È veramente difficile, entrando nel primo dei due padiglioni dove è stata allestita la mostra, resistere all’assalto dei ricordi, dell’emozione per un periodo di vita denso di avvenimenti drammatici, alla gioia di rivedere i mille volti conosciuti e a riascoltare la voce tesa e alta del segretario del Pci.
La mostra, “I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer”, aperta il 15 dicembre del 2023, è visitabile gratuitamente fino all’11 febbraio del 2024, e occupa due padiglioni all’ingresso dell’ex-mattatoio di Roma, nel popolare quartiere di Testaccio.
Curata da Alessandro d’Onofrio, Alexander Höbel, Gregorio Sorgonà, la mostra è stata ideata e organizzata dall’Associazione Enrico Berlinguer, una struttura nata con il compito di coordinare le attività culturali delle Fondazioni alle quali la direzione dei Democratici di Sinistra sembra aver affidato la gestione del patrimonio immobiliare e i beni del Partito Comunista Italiano.
Si tratta dell’iniziativa, spesso oggetto di critiche e contestazioni, che si associa alla fantasia imprenditoriale dell’ex-senatore Ugo Sposetti, di stretta osservanza dalemiana.
Il percorso espositivo si articola in cinque principali sezioni tematiche: Gli affetti, Il dirigente, Nella crisi italiana, La dimensione globale, Attualità e futuro.
La realizzazione appare curata con professionalità. I documenti audiovisivi sono facilmente fruibili.
Naturalmente, dopo l’impatto iniziale, fortemente emotivo per chi ha vissuto il periodo della segreteria Berlinguer, nascono le domande e le riflessioni sull’impostazione dell’iniziativa.
Il ricordo, il rimpianto, la nostalgia non possono e non devono costituire un impedimento alla valutazione politica, all’analisi critica. L’istituto della “celebrazione”, applicato a una figura complessa e ricca come quella di Berlinguer, è l’esatto contrario di quello che ci si attende da chi vuole mostrare rispetto e affetto per l’uomo politico sardo. Testimonia piuttosto la presenza di un atteggiamento passivo, ai limiti del parassitismo.
È proprio qui che nasce una sensazione di vuoto dalla visita. Come se non si fosse voluto o saputo mettere in risalto i punti focali politici della segreteria Berlinguer: il compromesso storico, l’eurocomunismo, la politica dell’austerità, il giudizio sull’Unione Sovietica. A distanza di quasi mezzo secolo, facendo salvi l’autorità, il prestigio, il fascino dell’uomo politico, il suo enorme carisma, non si può non constatare che al centro di una tale valutazione si colloca la sconfitta della linea del “compromesso storico”. Non è un giudizio di valore. È semplicemente un giudizio di fatto. Si può discutere e ci si può dividere sulle conseguenze di una tale sconfitta. Insieme all’implosione violenta, alla vaporizzazione del Partito socialista di Craxi, è difficile non ritenere che la sconfitta della strategia del Pci berlingueriano sia una componente essenziale della crisi mortale della sinistra italiana.
Bisogna sempre ricordare che un’ipotesi politica non è una teoria fisica che può essere confermata o falsificata a distanza di mezzo secolo. Una linea politica è strettamente legata al tempo della sua realizzabilità. Se le cose non vanno nel senso indicato e voluto, il progetto è sbagliato, la linea è sconfitta. Tertium non datur.
Non si testimonia stima e affetto per Berlinguer tacendo l’evidenza. Il compromesso storico poteva sembrare la naturale conseguenza della strategia togliattiana di attenzione e dialogo con il mondo cattolico. In realtà ne era una implicita negazione. Attenzione e dialogo costituivano un fondamento della strategia che aveva portato il Pci a un radicamento esteso e non superficiale con la società italiana e le sue contraddizioni. Era, per il partito di Togliatti, l’espressione del rifiuto sistematico per l’arroccamento ideologico e il vuoto settarismo. Ma nessuno dimenticava che il mondo cattolico e il Vaticano erano stati certamente un freno per lo sviluppo civile e culturale, e un autentico nemico dell’unità d’Italia e del Risorgimento.
Ma le condizioni nuove, dopo la tragedia della guerra e il rischio di una nuova, devastante, guerra tra l’Occidente e l’Unione Sovietica, avevano creato difficoltà e contraddizioni all’interno della Democrazia Cristiana e del suo mondo di riferimento. A incidere su queste contraddizioni era puntata la strategia del Pci, mirata alla conquista del consenso di vasti strati popolari legati al mondo cattolico. Il salto qualitativo, fatto da Berlinguer, fu quello di proporre all’avversario politico, la Democrazia Cristiana, deputata dagli americani a governare l’Italia dentro i rigidi vincoli della NATO e dei patti segreti sottoscritti nel 1945, un’alleanza, un compromesso finalizzato a sbloccare il meccanismo democratico e a permettere l’alternanza di diverse forze politiche alla direzione della cosa pubblica.
Tutto era centrato sulla figura di Aldo Moro che aveva chiaramente aperto all’ipotesi berlingueriana, e della sua capacità di coinvolgere le correnti democristiane nel suo disegno di “rigenerazione” della democrazia italiana, cristallizzata nel dominio solitario, sempre più sterile e ricattabile di un solo partito politico.
Come è noto, le premesse storiche e politiche del compromesso storico furono i fatti del Cile e l’affermazione che non fosse sufficiente raggiungere la maggioranza del 51 per cento per poter governare l’Italia. A distanza di oltre mezzo secolo, è difficile non valutare ambedue le premesse come infondate, come errori.
Per il Pci, che proveniva dalla condivisione della teoria leninista della “dittatura del proletariato”, con l’adesione sempre più convinta della necessità di una “via democratica al socialismo”, si trattava di una palese contraddizione. La democrazia si regge, sempre e ovunque, sul principio che chi ha la maggioranza, anche di un solo voto su decine di milioni di aventi diritto, ha il pieno diritto a governare. Altra cosa è puntare ad allargare una tale maggioranza, specie in una democrazia rappresentativa fondata sulla centralità del Parlamento. Ma la dichiarazione di “impossibilità” a governare con il 51 per cento (fatta, insieme a Berlinguer, anche da Giorgio Amendola e, credo, da Pietro Ingrao) costituiva una dichiarazione di immaturità democratica, e, al contempo, di inadeguatezza politica.
La seconda premessa, contenuta nei celebri articoli di Berlinguer su Rinascita, era contenuta nella analisi del dramma del Cile. Allende e il suo governo spazzati via da un colpo di stato militare voluto, finanziato e sostenuto dagli USA. A mezza voce, e forse anche con qualche ragione, la direzione del Pci accusò Allende e il suo Partito Socialista di non aver voluto coinvolgere la Democrazia Cristiana cilena nel governo del paese. Il rischio di un colpo di stato militare in Italia, paese di importanza vitale per la NATO, cioè per la presenza degli USA in Europa, viene presentato come inaccetabile:
“D’altronde, la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico.”
La sola via praticabile sarebbe quindi quella di un compromesso con il proprio avversario storico, alleato della superpotenza americana. Tutta la forza della sinistra italiana, costruita pazientemente in oltre trenta anni di lotte politiche e sindacali, con oltre un milione e mezzo di iscritti al Partito, con oltre nove milioni di voti ottenuti nelle elezioni politiche del 1972, viene giocata in una sola mossa di questa partita. E, dall’altra parte dello steccato, c’è la figura di Aldo Moro, perno unico e insostituibile del possibile accordo e della maggioranza provvisoria e gelatinosa che reggeva le sorti della DC.
È come se, a un tavolo di roulette, un giocatore che ha accumulato nella serata una fortuna, ponesse tutte le sue fiches sullo Zero, sperando di far saltare il banco. Senza sapere che il croupier, che non ha mai rispettato le regole del gioco, ha piombato la casella dello Zero per sicurezza, non volendo correre rischio alcuno.
Nel caso in ispecie, come sappiamo, per far perdere al Pci la partita e liquidare la strategia del compromesso storico è stato sufficiente assassinare (o veder assassinare, o permettere che si assassinasse) lo stesso Aldo Moro, con il solo spargimento di sangue della sua scorta.
La domanda che ci si pone è la seguente: Ma una strategia che avesse puntato alla conquista del governo del paese attraverso l’ottenimento per via democratica della maggioranza dei voti del Parlamento, avrebbe evitato una guerra civile, l’intervento di strutture militari legate agli USA? Quasi certamente no. Ma l’Italia non era il Cile. Il Pci non era neppure lontanamente paragonabile al Partito Socialista di Allende e, le competenze militari acquisite nel corso della lotta della Resistenza, insieme ai nuovi legami che una sapiente politica democratica aveva costituito con le forze armate repubblicane, avrebbe certamente reso il conflitto aperto, molto aperto.
Il delitto Moro è del 1978. Gli Stati Uniti avevano subito la sconfitta nella guerra del Vietnam da soli tre anni. Un intervento golpista nel centro dell’Europa, contro un governo democraticamente eletto avrebbe comportato rischi drammatici per la presenza americana nel continente. Il regime dei colonnelli in Grecia era stato liquidato. Così come il fascismo di Salazar in Portogallo.
Infine, la riconquista dell’autonomia e della libertà per il nostro paese, cancellando le conseguenze della sconfitta fascista nella Seconda Guerra Mondiale e la occupazione militare americana, costituivano un obiettivo politico primario, non solo per l’Italia, ma per la intera costruzione europea.
La stessa affermazione berlingueriana di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della NATO, rispetto al patto di Varsavia va letta in termini corretti. Fu un’affermazione necessaria per poter continuare il dialogo con la DC di Aldo Moro. Non fu un’espressione di adesione convinta al campo americano, come già al tempo andava esternando qualche esponente di secondo piano del Pci (nelle stanze della Direzione di Botteghe Oscure, si erano visti appesi i ritratti dei Kennedy). Questo avverrà più tardi, sotto la pedagogica supervisione di Francesco Cossiga, che si occupò di condurre per mano un altro esponente post-comunista a bombardare la Serbia con la NATO e senza l’approvazione dele Nazioni Unite.
Ma allo stesso tempo, Berlinguer perse l’occasione per connettersi con l’ala più avanzata della civiltà socialdemocratica del Nord, specificatamente con la “neutralità attiva” di Olaf Palme, base necessaria per una futura Europa libera, autonoma, pacifica (ma armata fino ai denti).
Di tutti i problemi nati dalla sconfitta del compromesso storico, ripeto, non vi è traccia nella Mostra romana. Solo la celebrazione delle vittorie elettorali, del tutto sterili, che concluderanno il percorso del leader comunista e che lasceranno ai suoi eredi, privi di una nuova strategia politica, la sola possibilità, di fronte al crollo del Muro di Berlino e dell’esperienza sovietica, di tentare un disperato “reset”, di iniziare un nuovo percorso politico.
Nella seconda sala della mostra, prima del luogo della proiezione del film di Veltroni, colmo di dolci sentimenti ma politicamente vuoto e irrilevante, si proietta la scena dell’intervento di Berlinguer al XXV Congresso del PCUS.
L’emozione di vedere Berlinguer riversare sui delegati sovietici, irrigiditi sotto il peso delle loro medaglie e della loro vuota passività, un fiume di piombo fuso di politica vera è impagabile.
È uno spettacolo che vale di per sé la visita.
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