttavia la sua visione è lapidaria, non c’è spazio per la speranza, perché in quell’America scritta sottosopra, ancora oggi, persone muoiono o svaniscono a causa della violenza a sfondo razziale, e la politica mondiale attuale sta rendendo tutto ciò qualcosa di naturale, una giusta causa quasi. Il mondo dell’arte, invece di rivoltarsi affonda sempre di più nel rapporto con l’economia, la necessità di guadagno. Per questo un artista come Willy Chavarria è importante, ci ricorda che tutti noi abbiamo una voce, anche quando tentano di togliercela.
Immagine di copertina via @willychavarrianewyork
Link alla sfilata completa qui
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