Ho impiegato alcuni giorni prima di scrivere un ricordo di Diogo Jota, il formidabile attaccante del Liverpool morto in un incidente stradale insieme al fratello minore André Silva mentre viaggiavano nella provincia di Zamora, nel Nord-Ovest della Spagna, per recarsi all’imbarco alla volta dell’Inghilterra.
Non so, non voglio capire. Diogo Jota aveva ventotto anni, il fratello venticinque, si era sposato dieci giorni prima con Rute Cardoso, l’amore della sua vita, e aveva avuto da lei tre figli. In pochi mesi, si era laureato campione d’Inghilterra e aveva finto la Nations League con il Portogallo. Ribadisco: non so e non voglio capire, non ci riesco. Non è possibile che la vita sia appesa a un filo così flebile: sei all’apice della gloria e della felicità e, all’improvviso, tutto finisce. Una gomma che scoppia, la vettura che esce fuori strada, le fiamme e una morte atroce a neanche trent’anni: non riesco ad accettarlo.
È inutile star qui a sottolineare le qualità tecniche del centravanti portoghese o riflettere su quante altre stagioni da protagonista avrebbe avuto davanti a sé. È retorico pure parlare del dolore straziante della giovane vedova e della solitudine delle creature. La verità è che non si può scrivere un artocolo di fronte a un addio così assurdo, repentino e senza spiegazioni. Siamo afoni, incapaci di trovare le parole adatte, anche perché non ci sono, e sempre più avviliti.
Ricordo bene altri episodi del genere: il difensore del Brescia Vittorio Mero, l’attaccante del Chievo Jason Mayélé e, prima di loro, il diciassettenne Niccolò Galli, figlio del leggendario portiere milanista Giovanni Galli e promessa del Bologna, scomparso nel febbraio del 2001 a soli diciassettenne anni. Anche in quei casi era impossibile esprimersi. Tutto sembrava incredibile, surreale, avvolto da una coltre di tristezza nella quale l’unico gesto sensato era rimanere in silenzio. E allora preferiamo dire basta, non aggiungere altro, non unirci al coro di chi si perde in numeri e statistiche ormai prive di senso. Diogo Jota ci pone di fronte al mistero della vita, della sua finitezza e della sua imprevedibilità. Sembra quasi un sacrificio agli dei, la vittima di una tragedia senza spiegazioni.
In un istante, abbiamo visto i miti del calcio tornare a essere uomini, piangere come i comuni mortali, commuoversi, deporre fiori, scrivere parole bellissime sui social e mostrare il lato migliore di uno sport sempre più affogato nel business e nella conseguente perdita di valori e sentimenti. C’è voluta una tragedia per farci ridiventare umani, almeno per qualche istante. Poi tutto si dissolverà e continueremo a disputare tornei insensati, pletorici e pericolosi per la salute degli atleti. Per fortuna, però, almeno per qualche ora, siamo tornati a commuoverci. E in quelle lacrime sincere è racchiusa la speranza del nostro riscatto.
L’articolo Jota proviene da ytali..