C’è una questione che non dovrebbe avere spazio nel dibattito politico di uno stato democratico: l’uso della forza armata non contro nemici esterni, ma contro nemici interni, contro i cittadini di quello stato. Le norme e le costituzioni degli stati democratici prevedono che le forze armate siano rigorosamente alle dipendenze dell’autorità civile; e gli uomini e le donne che ne fanno parte non possono intervenire nel dibattito politico o costituirsi in partito in quanto militari, ma soltanto se si tolgono l’uniforme.
Al contrario, nei regimi autocratici o scarsamente democratici le forze armate esercitano un ruolo politico e spesso anche economico diretto o indiretto, diventando così uno stato nello stato, un potere al di sopra di ogni altro potere. Quando l’autorità civile non segue i loro “consigli” i generali organizzano un colpo di stato e la rimuovono. È successo e succede in tante parti del mondo: i colpi di stato si succedono, i carri armati si posizionano davanti ai palazzi del potere e le carceri si riempiono di prigionieri politici. Se al presidente di turno va bene, riesce a fuggire, altrimenti peggio per lui e per chi lo sostiene.
Negli Stati Uniti oggi apparentemente non c’è un pericolo di questo genere. In passato c’è stato. Dopo la guerra civile americana (1861-1865) gli stati del sud sconfitti furono sottoposti, per motivi di sicurezza contro nuove insurrezioni, ad una prolungata occupazione militare provocando infine forti proteste nella popolazione. Così che nel 1878 venne approvata una legge (il Posse Comitatus Act) che vietava l’impiego dell’esercito federale per compiti di ordine pubblico, che dovevano invece essere affidati esclusivamente alle forze di polizia civili. La nuova legge tuttavia non abrogava una precedente emanata da Thomas Jefferson nel 1807 per combattere le rivolte degli indiani d’America, l’Insurrection Act, che consentiva al presidente di usare le forze navali e di terra per “reprimere un’insurrezione e ripristinare l’osservanza della legge”.
L’Insurrection Act fu applicato ripetutamente negli anni di grandi proteste sociali seguiti alla prima guerra mondiale; e anche dopo, alla vigilia della seconda guerra mondiale, l’esercito fu usato per deportare e internare in campi di concentramento i cittadini americani di origine giapponese (o genericamente asiatica) che si riteneva potessero agire come spie o collaboratori dell’impero nipponico.
Nel secondo dopoguerra gli episodi in cui la legge venne applicata furono pochi e in qualche modo giustificati. Sia Dwight Eisenhower che John Kennedy fecero ricorso alla legge per inviare truppe federali in Arkansas e in Alabama, dove i rispettivi governatori si era rifiutati di fare rispettare le nuove norme contro la segregazione razziale (la sentenza Brown della corte suprema e il civil rights bill). Lyndon Johnson fece lo stesso nel 1968 per reprimere le rivolte razziali in varie città americane seguite all’uccisione di Martin Luther King e di altri leader neri; nel 1992 George H. W. Bush inviò le truppe a Los Angeles a causa dei gravi disordini provocati dall’uccisione immotivata da parte della polizia di un altro nero, Rodney King. Dopo di allora e nei decenni successivi i soldati americani sono rimasti chiusi nelle loro caserme quando non venivano spediti all’estero a combattere una delle tante guerre o spedizioni militari degli Stati Uniti.
Fino a Trump. L’uomo, come tutti i leader autoritari, è sempre stato affascinato dalla forza, in particolare la forza armata, e ha coltivato assiduamente i buoni rapporti con l’establishment militare. I riferimenti nei suoi discorsi (oltre che nel programma del partito repubblicano) ad “una forza efficiente e letale … più grande, migliore e più forte che mai” in grado di colpire ovunque nel mondo per difendere “lo stile di vita americano dalle influenze malevoli” non si contano. La sua interpretazione della norma per cui il presidente degli Stati Uniti è il comandante in capo delle forze armate era (ed è) che i militari devono fare tutto quello che lui gli chiede, obbedire senza discutere.
Quando a fine maggio del 2020 George Floyd, un uomo nero di Minneapolis, venne crudelmente assassinato da un agente di polizia vi furono di nuovo manifestazioni di protesta, che in alcuni casi diventarono violente con assalti alle sedi della polizia locale. Trump voleva inviare truppe federali a Minneapolis e Saint Louis invocando l’applicazione dell’Insurrection Act (che richiede che venga dichiarato lo stato di guerra per sedare un insurrezione), ma incontrò la resistenza dei suoi consiglieri giuridici e soprattutto del ministro della difesa Mark Esper che, pur essendo un fedele trumpiano, si rifiutò di eseguire l’ordine provocando la furia implacabile del presidente.
Sette mesi dopo, siamo nel gennaio del 2021, Trump ha perso le elezioni e una folla di suoi sostenitori ha appena dato l’assalto al congresso per rovesciarne il risultato. E’ un periodo di pericoloso interregno in cui Trump è ancora in carica e Biden non ha ancora prestato giuramento (lo farà il 20 gennaio). A Washington la preoccupazione è grande che Trump possa tentare un’ultima avventura per rimanere al potere, ordinando di lanciare un missile a testata nucleare contro l’Iran o la Corea del Nord, e scatenando una guerra che giustifichi l’imposizione dello stato di emergenza. Si teme insomma un colpo di stato e tra coloro che lo temono c’è la speaker della camera, Nancy Pelosi, tra i principali bersagli degli assalitori del 6 gennaio e frequente oggetto dei violenti attacchi verbali di Trump.
È a questo punto che il capo di stato maggiore delle forze armate, il generale Mark Milley, si consulta con Pelosi che in quanto speaker della camera è la terza più alta autorità dello stato (dopo il presidente e il vicepresidente), e invia una lettera ai suoi sottoposti in cui ingiunge loro di non dare seguito ad un eventuale ordine di attacco nucleare del presidente senza chiedere la sua (di Milley) approvazione. Un chiaro gesto di potenziale insubordinazione delle forze armate rispetto al potere civile, che fu criticato da commentatori di destra e di sinistra. Non tenendo però conto della eccezionalità della situazione.
Secondo Milley infatti il giuramento alla Costituzione viene prima dell’obbligo di obbedienza al capo; di fronte ad un ordine palesemente illegale di un presidente, sconfitto nelle elezioni che cercasse di scatenare una guerra per rimanere al potere, è dovere dei militari disobbedire. C’è il precedente giuridico dei processi di Norimberga, voluti dagli alleati vittoriosi dopo la seconda guerra mondiale, in cui alti ufficiali tedeschi furono processati per avere ubbidito ad ordini illegali. È per questo motivo che il codice militare degli Stati Uniti (Uniform Code of Military Justice) rende non punibile il militare che disobbedisce ad un ordine che lui stesso giudica palesemente illegale.
Sembra storia passata, eccetto che non lo è. Nei suoi comizi, come anche nel programma del partito repubblicano, Trump ha più volte dichiarato l’intenzione di usare l’esercito e tutto il dispositivo militare americano per attuare il suo programma autoritario. La deportazione di milioni e milioni di immigrati clandestini dovrebbe essere eseguita dai soldati andando casa per casa, internando famiglie intere in campi di concentramento prima dell’espulsione (dove non si sa, ma questa è una debolezza di tutti i consimili programmi di espulsione che vari paesi vorrebbero adottare). Il suo progetto di sigillare il confine con un “bellissimo” muro prevede la mobilitazione dell’esercito per un compito che la legge invece attribuisce ad un corpo di polizia federale specializzato (la Border Patrol) sotto la supervisione della magistratura.
Nel corso della campagna elettorale Trump ha più volte dichiarato la sua intenzione di punire tutti coloro che lo hanno ostacolato, e ha annunciato che questa volta in caso di sommosse, o anche solo manifestazioni di protesta, non si farà ostacolare né dai cavilli giuridici né dalle obbiezioni di un ministro della difesa (ammesso che a questo punto ve ne sia uno che abbia il coraggio di sollevarle). Userà la sua sola autorità per mandare le truppe con le armi spianate a combattere contro i manifestanti e per arrestare tutti coloro (politici, giornalisti, intellettuali, membri di quello che lui chiama il “deep state”, lo stato profondo che complotta contro di lui) che per un motivo o per l’altro sono finiti sulle sue liste di proscrizione.
Insomma, quello che a chiare lettere ha detto di volere instaurare, se sarà eletto presidente, è uno stato di polizia senza la polizia (che non dipende da lui ma dai singoli stati e città) e senza il controllo della magistratura, ma con le forze armate sulle quali ritiene di avere autorità esclusiva in quanto comandante in capo. Che riesca a realizzare il suo progetto liberticida, anche nella malaugurata ipotesi che venisse eletto, è improbabile dal momento che incontrerebbe la durissima opposizione delle istituzioni democratiche del paese (oltre che di molti stati non governati dai suoi sostenitori) e, probabilmente, di gran parte dell’opinione pubblica. La conseguenza sarebbe una spirale crescente di conflitti che presto diventerebbero scontri violenti fino alla terrificante possibilità di una guerra civile — e forse è proprio questo che Trump vuole.
È il corso che aveva previsto in un’altra epoca di montante minaccia fascista, gli anni Trenta, il premio Nobel Sinclair Lewis nel suo It Can’t Happen Here (“Non può succedere qui”), in cui racconta come, al contrario di quanto dice il titolo, successe proprio in America. In un’epoca più recente, gli anni 2000, di grande preoccupazione per l’instaurarsi di un regime autoritario con il pretesto di combattere il terrorismo, Philip Roth, lanciò lo stesso allarme con il suo The Plot Against America. E così tanti altri romanzi, film e serie televisive che da almeno cinquanta anni raccontano di un futuro apocalittico che attende l’America.
Se in un futuro prossimo Donald Trump, di nuovo asceso alla presidenza, riuscisse a portare a segno il suo complotto contro l’America grazie all’appoggio delle forze armate e del gigantesco apparato di sicurezza del paese, il prossimo colpo di stato di cui potremmo leggere sui giornali non sarà in qualche paese africano o latino-americano, ma nella terra della democrazia e della libertà: gli Stati Uniti d’America.
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