Fra i tanti mali che affliggono Venezia, ve n’è uno di cui quasi mai si parla: la qualità, o addirittura l’inconsistenza, della sua classe dirigente.
Il tema costituisce un problema storico per la nazione italiana. Il carattere delle classi dirigenti, dai tempi dell’Unità d’Italia, ha costituito un autentico ostacolo per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.
Che cosa intendiamo quando parliamo di classe dirigente? Spesso ci si limita a denominare come “classe dirigente” l’insieme di persone che rivestono un ruolo di potere, di dominio o di influenza nelle istituzioni pubbliche, nella società, nell’economia e nella cultura. Se così fosse, allora, di necessità, una classe dirigente, buona o cattiva, esisterebbe comunque.
Ma il tema è più stringente: verso che cosa quel gruppo si dirige e ci dirige? Chi e come sono selezionate le persone chiamate a svolgere un ruolo dirigente?
Gramsci ha a lungo, nei suoi quaderni del carcere, analizzato il tema della classe dirigente italiana. Vi sono fasi, sosteneva, in cui il gruppo dirigente di un Paese si alimenta delle forze migliori e più attive: in quei frangenti, anche alcuni esponenti delle classi meno abbienti vengono cooptate e coinvolte nelle funzioni di governo.
In periodi di contrazione sociale e di crisi democratica, avviene l’opposto:
la classe dirigente è “saturata”: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di sé stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni)
(Quaderni 2, 8: 937).
Il periodo che stiamo vivendo corrisponde molto a quanto Gramsci descriveva novant’anni fa.
Molteplici sono i fattori che concorrono a questa disgregazione. Vorremmo provare ad analizzarne alcuni, limitando l’esercizio al caso di Venezia.
Una classe dirigente è sempre espressione di un progetto di società prevalente: essa ne alimenta i contenuti; prepara i processi decisionali e ne gestisce le risorse. La prima constatazione che ci sentiamo di fare è che Venezia non esprima più una visione di medio-lungo termine in grado di sostenere e giustificare la scelta di una determinata classe dirigente, sia pubblica che privata, in grado di corrispondere con adeguate competenze e opportune azioni a un determinato indirizzo politico. Questa mancanza di visione si riflette e si amplifica attraverso la scomposizione degli interessi dei singoli gruppi che agiscono all’interno della comunità. Il venire meno di una forza di indirizzo, dotata di una valenza non solo politica ma sociale e culturale, impedisce il determinarsi di un baricentro capace di aggregare e selezionare gli interessi prevalenti. Citando ancora Gramsci: manca nel frangente storico attuale una forza egemonica che ordini e governi i processi interni alla comunità.
Questo stato di anomia e disorientamento si riflette in particolare sulle funzioni dedite alla formazione della classe dirigente: sia quelle più istituzionali, cioè le Università, che quelle più trasversali e pervasive: dai partiti alle organizzazioni associative e culturali.
La situazione risulta aggravata laddove, in un contesto di speculazione economica e di crescita abnorme della rendita, la scomposizione degli interessi è fortemente condizionata dall’indebolimento di una cultura della legalità e dal ritrarsi della presenza organizzata della funzione pubblica.
Corruzione e clientelismo assediano più facilmente le istituzioni pubbliche, le quali si rivelano sempre più fragili e condizionabili da parte dei gruppi di interesse più organizzati. Mentre vanno crescendo comportamenti opportunistici e la cultura dell’”affare facile”, si riducono proporzionalmente la reputazione e la credibilità di interi apparati amministrativi pubblici.
Il risultato è il prevalere di una “selezione avversa”, sia sul piano politico che tecnico, del personale chiamato a dirigere le istituzioni pubbliche.
D’altro canto, la crisi di rappresentanza politica è ormai così evidente (si pensi all’assenteismo elettorale) da allargarsi al di là del ceto politico coinvolgendo l’intera macchina amministrativa: è dunque lo stesso status sociale degli apparati tecnici di direzione a esserne fortemente minato. Si riducono sensibilmente i saperi necessari per dare forza e credibilità alla funzione di governo; si restringe l’azione di presenza e dialogo in grado di produrre quel consenso che alimenta la democrazia; diventa spesso evanescente il potere coercitivo dell’attore pubblico nel fare rispettare le leggi.
Questo è l’effetto ultimo della crisi della politica: né le istituzioni né i partiti sembrano più in grado di dosare correttamente forza e consenso. Questa capacità è la sostanza stessa della legittimazione di una classe dirigente.
Fino a qui per quanto riguarda una sommaria analisi teorica complessiva.
Sul piano di una più immediata e diretta constatazione dello stato delle cose, vale la pena elencare alcuni degli elementi che hanno contributo all’evaporazione della classe dirigente veneziana.
I partiti non ci sono più, cioè sono socialmente scomparsi dal tessuto cittadino. Rimangono certo dei gruppi che all’interno delle strutture organizzative continuano a rivendicare un proprio ruolo di rappresentanza e di governo, ma questi gruppi sono autoreferenziali e privi di contatto e radicamento sociale: mobilitano sempre meno e non sono capaci di motivare al voto.
Le Università hanno smesso di produrre pensiero socializzato: la loro funzione educatrice e culturale è ormai disarticolata, sporadica e priva di una dimensione istituzionale. Certo, negli ultimi due decenni, hanno continuato a operare sul teatro della politica alcune “prime donne” di provenienza universitaria, ma esse erano ormai prive di quei laboratori di analisi, di ricerca ed elaborazione che costituiscono il vero valore aggiunto delle istituzioni universitarie.
La borghesia cittadina ormai si affida per quanto riguarda la propria rappresentanza nelle istituzioni ai “parvenus” o, meglio, lascia che questi agiscano in piena autonomia, dichiarando de facto che come classe sociale si è ritirata dall’agone politico. Il caso più evidente è naturalmente quello dell’attuale sindaco. Non solo la borghesia veneziana si è venuta assottigliando sul piano demografico ma si è esaurita la sua funzione dirigente: essa non esprime più personalità politiche rilevanti e stenta pure a esprimere una classe di professionisti e tecnici utili alla funzione pubblica e all’economia cittadina non speculativa.
Nella prima fase della crisi politica, la vitalità associativa cittadina e i movimenti civici che ne erano espressione (si pensi, ad esempio, ai 40xVenezia) avevano alimentato positive dinamiche sociali e politiche; questa nuova dimensione civica ha per un momento suscitato la speranza che un nuovo soggetto politico potesse subentrare alla vecchia e logora funzione direttrice espressa dai partiti. Purtroppo, la loro capacità di influenza si è presto ridotta e oggi appare come marginale e minoritaria; questo non tanto per ragioni quantitative ma per l’eccessiva frammentazione organizzativa e per lo specialismo della loro azione. In alcuni casi, laddove alcune personalità civiche abbiano assunto ruoli istituzionali di rappresentanza, esse appaiono quasi sempre omologate e subalterne alle vecchie logiche politiche.
A lungo la questione “Venezia” è stata oggetto di un’attenzione internazionale. Il motto “Salvare Venezia” ha mobilitato a partire dagli anni ’70 fondazioni e istituzioni internazionali. Lo sforzo, encomiabile, si è concentrato sulla città fisica, l’urbs, trascurando il fatto che quello che era davvero in pericolo era la comunità, la civitas. Questo atteggiamento perdura e, nonostante gli appelli e qualche buon reportage giornalistico, l’indifferenza prevale. Paradossalmente, il carattere globale di Venezia rimane confinato alle vetrine culturali e artistiche: nessun rinnovamento sul piano del governo e della direzione è proposto “da fuori”. In sintesi: la società internazionale preferisce una città morta.
Roma, ovvero il governo centrale, continua a considerare Venezia come un problema o, in taluni casi, come una comoda vetrina: non ne coglie il potenziale di diversità e di modernità. Per questo non investe sulla sua classe dirigente. Al disinteresse romano corrisponde, d’altra parte, una psicologia subalterna da parte degli esponenti politici e tecnici locali, i quali preferiscono tendere la mano chiedendo finanziamenti e favori piuttosto che rivendicare autonomia e gestione in proprio delle risorse raccolte sul territorio. Venezia, da città-mondo è diventata così miseramente città-periferia.
Nonostante i loro proclami, quelli che hanno avuto meno capacità di assurgere a nuova classe dirigente, in particolare nel caso di Venezia, sono proprio i leghisti. Venezia è per loro solo un simbolo, una bandiera da sventolare quando serve. Il Veneto profondo, che macina consensi per la Lega, è stato storicamente avverso alla Serenissima. Del resto, la stessa Serenissima ha esteso il proprio dominio sulla terraferma quando il modello di potenza marittima ha mostrato le prime crepe. La contraddizione, anzi opposizione, tra autonomia veneta e rinascita di Venezia è congenito al progetto politico leghista. La Lega non ha mai investito su Venezia perché ne è culturalmente e politicamente distante. Il prevalere del centro-destra a Venezia è strutturalmente dannoso per Venezia: la destra nazionale pensa Venezia come periferica e la Lega pensa che la vera capitale del Veneto stia tra Padova e Treviso.
L’assenza di una classe dirigente veneziana si manifesta in tutta la sua drammatica evidenza quando si guardi al ricambio generazionale. La prima enorme ipoteca riguarda il declino demografico della città, per nulla compensato dalla promozione di una nuova immigrazione. Ma vi è un secondo fattore che impedisce di alimentare con nuove energie una classe dirigente ormai evaporata: i giovani sembrano adottare quasi sempre una postura impolitica dettata tra l’altro da un ridotto radicamento territoriale. La generazione Erasmus è molto mobile: frequenta la città ma investe poco sul suo futuro di comunità.
Il popolo che non c’è più. Una città vive di simboli e di immaginario: senza di questi non vi è progetto comunitario. Una città d’acqua ridotta a poche decine di migliaia di abitanti e una città di terraferma sempre più disarticolata e priva di un centro rendono non percepibile la presenza di una comunità con caratteristiche definite e capace di esprimere in modo inequivoco la propria volontà. Evaporata l’idea di popolo, rimangono dinamiche contingenti e segmentate. Queste non reputano utile investire in una propria rappresentanza politica e tecnica che ne difenda gli interessi e che ne sia voce.
Un’ultima nota riguarda l’annosa questione della separazione amministrativa tra Venezia e Mestre. I separatisti hanno ragione quando dicono che ci sono caratteri e interessi diversi che richiedono risposte adeguate a queste specificità, ma i separatisti hanno anche torto quando credono che la separazione sia la soluzione a tutti i problemi. Il vero nodo irrisolto è la nascita di una nuova classe dirigente che conosca il territorio ma sappia dialogare con il mondo. L’impotenza di fronte al fenomeno globale del turismo è purtroppo la dimostrazione che occorra una visione internazionale per rendere effettivi i saperi locali e la memoria storica.
Questo primo esercizio nel quale si è tentato di dimostrare come è venuta meno una classe dirigente e dei gravi danni che la sua scomparsa ha provocato e continua a provocare, è solo un primo passo, ci auguriamo, per aprire un dibattito senza infingimenti sulla mancanza di prospettiva in cui versa questa straordinaria esperienza storica urbana chiamata ancora Venezia.
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