
Il sapere poetico è oggi, o dovrebbe essere, sempre più un sapere “di risulta”, che si fa strada fra le tante distrazioni, che emerge dal lavoro, dalla “pigrizia intellettuale” (come già scriveva Saba nel 1911 in Quello che resta da fare ai poeti). Estate metafisica di Angelo Restaino è un libro di lavoro. Non soltanto per il raffinato lavoro sul verso ma anche perché tematizza in chiave forse addirittura allegorica quella lettura, descrizione, rilettura, decifrazione e trasfigurazione del mondo che il paleografo, e su diversi oggetti l’archeologo, “fanno per mestiere”. Secondo libro di Restaino, dopo il pregevole Contrada dello zodiaco (Taranto, Fallone Editore, 2021), la raccolta arriva a un’essenzialità suprema, che organizza il discorso in quattro sezioni: Canti del buio lungo, Loquamur de ordine, Estate metafisica, Gli archeologi.
Sonno e sogno sono due dei temi più rilevanti nel libro, presenti fin dai primi testi, a cominciare dal memorabile In sogno sto scavando sottoterra, che sembra congiungere l’immaginario archeologico con qualcosa di bellico, che ricorda le trincee della Prima guerra mondiale, secondo una intuizione che ricorre anche nell’altra grande poesia onirica, Cercavo di spaccarmi i denti in sogno. La conoscenza, appena al di là di un sottile diaframma, al di qua di un varco che non è quello di Montale, è interrotta, nel sogno, dal franare di tutto, dal soffocamento un attimo prima della rivelazione. La poesia fa dittico con la successiva, come spesso succede nel libro, a riprova di un affascinante percorso mentale e dianoetico (come sottolinea Davide Castiglione nella prefazione). La gente su cui si chiudeva la poesia citata («una gran moltitudine industriosa, | di certo non felice ma esistente»), apre la seconda poesia:
Mentre tenevo gli occhi chiusi
dev’essere accaduta qualche cosa,
la stanza idest il mondo
si è riempito di gente.
La stanza è il mondo, e la parete diventa, per il paleografo, una parete palinsesto «che fa da confine della periferia». In effetti, più che il tempo dello storico, la dimensione di queste prime sezioni del libro sembra essere quella dello spazio, anche quella del flâneur in una Roma estiva sciolta dal caldo agostano dell’estate metafisica promossa a titolo, come conferma il testo successivo, dall’incipit quasi sbarbariano, Esco. Ho perso una battaglia ignota:
Farne tesoro a risapere che siamo
transitori – è il principio della libertà,
poter – dover? davvero? dici? –
finire. La signora che abita il quartiere
sembra dissentire, come sempre.
È una caposcuola, chiude un quadro al giorno,
è truccata da pagliaccio e ha due code fucsia.
Sibila una spiegazione razionale, opposta:
ci riproporremo. Forse saremo scritturati.
Chissà, signora. Magari. Il cielo voglia.
In altre forme? sotto altre sembianze?
Sono versi sapienti: dal punto di vista metrico, per l’enjambement vertiginoso su finire, dopo gli incisi dubitativi dell’oralità, della voce dell’io che irrompe con le proprie domande incalzanti, evidentemente rivolte a un interlocutore segreto, assente ma presente, che corregge nel dialogo non riferito il poter del locutore. E poi ancora da quello tematico: la pittrice, quasi una maga da Satyricon, che domina la scena cittadina, nella sua acconciatura vistosa e folle, e che introduce l’ipotesi di una metempsicosi attoriale, che non a caso fa tesoro, nel verso finale, dell’ultimo dialogo fra Pasquale Lojacono e il misterioso, assente/presente professore Santanna, in Questi fantasmi di Eduardo.
di Angelo Restaino
Qudulibri edizioni, 2023
Prezzo: euro12,00
Lo statuto dell’io di queste liriche è quello a cui ormai siamo abituati, quello che ormai siamo (Cercavo di spaccarmi i denti in sogno: «Il personaggio che dovrebbe dire ‘io’ | è una trama sempre più allargata | di maglie di ricordo, coscienza, volontà: | si tiene insieme per miracolo»): ma per fortuna, c’è ancora modo di credere nel mondo, come conferma L’alfiere mi ha buttato giù dal letto. Ovviamente, il mondo esiste poi a suo modo, soprattutto nel riflesso percettivo di noi che ne siamo ingrati ospiti invasori: la seconda sezione del libro, forse la più grande, torna anche su questo tema, come si vede in Bella alzata d’ingegno questa voglia, che si segnala anche per l’esordio ironico:
Bella alzata d’ingegno questa voglia
che ha il sole di far vedere le cose.
I colori che vedi non esistono.
La spiaggia, il golfo, gli ombrelloni, il mare,
soltanto radiazioni, una foresta
di segnali che gli occhi ricompongono –
– cioè il cervello, che crea il mondo
e appena nato ne ha già nostalgia.
Non più la foresta di simboli di Baudelaire, ma una foresta di impulsi che il cervello tenta di decodificare, ovviamente come può. Eppure…
questo giorno di sole vale quanto
un’intera dottrina della luce.
La “dottrina della luce” è tema della poesia di p. 27, uno dei testi più alti del libro, che ragiona sulla dialettica luce/buio in definitiva facendone un parallelo della morte e della vita. Nell’esperienza biografica di ognuno di noi, la ricerca dell’infinito, anzi, degli infiniti, si scala sui diversi “stadi del cammino dell’esistenza”, quasi kierkegaardianamente, fra fisico e morale, fino a che si ascolta il proprio sangue bruciare, fino a che ci si sente crescere addosso le ossa, e poi quando le ossa «non crescono | più». Entra qui in gioco un “sentimento del tempo” che è ovviamente dolore e definisce la vita, la separazione dall’essere che è l’esserci. La sapienza poetica gioca qui anche, come spesso nel libro, sul livello del significante, se i baci che il poeta sceglie sono «i soli | a cui scaldare le ossa» e «i soli | che serva ricordare»: la doppia parola-rima soli, nel senso di “gli unici”, sembra rimandare (in tema di baci…) anche ai soles catulliani e alla nox perpetua una che ci toccherà dormire, quando le ossa a quei soli non potremo scaldarle più, come conferma la chiusa sulla morte, evocata però in termini trionfalmente coloristici assolutamente opposti: «fino a quando non piova fresca addosso | la morte di moltissimi colori».
Soltanto cinque liriche sono raccolte nella terza sezione del libro, quella eponima. Salerno e Roma si accampano nella breve sequenza, ma il flâneur vaga soprattutto per Roma, aperto a vedere e ad ascoltare: «vedere e ascoltare, nient’altro deve fare il poeta», diceva Pascoli. E la sensibilità pascoliana, trascritta alla vita di città, non sembra assente nella scrittura di Restaino, come sembrerebbe confermare, indirettamente, una gemma incastonata nel testo d’apertura della sezione:
Se, complice del tardo pomeriggio
(quando credi che quello sia l’inizio)
ti fermi e ascolti il suono del quartiere
‒ dei bambini che giocano a pallone;
le griglie che si accendono ai balconi;
un abbassarsi di saracinesche –
ritornerà all’inizio di ogni estate
un triplice singulto cavo d’anfora,
massime nello iato tra due macchine
che comunque già passano più rare:
il breve breve lunga della tortora
da chissà quale albero a chiamare;
e il vento che risoffia qui dal mare.
Eppure non si vede solo un albero.
Fra notazioni visive e uditive, la perizia anche fonica del poeta non sarà tanto quella della rima baciata inclusiva in quasi-explicit (chiamare:mare) quanto piuttosto quella dello spunto che trascrive sulla pagina il richiamo delle tortore, nella forma di un piede anapesto della metrica classica (breve-breve-lunga), inserito a sua volta nello iato (altro termine anche metrico) del passaggio di due auto: tracce forse di un dialogo con uno dei poeti più raffinati del secondo Novecento, Giorgio Orelli, che in una poesia intitolata Abano Terme (in Il collo dell’anitra), “posava sulla pagina” lo stesso “oggetto sonoro”, interpretandolo però come una sequenza breve-lunga-breve allusa con il tecnicismo metrico («il silenzio delle tortore | che urlano i loro anfibrachi penosi).
Roma, si diceva, si accampa, nella sua estate afosa, nel suo “mezzogiorno perenne”, nel penultimo testo della sezione, il più esteso. Qui il verso si distende in una sorta di lassa, dove agli endecasillabi si intrecciano frequentemente i settenari, mentre al tono dominante si accostano frequenti spunti ironici nella descrizione della vita rilassata della capitale. Se è vero che, come dicono a Napoli, Aùst’ è cap’ ’e viern’ («Agosto è l’inizio dell’inverno»), non si poteva esprimere più icasticamente questo passaggio di stagione che rimanda al primissimo verso del libro: A ferragosto inizia la discesa. Ma il buio lungo che dà il titolo appunto alla prima sezione ritorna anche qui, nel trionfo dell’estate perenne, come ammonisce il testo lungo che chiude la sezione: un “poemetto” che, diversamente dal precedente, è ambientato in un paesaggio campestre, tellurico, adriatico, forse pagano, forse parodicamente “dannunziano”, dove si muove insieme alle greggi un’umanità transumante e involontariamente trasumanante, e nel quale l’io si inserisce con la consapevolezza dell’antropologo ma anche con la partecipazione di chi è membro di quella comunità.
La sezione finale, Gli archeologi, può leggersi come un poemetto unitario, a dispetto dell’alternanza di testi singoli raggruppati in microsequenze, con titoli autonomi. Il noi, già presente nelle precedenti sezioni in alternativa all’io, qui diventa in pratica esclusivo. Nume tutelare del “diario dello scavo” è Voltaire, o meglio, il suo busto, riaffiorato come uno zombie (certamente con qualche memoria del Panglosse del Candide devastato dalla sifilide) dalla buca scavata da una bomba che si lega all’immaginario bellico di cui si è detto per uno dei primi testi del libro, come si legge nella chiusa della poesia di p. 45. La statistica è il male del secolo, o dell’evo moderno, ossia quella “scienza” che dimostra, come si legge nella poesia successiva, nelle parole stesse dello zombie-Voltaire che parla come un ventriloquo, che la nostra è una «“società felice fatta di individui | infelici, non conta che capiscano”» (un tema, si sa, anche leopardiano).
Ma non credevi ritornasse in vita
da non morto, prendendo la parola,
e ora ti indica collerico e ti accusa
fissandoti con l’occhio che gli resta;
furente spiegherebbe che il progresso
non si dà senza istruzione né coscienza…
Per zittirlo devi sparargli in testa.
Tragica attualità di questi versi, soprattutto perché vengono da un umanista, nel lucido ritratto che fanno di un illuminismo tradito, che ha lasciato un mondo sconvolto. Segnati a dito da chi passa, nella successiva sequenza di sei poesie, tutte raccolte sotto il titolo eponimo della sezione, gli archeologi sono impegnati, se non a definire sé stessi, il che è impossibile, almeno a fornire le coordinate del proprio lavoro ai curiosi: riportare alla luce oggetti, vite, in un sottinteso discorso di stampo materialista che equipara la sorte delle cose, travolte dall’alterna vicenda della materia, ai depositi di umanità adamantina che si raggruma nelle segrete museali come nei sostrati del terreno («dentro c’è così tanta umanità, | densa come il carbonio nel diamante»: un tema destinato a “inverarsi” nel testo finale del libro). Si legga la sequenza elencatoria, ipnotica, quasi folle nella sua aspirazione onnicomprensiva:
Un rovello ci assilla: dove sia
tutta la materia degli oggetti
esistiti sulla terra. Tutti i vestiti,
tutti i piatti, ciascuna delle sedie,
i tavoli di ognuno che è vissuto,
e le loro scarpe. Tutte le stoviglie,
la biancheria dei letti e i letti,
le assi dei solai e le tegole dei tetti,
i legni dei bastoni, i mozzi delle ruote
e le ruote dei carri, i ferri delle zappe.
Tutte cose, e tracce, di vite più certe, in definitiva, nel loro essere consacrate ormai al passato, di quelle presenti e vive.
Poetiche del frammento, si legge nella terza poesia della serie, un altro dei testi capitali del libro, con riferimento ai resti, ai frustuli, alle sopravvivenze millimetriche, che lo studioso contemporaneo tenta di ricostruire o decifrare, e il poeta Restaino, che è tutt’altro che un “frammentista”, di testimoniare. Rivedere, ricostruire il mondo che non c’è più, è un vederlo per speculum et in aenigmate, a partire da quei resti, ma nel pieno senso storicistico, senza alcun approdo a visioni trascendenti o a inveramenti postumi di vite ultraterrene. Il fatto, dunque, ancora storicisticamente inteso, e alluso con l’immagine della grotta illuminata dal fuoco, che se certamente rievoca le testimonianze dell’arte rupestre non può non alludere, ma anche in questo caso senza valenze “iperuraniche”, al mito platonico, interpretato come chiave del limite gnoseologico di ogni ricerca storica che ricostruisce la vita di esistenze che c’erano davvero e che però noi non vedremo. Il dubbio sull’esistenza di ciò che è esistito, e sul come di quell’esistenza, introdotto in chiave ironica attraverso il divertito ma terribilmente serio monologo di Michela, sfocia poi nella poesia successiva, Infiniti significanti ovunque, in un potente ritorno appunto alla rete dei significanti, che forse, in definitiva, come la rosa pristina del noto esametro di Bernardo di Cluny, sono i soli nomina che possiamo afferrare. La prospettiva, più al di là di ogni tesi o moda decostruzionista, è quella di una dissoluzione completa del senso, di un’esplosione che, nella sua incomunicabilità, nella sua illeggibilità, non cesserà però di essere il cimento, e il tormento, degli uomini:
Alla angolare, divaricata A
seguirà comunque per necessità
la generosa, sinuosa omega
che intenderemo figura di scrittura senza fini,
letteralmente senza testo, forma
di forme, patologia della comunicazione,
lingua franca di ogni fine,
destituita di ogni senso.
Ci saremo sempre noi a leggerla,
ne faremo un tormento.
Ancora una volta, l’allusione evangelica, l’alfa e l’omega di Cristo cui il testo allude, sembra spogliata di ogni significato salvifico, di ogni pretesa di chiudere il cerchio della Storia con l’approdo all’eternità: l’unica eternità pare quella del nostro esserci e del nostro tormento, della nostra ansia di decifrazione del mondo e delle sue lingue.
I tre testi conclusivi, fra i più estesi, portano a compimento diverse delle linee di riflessione del poeta. In Teoria dei labirinti lo spazio, «semplicemente connesso», e ancora i fatti, in un mondo descritto in forma di giardino di «siepi sempreverdi a spire secolari», fanno da sfondo alla percezione di una presenza altra che è però solo dedotta, con ritorno sul tema già trattato: la poesia si chiude su un’intensa rievocazione dell’infanzia dell’io, forse l’unica così esplicita nel libro, che però ancora una volta menziona l’azione crudele del tempo, o addirittura l’intervento di non precisati nemici che potrebbero aver turbato volontariamente, per dispetto, quei percorsi labirintici che l’io bambino percorreva per gioco, assistito dal sorriso indimenticabile del fratello maggiore, mago o demiurgo quasi mitico, come sembrerebbe indicare l’uso prezioso della parola che rimanda al mito cretese («l’entratauscita dai dedali | che costruiva per farmi divertire»). L’affondo nel tempo mitico dell’infanzia, tutto personale e privato, prepara la catabasi catacombale, la Catafilia. La catacomba occultata sotto la vita di tutti, ignari, «proprio sotto | il traffico degli altri, il loro niente | rovinante verso ulteriore niente», diventa una “capsula del tempo”, conservata e da scavare, a dispetto dello scavo maggiore e ben più devastante, forse ancora quello del tempo, o della Storia, che è alluso, con potente immagine anche sonora, nel «basso ininterrotto | che proviene da ogni direzione». La conclusione della lirica, ancora una volta in una dimensione di pieno e abbracciato materialismo, prepara il testo successivo:
Le immagini dipinte si sfarinano –
– osserva, gli effigiati siamo noi.
Se già a p. 50, infatti, il poeta alludeva al cortocircuito storico, oltre che memoriale, secondo cui, in una dimensione di pieno ribaltamento, «noi saremmo loro | e loro noi», ecco che il testo finale pienamente invera la prospettiva: il Materiale fossile scavato ed esposto nel museo siamo in definitiva noi, come è sancito, ancora una volta in virtù di una connessione testuale, dal ritorno del verbo sfarinare. La voce del noi è mutata, l’identificazione è ora piena e magica: chi parla sono le due terrecotte, maschile e femminile, appena scavate. Forse violate nel loro sonno, le due figurine rimarranno per sempre esposte, nella loro incredulità, agli occhi del lettore, oltre che a quelli dei visitatori del museo:
terrecotte bloccate in due gesti
indipendenti e coordinati:
io indico incredulo te
tu indichi incredula il cielo.
Con accenti quasi shakespeariani ma virati al giocoso («Ma quindi sora morte era dormire | sodo dopo una sbornia»), la voce maschile si rivolge teneramente alla sua compagna: «E ti dà noia essere esposta in un museo? | Il tuo sonno era più calmo sottoterra | vista golfo, o messo in scena sotto teca? | Dove pensi di essere più utile, più viva?». Più utile, più viva dov’è, l’arte antica, la persistenza dei mondi caduti? Alla fine, come la stessa voce conclude, sottolineando una volta di più l’incommensurabile distanza fra vita e vita ricostruita, esposta, studiata: «Niente che ci riguardi veramente, | niente che conti per il mondo». Ma la conclusione della lirica, e del libro, semina, con l’immagine floreale consegnata alla mano della donna ma sempre nella rievocazione immemoriale dell’uomo, una nota di sapore quasi elegiaco, o forse oraziano (lenesque sub noctem susurri…), che ci suggerisce l’ipotesi che questo libro sia anche un canzoniere d’amore:
Intanto
negli interstizi fra i blocchi di pietra
sbocciano piccoli fiori selvatici
che succhiano la storia da dentro –
prosperano tra frammenti di specchio,
gli stessi che hai seminato nel foro
nella speranza di rivederci domani,
fossimo pure mostri o fatti a pezzi.
Immagine di copertina: Foto di Serge Taeymans su Unsplash
L’articolo «Esiste tutto quello che è passato?» proviene da ytali..