
La Camera dei Rappresentanti ha infine approvato il Big, Beautiful Bill del presidente Donald Trump. Il risultato è l’esatto opposto di ciò che Elon Musk, un tempo alleato di Trump e principale donor repubblicano del paese, aveva sperato. Prima del voto alla Camera dei Rappresentanti, Musk aveva espresso la sua opposizione al disegno di legge e aveva promesso di creare un partito politico rivale, l’America Party, nel caso in cui i repubblicani lo avessero approvato.
Le critiche di Musk derivavano in parte dal fatto che il disegno di legge non manteneva le promesse che avrebbero favorito il suo business, in particolare per quanto riguarda i sussidi per i veicoli elettrici e i significativi tagli alla spesa. Dopo il voto del Senato che ha preceduto di qualche giorno quello alla Camera, Musk aveva quindi attaccato Trump, accusandolo di tradimento:
Se questo folle disegno di legge di spesa verrà approvato, l’America Party nascerà il giorno dopo. Il nostro paese ha bisogno di un’alternativa al partito unico Democratico-Repubblicano, affinché il popolo possa davvero avere voce in capitolo,
aveva dichiarato su X.
Con l’avanzare dell’iter legislativo, la retorica di Musk si è intensificata. Ha promesso di fare campagna contro i repubblicani che avevano sostenuto la legge e ha appoggiato il deputato Thomas Massie del Kentucky, un feroce critico del disegno di legge. In precedenza, Musk era arrivato al punto di esortare i suoi seguaci a bloccare il provvedimento inondando i parlamentari di telefonate.
Questo ha segnato un cambiamento radicale per Musk, che nel 2024 era stato il principale finanziatore di Trump, spendendo quasi duecento milioni di dollari attraverso America PAC, uno di quei comitati che permettono ai grandi donatori di aggirare i limiti imposti alle donazioni dirette ai candidati, finanziando campagne parallele con risorse illimitate, purché senza coordinamento ufficiale.
Ma creare un terzo partito è più facile a dirsi che a farsi. Ostacoli legali, logistici e finanziari abbondano. Come ha spiegato l’avvocato elettorale Brett Kappel alla CBS News, i partiti politici sono entità giuridiche statali con requisiti diversi per l’accesso alle schede elettorali, che vanno dalla registrazione di migliaia di elettori alla raccolta di milioni di firme. Solo in California, Musk dovrebbe registrare 75.000 elettori o raccogliere 1,1 milioni di firme. Il riconoscimento a livello federale richiederebbe una richiesta formale alla Commissione Elettorale Federale.
Anche superando questi ostacoli, sarebbero probabili ricorsi legali intensi, alimentati dagli interessi consolidati dei due grandi partiti. Kappel ha sottolineato che costruire un partito nazionale entro il 2026 è praticamente impossibile, anche se Musk potrebbe riuscire a candidare qualche indipendente in alcune corse selezionate. Fino a quel momento Musk può continuare a influenzare la politica tramite l’America PAC, che consente donazioni illimitate ma vieta il coordinamento diretto con i candidati.
Un altro modo per esercitare influenza politica sarebbe sostenere sfidanti repubblicani nelle primarie contro i parlamentari del GOP che hanno votato a favore del disegno di legge sostenuto da Trump, il One Big Beautiful Bill Act. In un contesto caratterizzato da bassa informazione e bassa affluenza, composto in gran parte da fedeli sostenitori di Trump, le probabilità di successo però potrebbero essere scarse. Tuttavia, come lo stesso Musk ha scritto su X, un possibile approccio potrebbe essere quello di concentrarsi in modo chirurgico su due o tre seggi al Senato e su otto-dieci distretti della Camera:
Data la sottile maggioranza legislativa, sarebbe sufficiente per determinare il risultato su leggi controverse, garantendo che riflettano la vera volontà del popolo.
Mentre Musk costruisce il suo marchio tecno-populista e accenna alla possibilità di una rottura con l’attuale assetto politico, cosa rappresenterebbe davvero l’America Party di Musk e chi lo seguirebbe?
I sondaggi suggeriscono che l’idea di Musk potrebbe non essere del tutto utopica. Un’indagine condotta da Quantus Insights tra il 30 giugno e il 2 luglio e citata dallo stesso Musk ha rilevato che il 40 per cento degli elettori, inclusa una percentuale significativa di repubblicani, prenderebbe in considerazione l’idea di sostenere un partito guidato da Musk. Il 14 per cento ha dichiarato che “molto probabilmente” lo sosterrebbe, e il 26 per cento “abbastanza probabile”.
Il sondaggio ha inoltre messo in evidenza le chiare divisioni lungo linee partitiche e demografiche. Tra gli uomini che si identificano come repubblicani, l’interesse sarebbe particolarmente alto: il 23 per cento ha dichiarato che sarebbe molto propenso a sostenere il partito di Musk, mentre il 34 per cento si è detto abbastanza propenso. In totale, il 57 per cento ha espresso apertura nei confronti del progetto politico promosso da Musk.
e tra gli uoni indipendenti la base potenziale sarebbe promettente, con quasi la metà (47 per cento) che si è detta disponibile a sostenerlo. Al contrario, i democratici si sono mostrati molto più scettici. Solo il sette per cento degli uomini che si identificano come democratici ha dichiarato che sarebbe molto propenso a sostenere il partito di Musk, mentre il 36 per cento ha affermato che difficilmente lo sosterrebbe. Tra le donne democratiche, soltanto il cinque per cento si è detto fortemente incline a sostenerlo.
Tuttavia, l’entusiasmo non equivale alla fattibilità. Come riportato da Newsweek, il politologo Jason Corley ha interpretato i risultati come un segnale di erosione: della lealtà verso le istituzioni, della coesione culturale e della fiducia. Sebbene il malcontento sia reale, trasformarlo in un sostegno politico duraturo è tutta un’altra questione. Il tasso di approvazione netto di Musk è a -18, secondo il tracker di Nate Silver.
Anche l’ex candidato presidenziale democratico e imprenditore Andrew Yang è entrato nella conversazione, proponendo una collaborazione con Musk – che l’aveva sostenuto alle primarie democratiche che incoronarono Biden – per lanciare un nuovo partito politico mirato a rompere il sistema bipartitico. In un’intervista con Politico, Yang ha descritto la sua visione di un’alternativa centrista che possa attrarre “l’80 per cento nel mezzo” dell’elettorato — un’espressione usata da Musk in un sondaggio virale su X, in cui l’80% di 5,6 milioni di rispondenti ha dichiarato di sostenere l’idea.
E quali sarebbero le idee di questo partito? Newsweek ha provato a immaginare una piattaforma politica ipotetica. L’ideologia di Musk fonde conservatorismo fiscale con futurismo tecnologico. Si oppone alla spesa in deficit e ha definito “folle” il Big, Beautiful Bill di Trump, citando una stima del Congressional Budget Office secondo cui aumenterebbe il deficit di 3.300 miliardi di dollari in dieci anni. Musk sostiene anche l’intervento statale a favore dell’innovazione nelle energie pulite, nell’intelligenza artificiale e nell’esplorazione spaziale.
Secondo Newsweek, il partito immaginato da Musk promuoverebbe politiche economiche di centro-destra, posizioni sociali libertarie e visioni eterodosse sui diritti digitali e sull’istruzione. Probabilmente si opporrebbe alla cancellazione del debito studentesco e ai sistemi educativi tradizionali, preferendo piattaforme di apprendimento decentralizzate. In ambito sanitario, potrebbe sostenere la diagnostica basata sull’intelligenza artificiale invece dei programmi pubblici. In campo ambientale, favorirebbe la decarbonizzazione ma si opporrebbe alla burocrazia regolatoria.
Ma anche un marchio futurista ha i suoi limiti. Secondo Aaron Blake della CNN, la base immaginata — elettori disillusi, giovani, uomini, esperti del mondo digitale — è ristretta, malgrado il sondaggio. L’elettorato più ampio potrebbe non trovare attrattiva in una piattaforma che riflette un tecno-libertarismo tipico della Silicon Valley e scollegato dalle preoccupazioni della working class.
Al di là di quel che Musk deciderà di fare, la sua impronta politica potrebbe comunque farsi sentire — non tanto nelle decisioni del Congresso, quanto nel contribuire a portare in superficie queste linee di frattura del Partito Repubblicano.
Il Partito Repubblicano è oggi infatti un’alleanza fragile composta da fazioni spesso in competizione tra loro: populisti MAGA, conservatori nazionalisti, libertari, tradizionalisti cristiani, moderati e i più recenti tecno-libertari. I dibattiti al Congresso sul One Big Beautiful Bill hanno messo a nudo le tensioni che attraversano il partito, evidenti anche nell’articolazione delle sue correnti parlamentari, le cosiddette cinque famiglie (il Freedom Caucus, il Republican Study Committee, il Main Street Caucus, il Republican Governance Group e il Problem Solvers Caucus). Alcuni senatori, come Rand Paul, continuano a promuovere una linea puramente libertaria, mentre altri, come Josh Hawley, spingono per un’agenda incentrata sul nazionalismo culturale e sui valori tradizionali. I moderati, invece, temono l’erosione del sostegno nelle periferie urbane e cercano di mantenere un equilibrio più pragmatico.
Trump ha cercato di tenere unite le diverse fazioni del Partito Repubblicano attraverso una strategia fatta di incontri riservati a Mar-a-Lago, trattative dirette con i singoli esponenti, promesse politiche personalizzate e endorsement mirati, concessi o negati a seconda della lealtà dimostrata. Il presidente rappresenta oggi più che mai il vero collante del partito e l’unico punto di convergenza tra istanze ideologiche profondamente distanti. In assenza di una piattaforma programmatica coerente e di una struttura gerarchica tradizionale, è la sua figura a reggere l’equilibrio interno intorno al quale ruotano le varie correnti del partito.
Tuttavia, questa centralità non si fonda su meccanismi istituzionali o su una visione condivisa, bensì su una leadership fortemente personalistica, spesso imprevedibile, incentrata sul culto della personalità e sulla gestione spettacolare del potere, come è visto nella descrizione del processo decisionale che ha portato all’intervento del presidente in Iran raccontato dal New York Times.
Proprio perché tutto ruota attorno alla sua persona, un attore non del tutto esterno e dotato di risorse mediatiche e finanziarie sufficienti può fungere da catalizzatore delle tensioni latenti. Musk rischia di rendere più ampie e visibili le linee di frattura già esistenti nel partito, complicando la tenuta dell’equilibrio interno. È forse proprio per contenere questo rischio che James Fishback, ex consigliere del DOGE e alleato di Trump, ha annunciato la creazione del FSD PAC: un super comitato politico destinato a contrastare l’ascesa di Musk e a difendere la supremazia dell’attuale leadership repubblicana, come riportato da Politico.
Il FSD PAC interverrà in qualsiasi competizione elettorale in cui Musk sostenga candidati terzi o sfidi parlamentari appoggiati da Trump. E non è solo: altri gruppi pro-Trump, come MAGA Kentucky, hanno già cominciato ad attaccare figure come il deputato Thomas Massie per essersi opposto al Big Beautiful Bill, paragonandolo in uno spot di trenta secondi a Bernie Sanders e all’Ayatollah Khamenei. Nello stesso giorno, Trump ha intensificato lo scontro, scherzando con i giornalisti sul fatto che la sua amministrazione potrebbe “mettere il DOGE alle calcagna di Elon”, in riferimento all’agenzia un tempo guidata proprio da Musk.
Secondo Steve Bannon, ex stratega di Trump, la guerra contro Musk è invece molto più di una disputa tattica: è una vera battaglia per l’anima del movimento MAGA.
Negli ultimi dieci anni, Steve Bannon ha coltivato il ruolo di architetto ideologico del movimento MAGA. Ma con l’inizio del secondo mandato di Trump, Bannon ritiene che il pericolo non venga più dall’élite liberal, ma venga dall’interno della big tent trumpiana che va dai conservatori ai tech-bros, ai democratici scettici dei vaccini. Nel suo podcast War Room, ha condannato Musk come parte di un’élite tecno-feudale che cerca di impadronirsi del MAGA.
In un’intervista al podcast del New York Times, Bannon ha poi dichiarato che Musk, e i miliardari tecnologici come lui (leggi Peter Thiel), rappresentano un “tecno-feudalesimo” strisciante che tradisce il cuore anti-élite e operaio della destra populista.
Per l’ex consigliere di Trump, i veri pilastri del movimento MAGA sono invece protezionismo commerciale, controllo dell’immigrazione e politica estera non interventista. Su questi punti — non negoziabili, dice — Trump avrebbe costruito una coalizione multietnica della working class, un’alleanza fondata sul rifiuto dell’establishment globalista. Ogni deviazione da queste promesse, secondo Bannon, rischia di far crollare l’intero edificio politico del trumpismo.
In questo senso, Elon Musk rappresenta tutto ciò che Bannon teme: un magnate tecnologico estraneo al mondo del lavoro manuale, orientato unicamente ai mercati finanziari e al progresso tecnologico. In breve, ha dichiarato, un opportunista che si è avvicinato a Trump solo per convenienza, quando il potere politico coincideva con i suoi interessi industriali e mediatici.
Musk non è MAGA. Non è nemmeno un conservatore. Non gli importa nulla dei lavoratori americani — gli interessa solo della sua ricchezza e del prezzo delle sue azioni,
ha dichiarato Bannon.
Nell’intervista Bannon denuncia l’intera visione del mondo di Musk: una deriva libertaria e tecnocratica che, a suo dire, abbandona la base popolare del MAGA in favore di un’élite digitale che governa attraverso il capitale e l’algoritmo. Secondo Bannon, figure come Musk — afferma — non sono solo rivali politici, ma nemici della sovranità, promotori di un modello in cui l’economia domina la politica e la volontà popolare è subordinata alle logiche del profitto.
A pochi mesi dall’insediamento le tensioni interne al Partito Repubblicano sembrano oggi più evidenti che nel primo mandato di Trump, tanto che il partito assomiglia sempre più a una serie di fazioni in conflitto, legate da una lealtà verso un leader che prospera proprio sulle loro rivalità. Tuttavia, questo leader è anche un punto di equilibrio a termine — salvo eventi imprevisti che potrebbero portare gli Stati Uniti su una strada poco compatibile con la democrazia — e le divisioni interne rischiano di intensificarsi ulteriormente.
Tra tutte, la frattura più dirompente potrebbe essere quella tra il movimento MAGA e i “techbros”. Il primo sogna un ritorno alla sovranità nazionale, ai confini ben definiti, alla rinascita della manifattura e a rigide gerarchie culturali. La visione di Musk, invece, prospetta una società senza confini, governata da algoritmi e mercati che ottimizzano ogni aspetto della vita, dall’educazione all’etica. Il primo può contare su una base che si mobilita nei momenti decisivi, il secondo su ampie risorse finanziarie e mediatiche.
Resta da vedere se queste due visioni potranno mai trovare un punto di equilibrio, magari incarnato da una nuova figura carismatica capace di unire le contraddizioni in un progetto condiviso.
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