
Che il nuovo papa provenga dal quarto paese con il maggior numero di cattolici al mondo, dopo Brasile, Messico e Filippine, non dovrebbe stupire. Se non si trattasse degli Stati Uniti d’America. Il pontefice non può essere figlio di una superpotenza: era un dogma fino alla vigilia del conclave. Che poi l’ha smentito con l’elezione di Bob Prevost. Paradossalmente avrebbe avuto ancora validità, se alla Casa bianca ci fosse il cattolico Joe Biden. Se è avvenuta, è certamente perché il neoeletto papa non è in sintonia con chi comanda oggi a Washington. Si direbbe, anzi, proprio per questo.
A parti rovesciate, l’ascesa al trono di Pietro del porporato di Chicago ricorda l’elezione del primo presidente cattolico negli Usa, agli inizi degli anni 60. La candidatura di John Kennedy era considerata impensabile allora, in un paese a granitica egemonia protestante. Il candidato democratico era ritenuto inaffidabile. In quanto cattolico, si sosteneva, avrebbe preso ordini dal papa e la sua elezione avrebbe segnato la fine della separazione tra stato e chiesa. Fu eletto, grazie anche ai voti della comunità nera, in maggioranza protestante, in marcia per i suoi diritti, con il sostegno del candidato cattolico.
Il pensiero che il papa possa essere in filo diretto con lo studio ovale; e che quindi il successore di Francesco possa prendere ordini da Trump, poteva essere solo nella testa del presidente repubblicano, che un po’ si è trastullato nell’idea dell’elezione di un cardinale americano in sintonia con le sue idee. Fino a proporre se stesso. E facendo girare la voce di una donazione di 14 milioni di dollari all’esangue Santa Sede.
Ma, non fosse stato chiaro da che parte stava l’agostiniano futuro papa, l’aveva fatto sapere lui stesso con il suo account X, ripostando – a ridosso del conclave – articoli che rilanciavano sue posizioni molto critiche nei confronti del vicepresidente JD Vance e dello stesso presidente Trump, a proposito delle crudeli politiche sull’immigrazione, condite dalla pretesa del neoconvertito Vance che esse abbiano anche un fondamento cristiano.
La distanza palpabile da Washington è stata avvertita immediatamente nell’esclusione di ogni accenno alla sua lingua madre nel suo primo discorso dal balcone, quando l’ex missionario in Perù ha parlato in spagnolo dopo l’italiano. Scelta che non è passata inosservata nella destra troglodita che sostiene il presidente. Newsmax, Fox e altri media conservatori hanno ruggito contro pope Leo. In diretta da Roma su NewsMax, un giornalista ha detto che un papa “americano” che non parla nella sua lingua è “inquietante”. Qualche minuto dall’insediamento e Steve Bannon tuona contro Leone – “la peggiore scelta per i cattolici Maga, è un anti-Trump” da parte “dei globalisti che governano la curia, è il papa che Bergoglio e la sua cricca volevano”. Con Bannon tutto il pollaio Maga starnazza contro il papa woke e marxista.
Il divario dall’attuale amministrazione e dal mondo che lo circonda e lo sostiene è dunque la premessa di questo pontificato. Un divario a cui corrisponderà il tentativo da parte progressista di trovare una connessione con Roma. Così, in senso opposto rispetto ai tempi di Kennedy, sarà l’America a cercare un filo diretto e perfino continuo con il Vaticano. Se il fronte Maga già bestemmia, i democratici vedono in Leone il “rivale globale” di Trump a cui fare riferimento, e con loro anche settori moderati del Partito repubblicano, a cui peraltro Bob Prevost era registrato come elettore in diverse elezioni.
Trump fa andare i suoi nell’attacco al nuovo pontefice e nel frattempo gli invia parole amichevoli: “È un grande onore sapere che è il primo papa americano. Che emozione e che grande onore per il nostro Paese. Non vedo l’ora di incontrare papa Leone XIV. Sarà un momento molto significativo!”. Parla come un politico, Trump, non come capopopolo. Non è uno scontro ideologico. Il voto dei cattolici, che ai tempi di Kennedy contava poco, oggi è determinante in molti collegi elettorali. Trump ne ha attirati la maggioranza dalla sua parte, nelle ultime presidenziali, anche grazie a un episcopato prevalentemente schierato sul fronte repubblicano.
Che succederà dopo quello che è indubbiamente il successo del fronte progressista nello scontro che da tempo divide i vescovi americani? Le prossime elezioni di medio termine, tra un anno e mezzo, saranno investite dal vento romano? La stessa domanda – in un inevitabile effetto domino – investirà tutto l’Occidente, alle prese con il sovranismo rampante, contro cui ha combattuto lo scomparso pontefice sudamericano e contro il quale, in modo diverso, forse più smussato non per questo meno deciso, s’impegnerà il suo successore nordamericano.
il manifesto
L’articolo L’ombra lunga del cupolone su Washington proviene da ytali..