
Due riunioni a Washington, entrambe cruciali per la sorte di Joe Biden. Il summit della Nato. Ma, politicamente ancora più importante per il presidente, l’assemblea dei parlamentari democratici chiamati a pronunciarsi sulla sua nomination. Cellulari banditi. Per non consentire fughe di notizie e dar modo di esprimersi liberamente agli eletti del Partito democratico, molti dei quali, peraltro, dovranno riguadagnarsi il seggio nella House il 5 novembre, l’Election Day più drammatico della storia recente americana. Il loro parere sulla corsa presidenziale di Joe Biden è legato anche alla sua associazione con le loro candidature. La sconfitta di Biden potrebbe trascinare nel gorgo molti candidati dem. Nella stessa giornata la consueta colazione di lavoro settimanale dei senatori dem, con in cima al menu l’inquilino vacillante della Casa Bianca.
Non è proprio il momento ideale per riunire nella capitale i 38 capi di stato e di governo della Nato, men che meno per celebrare con loro il settantacinquesimo anniversario della sua fondazione. Ad accoglierli è un re nudo, però convinto che i convitati atlantici continuino a vederlo adornato coi vestiti ed emblemi dell’imperatore, imponendo i loro sguardi di ammirazione e adulazione su quelli scettici e nervosi di esponenti democratici, opinionisti liberal e donor sempre più riluttanti.
Reggerà, Biden, alla prova fisica e psicologica del summit? La domanda mette in secondo piano tutte le altre questioni del momento, dall’ulteriore impegno militare e finanziario che richiede l’intervento al fianco dell’Ucraina fino ai tempi e ai modi del suo ingresso nella Nato, dalle sparate quasi non più metaforiche di leader come il polacco Tusk alla richiesta di maggiore spesa bellica dei paesi membri, oltre ormai il due per cento.
In tempi normali si sarebbe discusso dell’avvicendamento al vertice della Nato, dal falco norvegese Stoltenberg al superfluo olandese Rutte, e su quello che richiede l’alleanza per trasformarsi in un apparato in permanente mobilitazione bellica. Perché discuterne se il 5 novembre l’attuale imperatore cederà lo scettro a un successore che considera la Nato “obsoleta” e un costo ingiustificato per il contribuente americano?
Gli alleati di Biden sanno bene che la loro presenza a Washington serve unicamente a certificare se Biden ce la farà o no a correre nei restanti 115 giorni, sapendo peraltro che, anche fosse rieletto, presto dovrà passare la mano alla sua vice. Insomma, si è alla fine di un’epoca nelle relazioni transatlantiche, che non è detto saranno rinnovate nei termini e nei modi fin qui seguiti e praticati, mentre sono in corso due conflitti che vedono l’America e la Nato impegnati, se non direttamente, in modo massiccio.
La giornata potrebbe anche concludersi positivamente per l’esaminando Joe. In casa democratica sembra prevalere la rassegnazione alla sua ricandidatura, non essendoci un piano b davvero attuabile in tempi così brevi. Alexandria Ocasio-Cortez ha detto che la vicenda della candidatura va considerata “chiusa”. Lo è davvero? Altri dem sono scettici. E sul fronte Nato non sembra esserci un interesse, allo stato attuale, a mettere in discussione la leadership dell’alleanza, anche se impersonata da un’anatra zoppa. Tutto questo può forse rallentare, ma non cambiare la dinamica della caduta del presidente-candidato. Mentre le chance di Trump si rafforzano.
Per il tycoon un avversario nelle condizioni di Joe è un regalo insperato. Quattro anni fa, in questo stesso periodo, Biden lo precedeva nei sondaggi di dieci punti, ora Trump è sei punti sopra. Osserva David Axelrod, stratega di Barack Obama: “Trump non parla tanto del cattivo dibattito di Biden. La sua campagna non si è scatenata contro di lui. E Lara Trump [nuora di Trump e copresidente del GOP] ha detto che sarebbe un affronto per la democrazia se non fosse più lui il nominee. Domanda: perché pensate che stranamente si stiano trattenendo dall’aprire il fuoco?”
Certamente, a sparare contro la Casa Bianca, ci penserà comunque l’informazione, anche quella amica, anzi soprattutto quella amica. NYT, Washington Post, CNN, MSNBC non possono che andare avanti nelle loro indagini sulle condizioni reali di salute e di tenuta di Biden e nel sollecitare prese di posizione in linea con le loro, decisamente dirette alla sostituzione di Biden. Restano pochi giorni? Pochi?, si ribella e invita alla ribellione il popolarissimo comedian Jon Stewart, ricordando le brevissime campagne elettorali in Francia e Regno Unito. “E noi siamo meno di loro?” Già, se l’establishment è riluttante, la base è in grande fermento, inarrestabile, e non smetterà facilmente di farsi sentire.
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