Michelle candidata presidenziale contro Trump? L’articolo della gossipara Cindy Adams, che s’inventa una trama ordita dall’ex coppia presidenziale per far fuori Joe Biden e sostituirlo con l’ex First Lady come sfidante di Trump, è una bufala a cui può pure far piacere credere. Ma devi essere un viscerale antipatizzante dei democratici per dare retta al New York Post, il tabloid di Rupert Murdoch che pubblica le “rivelazioni” di Cindy Adams.
Quello che in realtà rivela l’iniziativa del quotidiano trumpista è altro, è l’evidente fatica dei media, già adesso, nel raccontare una campagna presidenziale in cui, fin dal suo inizio, si sa come andrà a finire. La sfida presidenziale ha avuto sempre i caratteri della “corsa dei cavalli”, capace per diversi mesi, prima e dopo il picco del super martedì di marzo, di mettere in moto un’affollata carovana di reporter e analisti al seguito dei candidati, che via via diminuivano tra dibattiti e polemiche, fino alle due convention estive e poi al voto di novembre. Una pacchia per i media. Questa volta il duello Biden-Trump è già dato per scontato. Cosa si scriverà, cosa si dirà d’ora in poi?
Ma il caso della “candidatura” di Michelle Obama va visto oltre gli aspetti patologici dei rapporti tra media e politica. Rivela l’evidente difficoltà in cui si trova il partito del presidente-candidato, esposto com’è a spunti e pretesti per attaccarlo personalmente in una competizione che per lui è tutta in salita. L’ipotesi di sostituirlo è politicamente impensabile, allo stato attuale, eppure è un’opzione che non può essere neppure definitivamente scartata, nelle prossime settimane, di fronte al ripetersi di sondaggi sempre più catastrofici per il ticket democratico, con conseguenze per la sorte di molti democratici in corsa per il senato e per la camera, penalizzati da un candidato presidenziale considerato sicuro perdente.
Sull’altro fronte c’è una situazione per certi versi speculare, nella quale c’è chi punta su una candidata donna e giovane, Nikki Haley, per mettere fuori gioco un candidato ingombrante, troppo di parte, un misogino molto avanti negli anni e sempre più follemente instabile. Se nel caso di Michelle Obama si è nel regno delle speculazioni pettegole qui si è nel regno delle speranze. Che, dopo le primarie in New Hampshire, non sono svanite, forse si sono rafforzate, almeno secondo la diretta interessata: “La corsa, dice Haley ai suoi sostenitori, è tutt’altro che finita, restano ancora altre dozzine di stati”.
La distanza con Trump resta consistente. Dopo l’Iowa e dopo il New Hampshire, dove Trump vince con il 54,4 per cento (12 delegati) contro il 43,3 dell’avversaria (9 delegati), l’ex-presidente ha con sé 32 delegati alla convention di Milwaukee, Haley 17. Il divario è già evidente. Ci sono quindi forti pressioni perché getti la spugna. Ma altrettante forti pressioni – e consistenti donazioni – perché prosegua la corsa, nella convinzione, da parte dei suoi strateghi e dei suoi sostenitori, che la partita sia aperta nonostante tutto, perché la forza dei numeri attuali potrebbe essere messa in crisi da una nuova dinamica dello scontro. Si pensa che una competizione a due, tra il beniamino della destra estrema (con un’abbondante presenza di quella evangelica) e la rappresentante di una destra moderata e più attenta alle donne e alle minoranze (Nimrata Randhawa, alias Nikki Haley è figlia di immigrati indiani), possa riservare sorprese, specie negli stati più urbanizzati. E poi va considerato anche il bagaglio pesante ed esplosivo di processi che l’ex presidente si porta dietro.
Certo, al di là dei numeri a lui favorevoli, Trump ha dimostrato in Iowa e in New Hampshire di poter contare su un vero e proprio “movement” di sostenitori fedeli. Il navigato Newt Gingrich, una specie di antesignano del trumpismo, ha detto al New York Times che il suo amico Donald “non è un candidato, è il leader di un movimento nazionale“. Nessuno, dice ancora Gingrich, “ha ancora capito come farcela con quello che è il campione di un movimento. Ecco perché anche con tutte le vicende legali che s’accumulano, questo non fa che infuriare il suo movimento e alimenta incredibilmente la loro rabbia”.
In una competizione così fortemente personalizzata, difficile che i contenuti possano avere peso tale da spostare i rapporti di forza. Se non la questione del diritto all’aborto, che è diventato uno dei temi chiave della strategia democratica, dove s’incontra il favore e anche il sostegno di molte elettrici repubblicane, nonché di elettori indipendenti. Trump è il presidente che ha nominato tre giudici conservatori cambiando la maggioranza nella Corte suprema per rovesciare la sentenza Roe v Wade e restringere drammaticamente l’accesso all’interruzione della gravidanza. Harris è rimasta finora nel vago, barcamenandosi malamente tra un elettorato repubblicano generalmente pro-life e un elettorato pure repubblicano, ma femminile, largamente pro-choice. Se sceglierà con nettezza da che parte stare potrebbe diventare un’insidia per il misogino Trump. Ma anche, poi, per il Partito democratico.
il manifesto
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