Nelle città greche della Ionia, sulle coste dell’Asia minore, nel secolo VII e VI a. C., vige l’”isonomia”, che si può intendere come “uguaglianza” o anche “non governo”. Essa è praticata da cittadini agricoltori possessori di terra senza grandi disparità di ricchezza tra loro. Lo pone in evidenza un recente studio di Kojin Karatani (Isonomia, Ed. Timeo, 2025). Questi coltivatori partecipano direttamente alla gestione dei problemi della loro comunità, svolgendo ciascuno allo stesso tempo la parte di governante e di governato.
Nelle comunità isonomiche greche la divisione del lavoro e dei compiti sociali non era giunta al punto di dare luogo a un apparato statale, a una burocrazia specializzata incaricata di gestire i problemi pubblici e di applicare leggi stabilite. Esse erano aggregazioni fluide, create da migranti ed esuli giunti alla spicciolata dalla madrepatria greca. Per questo erano relativamente libere dalle tradizioni tribali e di clan, capaci perciò di dare inizio alla filosofia e di esprimere quella serie di pensatori originali che più tardi sarebbero stati chiamati genericamente “presocratici”.
La loro peculiarità, che le distingueva da quelle greche della madrepatria ellenica, era dovuta al fatto di essere “città di frontiera”, “comunità orizzontali”, con un radicamento poco profondo nella tradizione, le cui contraddizioni non si condensavano e non si cristallizzavano in una forma, in un solido contenitore statale.
Non avevano bisogno perciò di essere politicamente rielaborate (ciò spiegherebbe l’assenza di una filosofia politica nella cultura delle città della Ionia), perché erano diluite ed esternalizzate con l’emigrazione dei cittadini scontenti verso nuove terre da colonizzare (qui, a Karatani e anche a noi, viene spontaneo stabilire un’analogia con l’America della frontiera e con le libere township, le “repubbliche elementari” di Thomas Jefferson). Vivevano, per così dire, in uno indefinito statu nascenti, libere ma, per la loro scarsa coesione interna, friabili, poco pronte a fare fronte comune contro un comune nemico esterno, come l’impero persiano, che infatti le sottomise ponendo fine alla loro libertà.
Ad Atene invece nel V secolo a.C. vige, su una base di tradizioni antiche ancora forti, una più strutturata democrazia e un embrione di stato politico. Grazie anche alla sua solidità interna essa aveva vinto i Persiani, guadagnandosi un grande prestigio in tutta l’Ellade.
All’interno della polis ateniese i processi economici accentuavano le disuguaglianze e favorivano la formazione di classi e di interessi fra loro contrastanti: lo sviluppo dell’economia monetaria e dei traffici commerciali, l’accumulazione di ricchezze private, il contatto con altri popoli e altre culture, la circolazione di nuove idee mettevano in discussione le tradizioni e gli antichi equilibri della città. Ma la democrazia tentava di contrastarne le loro conseguenze disgreganti.
Ma a poco a poco “l’ordine spontaneo” che poggiava sulle tradizioni di origine tribale dovette essere supportato o sostituito da leggi convenzionali esplicitamente condivise e formalmente promulgate, che però potevano entrare in conflitto con quelle divine provenienti dalle età mitiche.
Hegel descrive appunto la frattura tra le leggi della polis e quelle degli dei, e indica in questa la causa della fine dell’ordine spontaneo dei greci, della loro “bella eticità”. Egli definisce tragico il lacerante conflitto tra le due diverse leggi e giustizie – quella divina e quella umana dello stato – ritenendo che esso sia stato messo in particolare evidenza dalla tragedia Antigone, di Sofocle.
Le leggi umane sono frutto di accordi tra gli uomini e non hanno la stessa indiscutibile venerabilità di quelle divine che traggono il loro prestigio dal provenire dalla notte dei tempi, ma i cambiamenti economici, sociali e culturali intervenuti impongono la loro urgenza: le istituzioni e i costumi tradizionali, gli stessi dei della città, che un tempo erano condivisi da tutti e rispettati, sono messi in dubbio: all’interno della polis è sempre meno ovvio e spontaneamente condiviso quello che deve essere considerato buono e giusto.
Una minaccia di interna dissoluzione grava perciò sulla polis: il venir meno del rispetto per la tradizione, ovvero la secolarizzazione. In risposta a ciò si sviluppa la filosofia. Essa è ricerca della verità da condividere attraverso il logos, inteso allo stesso tempo come parola e come ragione. Ma ciò porta con sé il relativismo e l’evoluzione del pensiero filosofico in senso soggettivo, strumentale e utilitaristico, della sofistica.
Una parte della filosofia (in particolare con Platone e Aristotele) mira a educare i cittadini, proponendo loro il perseguimento di un Bene superiore da condividere attraverso buone leggi e una buona politica, affinché divenga possibile governare la polis non per mezzo della forza ma con la ragione, con il dialogo e la convinzione. La buona politica riesce a mantenere unita la città e a tenerla il più possibile lontana dai pericoli interni ed esterni.
Una sofistica che esalta il soggettivismo e usa senza scrupoli le tecniche della dialettica, invece, riesce a ingannare i più: “trasformando il discorso debole in discorso forte, e il discorso forte in discorso debole”. Il relativismo sofistico allenta la coesione sociale e fa comparire sulla scena della città uomini individualisti ed eccentrici: “legislatori di se stessi”, costoro vivono seguendo la loro convenienza. Tra questi uomini considerati pericolosi, la città pone Protagora, il sofista fuggito o condannato all’esilio dopo la morte di Pericle, suo amico e protettore, ma anche lo stesso Socrate, il quale viene condannato dal tribunale di Atene a morte per “empietà”.
La polis democratica concepisce se stessa come migliore e definitivo assetto della società umana, corrispettivo terreno dell’ordine eterno celeste. Ma fuori dalle sue mura dominano disordine e violenza.
Se ritiene di poter risolvere grazie al logos e al dia – logo i problemi del suo “dentro”, la polis non riuscirà mai a risolvere con gli stessi strumenti quelli del suo “fuori”. Laggiù, “fuori”, essa non saprà avvalersi della ragione ma, deposto ogni scrupolo, farà ricorso alla forza come argomento dirimente. Vediamo ora di rappresentare “le due facce della medaglia” della polis ateniese, ponendo a confronto due celebri discorsi: l’uno pronunciato dentro la città, l’altro fuori di essa.
Per la descrizione dell’interno della polis riporto qui la solenne, memorabile orazione – nella ricostruzione di Tucidide – pronunciata da Pericle nel 430.a.C. davanti agli ateniesi in onore dei caduti nella Guerra del Peloponneso:
Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così.
Il discorso di Pericle è volto a suscitare negli ateniesi sentimenti di orgoglio e di fierezza, a confermare l’identità (democratica) della polis ateniese. Pericle spiega con semplicità che cos’è effettivamente la democrazia per la quale tanti ateniesi hanno sacrificato la loro vita e che cosa la libertà che vige tra le sue mura.
Non dice però che a questo luminoso “ordine umano” interno della città ha il suo corrispettivo nella violenza che essa stessa esercita fuori: oltre le sue mura Atene domina un impero sul quale esercita un potere spesso violento e spietato.
A conferma di ciò riporto il brutale discorso – ricostruito sempre da Tucidide – che getta luce sull’oscuro e brutale “rovescio della medaglia” della polis sottaciuto da Pericle. Sarebbe stato tenuto nel 416 a.C. dagli ambasciatori ateniesi davanti ai rappresentanti dell’isola di Melo:
Ateniesi: “Da parte nostra, non faremo ricorso a frasi sonanti; non diremo fino alla noia che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo debellato i Persiani e che ora marciamo contro di voi per rintuzzare offese ricevute: discorsi lunghi e che non fanno che suscitare diffidenze. Però riteniamo che nemmeno voi vi dobbiate illudere di convincerci col dire che non vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni di Sparta e che, infine, non ci avete fatto torto alcuno. Bisogna che da una parte e dall’altra si faccia risolutamente ciò che è nella possibilità di ciascuno e che risulta da un’esatta valutazione della realtà. Poiché voi sapete tanto bene quanto noi che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe con pari forze su ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano.
Sconfitta e occupata nella guerra del Peloponneso (431 a.C. al 404 a.C.) dal nemico spartano, Atene avrebbe dovuto subire un regime oligarchico (i “Trenta tiranni”) imposto dal vincitore, al quale si ribellò. Ma dopo questa esperienza la città “scuola dell’Ellade” non sarebbe mai più tornata alla potenza e allo splendore di prima.
Nessuna polis avrebbe mai risolto il problema del disordine e della violenza fuori di essa. Forse perché una superiore, misteriosa necessità impone che, in cambio di una “piccola giustizia” all’interno di uno spazio delimitato (la città), si debba pagare il prezzo di una grande ingiustizia in quello aperto del mondo?
La polis ateniese non risponde a questo interrogativo. Ma almeno ne fu consapevole. Il filosofo Antifonte, vissuto ad Atene nella seconda metà del V secolo a.C. concepì per primo l’idea di un ordine universale basato non sulla violenza, ma nemmeno sulla legge degli dei o degli uomini: su quella, eterna e immutabile della natura.
Antifonte sostiene che gli uomini si differenziano tra loro perché sono governati da leggi diverse create da diversi legislatori. Molte leggi umane contrastano sia tra loro, sia con quanto dettato dalla natura. Sul piano naturale, invece, non ci sono differenze tra gli uomini: i Greci e i barbari respirano allo stesso modo, egli afferma. La comune fisiologia e l’istintualità possono bastare a determinare i comportamenti elementari che gli umani hanno in comune con gli animali superiori. Ma bastano a indicarci come comportarci nelle situazioni complesse prodotte dallo sviluppo di quella civiltà che gli umani hanno creato per vivere in un “mondo umano”, al riparo dalla natura selvaggia?
Immagine di copertina: Ricostruzione ideale dell’Acropoli e dell’Areopago di Atene. Dipinto di Leo von Klenze, 1846 (Neue Pinakothek, Monaco di Baviera).
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