![Monte di Pietà, un palazzo, una storia, una mostra](https://ytali.com/wp-content/uploads/2024/06/IMG_9782-1-658x1024.jpg)
Quella interrotta sembra una innocente partita a scopa. Di quelle cominciate al mare, sotto l’ombrellone, per ingannare la calura estiva. O di quelle imbastite in cucina, nelle sere di pioggia o nelle uggiose domeniche d’inverno. L’atmosfera, però, è tutt’altro che domestica.
Il panno verde che riveste il tavolino quadrato basta da solo a proiettarmi in una casa da gioco. Alzo lo sguardo. Sulla parete una foto del Venetian Resort Hotel Casino di Paradise, Las Vegas. Quello con le repliche del ponte di Rialto e del campanile di Piazza San Marco, per intenderci. Forse il più grande albergo di lusso degli Stati Uniti. Non mi trovo nel Nevada, però.
Sono nel mezzanino di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana, dal 2011, della Fondazione Prada. Per pura casualità sono la sola visitatrice, in questo momento, di queste stanze. La partita interrotta, le carte trevisane della celebre ditta Dal Negro sparpagliate sul tavolo verde, ma anche le suppellettili che riempiono questi ambienti che sembrano abbandonati d’improvviso mi fanno pensare alla dissoluzione dell’intero genere umano. Mi sento finita in un romanzo di Guido Morselli, quel Dissipatio H.G. pubblicato postumo – come quasi tutti i testi dello scrittore morto suicida – da Adelphi. Un caso letterario negli anni Settanta.
Narrava, Dissipatio, di un mondo svuotato dagli esseri viventi del nostro genere, e parlava di banche e, anche, di soldi, un dio diventato inutile improvvisamente.
Sono, in fondo, i temi di questa mostra, intitolata “Monte di Pietà” che – spiegano le note dell’ufficio stampa – è una approfondita indagine del concetto di debito come radice della società umana e veicolo primario con cui è esercitato “il potere politico e culturale”.
Vicino al tavolino della partita non finita c’è una roulette abbandonata nel pieno delle puntate. Più in là è rimasta in sospeso una mano di baccarat. Alle pareti uno specchio con una pretenziosa cornice, un attaccapanni da muro dal quale penzolano magliette a righe da gondoliere affidate a grucce desolate. Non aggiunge vita una triste pianta di kentia illuminata, come tutto il resto, da un lampadario a cristalli sfaccettati come diamanti. Già, i diamanti. Come quelli dentro a una valigia ( l’opera “The Diamond Maker”) cui allude un grande banner esposto alla fermata del vaporetto di San Stae. La valigia sta al piano di sopra ed è un’opera concepita da Christoph Büchel (l’artista che ha progettato anche la mostra che sto attraversando): contiene pietre realizzate in laboratorio da un’azienda svizzera che produce diamanti della memoria. Quelli fatti con le ceneri di defunti o di animali d’affezione.
La valigia meriterebbe un articolo di per sé. O forse un saggio. Un po’ come quasi tutte le “cose” e gli ambienti ricostruiti da Büchel nel corso della sua attività. Mentre sto per uscire da questa porzione di casinò, l’occhio mi cade su una raffigurazione di una casa da gioco veneziana del Settecento. Un “Ridotto in Venezia” di Pietro Longhi. Giocar d’azzardo è sempre stato un vizio umano e una delle cause del ricorso ai prestiti. Ha originato l’usura, la nascita dei banchi di pegno, quella dei Monti di Pietà. E torno al titolo scelto per tutto ciò che mi circonda. Una installazione immersiva. Non di quelle virtuali, tanto in voga ormai, ma reale, tangibile. Rivolta a quattro dei nostri cinque sensi: la vista, il tatto, l’olfatto, l’udito.
Scruto il “Ridotto”, di primo acchito penso a una tela della veneziana Fondazione Querini Stampalia. Ma esistono più versioni di questo soggetto. Una ricerca in rete rimanda a un quadro di proprietà della Fondazione Zani, una casa museo a Cellatica, in provincia di Brescia.
Non ci sono didascalie a confermarmelo. Deve trattarsi di una riproduzione, forse una replica a stampa o una copia espositiva. Lo stesso quadro, con una diversa cornice, sta anche al primo piano nobile. E non so capire se sia ancora una replica o se, invece, sia il dipinto vero.
È ciò che Büchel vuole, evidentemente. Interrogarmi, interrogarci, sul senso delle cose, sull’autenticità, sul concetto di valore.
Ma è solo uno dei tanti percorsi, anche interiori, aggrovigliati in questo palazzo trasformato in una succursale dell’enorme mercato delle pulci di Porte de Clignancourt a Parigi. Un bric-à-brac che mi fa piombare tra le righe di Guido Gozzano, in mezzo alle cose di pessimo gusto. Büchel ha fatto un improbo lavoro da trovarobe e ha costruito un’effimera Cinecittà che si ispira alla storia, alle opere d’arte, alla cronaca. Sono dentro a un set cinematografico, penso. E mi chiedo se non ci sia un sistema di ripresa video che trasformi anche me in una parte di questo tutto.
Questo mezzanino mi si rivela con sorprendenti stucchi rococò di Vincenzo Colomba e affreschi di Costantino Cedini. Mi colpisce in particolare la “Veduta di porto con coppia di aristocratici in atto di sbarcare” che reca, su una botte al margine destro, l’indicazione di un anno, il 1776. Turisti d’epoca. E, su uno schermo, un video con un’attempata, colorata e colorita tiktoker veneziana, Regina de’ Schei, che fa da guida nella sua città dei ricordi. Passo da un bagno anni Cinquanta – sui cui muri incombono una lavatrice imbullonata ma pure una brutta riproduzione del Salvator Mundi attribuito a Leonardo – a uno da grande magazzino Ikea, transitando per una camera da affittanza breve, con tanti letti e un lungo tavolo da ultima cena. Le sedie sono tredici, in effetti, ma i commensali sono evaporati lasciando il ripiano ingombro di vaschette di alluminio coi resti di insalate e seppie col nero. Turismo, consumi, soldi. Ma anche arte. Anche quella delle aste televisive di croste varie. Ce le propina un banditore da un monitor che sta in uno stanzino che pare la tana-bunker, così somigliante a una prigione, di un mafioso ricercato: un letto sfatto, la tv, una cyclette.
Da qualche parte, mi sovviene, ho visto un giornale aperto su un titolo che ironizza sullo scarso valore della collezione di dipinti di Silvio Berlusconi.
La mia visita era cominciata al pian terreno: una sorta di casa d’aste in fallimento tra sedie rosse “vestite” in file regolari davanti a un bancone senza più battitore. Sedie disposte tra portiere di automobili, brandine da campo pronte per terremotati o alluvionati o lasciate vuote da cataclismi già avvenuti. Una foto della Presidente del Consiglio sta poggiata sullo scatolone di un corriere espresso. Ci sono gli scaffali vuotati di un “banco alimentare”; una cappella – colma di ex voto e di stampelle e arti artificiali – che racconta di fede ai margini dell’ortodossia; una stanza con sacchi di cemento, una partita a scacchi a metà, calcestruzzo in macerie, una credenza dal ripiano in formica dove noto un narghilè e una foto delle torri gemelle.
Salendo trovo il banchetto improvvisato di un venditore di borse non autorizzato; su una balaustra l’esposizione di aste per selfie. Commercio informale. Soldi, sfruttamento, emigrazione, speranze.
Più su ancora, oltre il mezzanino, al primo piano nobile c’è davvero di tutto. Dai denti finti a un Kalashnikov che fa bella mostra sopra due modelli di mitra MP38, versioni da seconda guerra mondiale, direi. Poi cumuli di stracci, espositori con pellicce pulciose, macchine per scrivere e mappamondi. É stato ricostruito – lo capisco osservando delle foto storiche – l’arredo del Monte di Pietà di Venezia che a Ca’ Corner ha avuto sede dal 1834 al 1969. In una stanza sono stati stipati grossi registri del diciottesimo secolo. Vengono dal Monte di Napoli, sento dire. Non so, naturalmente, se sia così.
Caterina Cornaro, la regina veneziana di Cipro che ebbe una corona ma perse il marito e il figlioletto nelle lotte di potere per il controllo della strategica isola, mi osserva dagli affreschi settecenteschi che raccontano la sua vita. Nacque qui nel 1454, ma non esattamente in questo edificio che ne perpetua il ricordo e il nome: quella casa venne sostituita nel XVIII secolo dal palazzo attuale. Dal ramo dei Corner di San Cassiano, il complesso passò a Papa Pio VII che lo assegnò ai Padri Cavanis. Dalla congregazione andò al Comune e, dopo essere stato il banco dei pegni cittadino per oltre 130 anni, divenne, nel 1975, sede dell’archivio storico della Biennale.
Questa mostra-installazione, visitabile fino alla fine di novembre, racconta anche tutto questo. Non spiega invece ciò che è avvenuto dopo: l’acquisizione nel 2011 da parte della Fondazione Prada, le belle mostre che qui sono state ospitato da allora. E nulla dice degli accordi che hanno condotto al passaggio di mano dell’edificio ne’ della definizione della destinazione d’uso dei diversi piani che non é esclusivamente museale.
C’è tanta polvere ovunque qui, forse anche di un cantiere che si intuisce aperto ai piani superiori come testimoniano i ponteggi su un lato dell’edificio, quello che guarda verso Rialto.
Caterina osserva tutto e tutti, ma non solo dagli affreschi sulle pareti. Suoi ritratti sono sparsi nelle sale: autentici o copie, di nuovo, non so. Riconosco effigi che ho visto al museo di Asolo ma anche il famoso olio di Tiziano che appartiene agli Uffizi. Se sia qui ora per davvero, o se io stia osservando una copia espositiva, nessuno me lo sa dire. Di certo è autentico un quadro di Gabriel Bella, che in passato ho più volte studiato alla Querini Stampalia, il “Bancho del Giro in Rialto”.
Direi che è “vero” anche il Cristo in Pietà, uno stendardo forse: sta appeso sopra “Il Pignoramento” un dipinto a olio del XVI secolo che vedo riprodotto anche sulla copertina di un catalogo in bella mostra su una scrivania poco distante e che è dedicato al Monte di Pietà di Faenza. Vera, forse, è pure la tempera della prima metà del Quattrocento (che mi risulta essere parte delle collezioni della pinacoteca nazionale di Bologna) raffigurante San Bernardino da Siena e storie della sua vita. Di quel santo fu discepolo Bernardino da Feltre, il francescano che, per contrastare l’usura, fondò i Monti di Pietà .
Anche qui, nessuna didascalia. Mi aiuto esaminando attentamente le opere e cercando conferme in rete. Su un’altra parte, in una grande vetrina, preziose ceramiche faentine antiche. A loro fianco una raccolta di piatti del buon ricordo. Mi dicono appartengano all’artista, un buongustaio allora.
Sui tavoli trovo tracce di colonialismo. La guida breve – rilegata in tela rossa, evidentemente pubblicata nel Ventennio dalla Consociazione Turistica – dedicata all’Italia Meridionale e Insulare e alla Libia. Varie immagini dell’Etiopia e dell’obelisco di Axum. Nella stanza successiva una grande tela raffigura il Villaggio Battisti, fondato nel 1938 in Cirenaica. Wikipedia dice che oggi è centro di addestramento per sottufficiali e prigione. Non ho cuore di indagare oltre.
Sono tanti i piani di lettura possibili di questo “Monte di Pietà” messo insieme da Büchel, nato in Svizzera, a Basilea, nel 1966, un 11 settembre. Ha cominciato, a farsi conoscere negli anni Novanta con lavori concettuali e installazioni ambientali. Lo si può ascrivere a quella corrente – in fondo un complesso torrenziale di rivoli diversi – che comprende la Land e la Public Art. Grazie a esse, gli artisti sono usciti da gallerie e da musei e hanno trasformato l’“opera” in elemento di esperienza.
Per Büchel questo progetto realizzato per Prada non rappresenta l’esordio veneziano.
Pochi hanno avuto la possibilità di visitare – ma molti sono coloro che ricordano l’evento – una sua installazione per il padiglione dell’Islanda alla Biennale del 2015 che venne fatto chiudere dopo neppure due settimane per rimostranze di varia natura che indussero le autorità cittadine a revocare i permessi. All’interno di una chiesa sconsacrata, quella della Misericordia – che mi sovviene essere stata usata da altri in differenti circostanze anche per feste danzanti – Büchel aveva, semplicemente, ricreato una moschea. I ricorsi islandesi al Tribunale amministrativo non produssero un risultato favorevole. E il padiglione non riaprì.
Sono quasi le 18. Chiude tra poco anche la mostra di Prada. Sono tornata all’ ingresso di Ca’ Corner della Regina per ritirare il mio zainetto. Entrando avevo chiesto una brochure – una di quelle che hanno sempre accompagnato le mostre della Fondazione. Ma mi era stato detto che non erano disponibili.
Chiedo ora del catalogo: non è ancora arrivato, mi dicono. È la terza volta che visito la mostra in un mese e mezzo. Ed è la terza volta che ottengo la medesima risposta. Sorrido. Il catalogo me lo sto facendo io stessa soffermandomi via via su particolari “nuovi” non osservati la volta precedente. Tornerò ancora. Il mercoledì, per i residenti della mia età, l’ingresso è gratuito.
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