Per la generazione nata nell’immediato dopoguerra, ItaliaGermaniaQuattroATre è stata molto più di un’epica semifinale dei Mondiali. Non a caso, l’ho scritta così come la pronunciano, con gli occhi che ancora brillano come se avessero vent’anni, ripensando a quella notte da batticuore in cui tutto sembrava possibile. C’era già stata la strage di piazza Fontana, è vero, ma il clima non era ancora quello livido e furente degli Anni di Piombo. C’era tanta passione politica in giro, c’erano manifestazioni, riunioni, incontri, collettivi, ma ancora non erano stati infranti i sogni dei figli del boom e della rinascita. Insomma, quel 17 giugno del ’70 prevaleva ancora la speranza. Per raccontare Franz Beckenbauer possiamo partire da qui, dalla “Partita del Secolo”, dalla notte delle notti, da un’epopea che oltre mezzo secolo dopo non ci stanchiamo di rivedere, raccontare, ascoltare e cercare di rivivere, ben coscienti che le atmosfere di allora non esistono più. Non esistono più i Martellini e gli Ameri, i Tosatti, i Brera, i Palumbo e i Cannavò. Non ci sono più i padri del dopoguerra, che magari avevano fatto la Resistenza e per i quali la Germania aveva comunque il volto dei boia delle Ardeatine o dei massacratori di Sant’Anna di Stazzema. Non ci stancheremo mai di dirlo: era diverso. E “Kaiser” Franz, che disputò buona parte di quell’incontro con il braccio al collo, resistendo eroicamente in campo nonostante un bruttissimo infortunio alla spalla, non era solo un libero coi fiocchi, fonte d’ispirazione per chiunque abbia ricoperto in seguito lo stesso ruolo e trascinatore della Germania Ovest nell’epoca aurea del calcio. Era, più che mai, l’anima di una Nazione, il simbolo del suo spirito indomito, della sua voglia di resistere, della sua capacità di sfidare pacificamente il mondo dopo averlo ricoperto di sangue e di riaffermare la dignità di un popolo che, oggettivamente, l’aveva smarrita.
Forse è difficile per i ragazzi di oggi comprendere cosa volesse dire vedere contrapposte due Nazionali che rappresentavano i paesi artefici delle ideologie totalitarie che avevano dilaniato il Novecento. Forse adesso, in questa stagione senza ideologie e senza grandi passioni politiche e civili, si fa fatica a capire il contesto in cui erano nati quei giocatori: l’Italia ridotta in macerie, la Germania letteralmente all’anno zero, con morte, distruzione, rabbia e sete di vendetta ovunque. Loro erano l’esatto opposto: la meraviglia, la poesia, il trionfo della vita, il ritorno alla normalità dopo l’orrore, l’idea, magari ingenua ed eccessivamente romantica ma tutto sommato bellissima, che si potesse volare, almeno con la fantasia, persino tra la polvere e le case diroccate.
“Kaiser” Franz era nato a Monaco, città emblematica del nazismo, l’11 settembre del ’45, pochi mesi dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Era nato libero e libero è rimasto, in tutti i sensi, fino a quando non ha chiuso gli occhi.
Quando cominciò a giocare, nelle file del piccolo SC München, la squadra più importante della città era il Monaco 1860. A cambiare il corso della storia, durante un confronto fra i pari età dei due club, fu tal Gerhard König, l’avversario che a dodici anni gli tirò uno schiaffo. Fu in quel momento che Beckenbauer decise che per quella società non avrebbe mai giocato, accettando invece l’offerta del Bayern Monaco. Il resto della vicenda è noto.
Senza scadere nella retorica, possiamo dire che, col suo carisma, la sua grinta e il suo carattere indomito, Beckenbauer abbia forgiato lo spirito tedesco nei decenni in cui la Germania era divisa a metà dal muro che tagliava in due Berlino, contribuendo in maniera decisiva all’affermazione della parte Ovest: dapprima agli Europei belgi del ’72 e poi, soprattutto, ai Mondiali casalinghi del ’74, quando il solido collettivo in maglia bianca sconfisse in finale la macchina perfetta allestita dall’Olanda di Michels e di un certo Cruijff.
Infine il capolavoro, nel ’90, quando l’ex capitano, ora seduto in panchina, guidò la Nazionale tedesca alla conquista del suo terzo Mondiale, ironia della sorte proprio a Roma. Il Muro di Berlino era stato abbattuto nel novembre dell’89, la riunificazione avrebbe avuto luogo il 3 ottobre di quell’anno, ma possiamo dire che il vero ricongiungimento fra le due Germanie lo abbia compiuto proprio “Kaiser” Franz, sollevando al cielo la Coppa del Mondo. L’atto politico, dunque, porta la firma di Helmut Kohl; quello sentimentale, ovviamente il più importante, è suo.
Avrebbe voluto vincere anche nel 2006, ma ancora una volta la semifinale contro gli Azzurri, disputata nel catino infuocato di Dortmund, risultò fatale per i tedeschi. Anche per questo fa piacere e induce a riflettere l’affetto con cui è stato salutato nel nostro Paese, come se in fondo si trattasse di uno di noi, prim’ancora che di un nobile avversario, esempio di una rivalità sportiva all’insegna della correttezza che, per fortuna, ha resistito persino all’animosità insensata di questa fase storica caratterizzata spesso dalla barbarie.
Se n’è andato ad appena settantotto anni, dopo aver dovuto affrontare non poche sofferenze. Ora è di nuovo libero, lassù, nella condizione ideale per tornare a essere se stesso.
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