
1945: l’ingresso nell’era atomica
Non dimenticherò mai quando vidi quei sopravvissuti che scendevano dal treno, che arrivarono da Hiroshima. Erano terribilmente sfigurati, bruciati. Sembravano fantasmi […] Oggi dedico la mia vita a parlare ai bambini, nelle scuole, racconto loro dell’esperienza della bomba atomica e ricordo loro l’importanza di creare la pace.
Queste parole sono tratte da un’intervista all’ottantanovenne Keisaburo Toyonaga, uno degli ultimi hubakusha ancora in vita, che negli anni è sopravvissuto a due forme di cancro estremamente aggressive. Gli hubakusha, secondo la traduzione letterale dal giapponese, «quelle persone (sha) che sono state colpite (hi) dal bombardamento (baku)», sono i sopravvissuti e le sopravvissute di Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto del 1945. Sono i testimoni del momento più tragico dell’ingresso del mondo nell’era atomica, poche settimane dopo il test di Alamogordo, quello che Giorgio La Pira definì il «crinale apocalittico della storia». Un passaggio violento che non solo mise una pietra tombale sull’ultimo atto della tragedia della Seconda guerra mondiale, ma che aprì la strada alla corsa termo-nucleare, alla logica della deterrenza, all’eliminazione del vecchio dettame di von Clausewitz secondo cui la guerra sarebbe la naturale estensione della politica, generando i presupposti della Mutually Assured Destruction (MAD) che avrebbe segnato la lunga stagione della guerra fredda e questi primi tre decenni di transizione post-bipolare e di crisi del multilateralismo.
Questa intervista fa parte di un documentario in uscita in occasione dell’ottantesimo anniversario del lancio delle due bombe atomiche sul Giappone, dal titolo simbolico: Libro delle ombre. Un film diretto dal regista napoletano Giuseppe Carrieri nell’ambito di un progetto di ricerca e didattica innovativa sostenuto dall’Istituto buddista italiano “Soka Gakkai” con il supporto della Rete italiana degli atenei per la pace e del Centro di ricerca Cultura e scienza della sostenibilità dell’Università IULM. Un progetto originale affidato a un cineasta sensibile, già autore di opere come In utero Srebrenica e La leggenda dell’albero segreto, che si muove lungo coordinate del tutto opposte rispetto al magniloquente blockbuster Oppenheimer di Christopher Nolan del 2023, un film roboante e potente, ma anche ambiguo nella ricostruzione storica della vita del fisico Robert Oppenheimer, basata sulla biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin, e nel sostegno alla tesi dell’ineluttabilità della bomba.
Come nei capolavori di Akira Kurosawa, Sogni e Rapsodia d’agosto, nel Libro delle ombre lo sguardo passa dalla parte delle vittime, un tempo bambini, figli di un impero macchiatosi di enormi violazioni dei diritti umani durante il conflitto mondiale, nella gestione della sfera di co-prosperità asiatica del nazi-fascismo. Bambini inconsapevolmente travolti dall’apocalisse atomica autorizzata dal presidente Truman e destinati a un futuro marcato da quell’evento, come ricorda la signora Reiko Yamada, che aveva 11 anni quando la bomba cadde su Hiroshima e si trovava a circa due chilometri dall’epicentro:
Noi hibakusha viviamo costantemente, ancora oggi, con l’ansia per gli effetti delle radiazioni causate dalle armi nucleari. Ma questo non riguarda solo noi, temiamo che degli effetti possano ancora soffrire le seconde e le terze generazioni. Quest’angoscia per noi non avrà mai fine.
La lunga folle corsa
Tra i testimoni diretti dell’esplosione di Hiroshima vi era anche il gesuita basco Pedro Arrupe, al tempo maestro di novizi nella provincia giapponese. Al momento dell’esplosione, alle otto del mattino, stava celebrando la messa a Nagatsuka, un sobborgo di Hiroshima quando fu sconvolto da una luce al magnesio e venne scaraventato al suolo dall’onda d’urto. La sua ricostruzione del «lago di fuoco» che investì la città, provocando almeno 90.000 vittime (salite a oltre 200.000 negli anni a venire), del fungo atomico e della corsa in soccorso ai feriti e agli ustionati (Arrupe era un medico) sarebbe apparsa anni dopo in un libricino intitolato Yo viví la bomba atomica[1]. La maturazione del silenzioso ma costante impegno per la pace del futuro (dal 1954) provinciale del Giappone e (dal 1964) preposito generale della Compagnia di Gesù prese le mosse proprio da quella tragedia.
Come ha scritto Mandelbaum, trattando l’evoluzione della «questione atomica» tra il 1945 e il 1976, in quei decenni molti si sono chiesti come agire e come comportarsi, «cosa doveva essere fatto», pochi però si sono domandati perché ciò fosse avvenuto[2]. Questo avvenne non solo a causa della censura che segnò tutta la prima fase della corsa nucleare, rimuovendo il tema della radioattività dal dibattito intorno alla «grande bomba». Censure e rimozioni che, intrecciandosi alle logiche emergenti della guerra fredda, alle paure estremizzate del maccartismo e dello stalinismo e alla loro sublimazione cinematografica, alle guerre di spie, al dualismo nucleare bellico/atomo di pace, all’evoluzione strategica dal Roll Back alla Rappresaglia massiccia, durarono almeno fino alla grande esplosione termonucleare di Bikini del 1° marzo 1954: l’operazione Castle Bravo, con la deflagrazione di una bomba da 15 megatoni. Le pin up raffigurate come Atomic Girls avrebbero cominciato a declinare solo di lì a poco (chi oggi chiamerebbe un costume da bagno Fukushima?). L’era atomica aveva infatti cambiato in profondità i rapporti tra politica, scienza e opinione pubblica e ci volle l’appello di Albert Einstein e Bertrand Russell per svelare l’arcano e riportare l’attenzione sul rischio radioattivo come priorità dell’era termonucleare e per dar vita a nuove forme di mobilitazione non partitica come quella della Campaign for Nuclear Disarmament britannica (CND) o la rete internazionale di scienziati nata attorno alle Conferenze Pugwash.
Dopo lo Sputnik tutto cambiò, con l’ingresso del mondo nell’era missilistica, l’accelerazione di test e sperimentazioni, il potenziamento delle bombe, l’avvio della proliferazione nucleare. Solo dopo la grande paura generata dalla crisi di Cuba dell’autunno del 1962 si sarebbe potuti arrivare, grazie anche alle nuove forme di pressione dell’opinione pubblica, alla firma del Limited Test Ban Treaty di Mosca dell’agosto 1963 con cui si sospendevano le sperimentazioni nucleari nell’atmosfera, nello spazio cosmico e sottomarino. Venivano quindi vietati gli esperimenti più pericolosi ma anche più facilmente individuabili dagli strumenti di controllo dei materiali radioattivi sparsi nell’aria. Mentre si chiudeva una pagina della storia della corsa nucleare si apriva il capitolo della proliferazione che nemmeno il trattato del 1967, la Flexible Response e la cosiddetta diplomazia di pace avrebbero frenato, con l’approdo all’arma atomica, dopo Stati Uniti (1945), Urss (1949), e Regno Unito (1952), della Francia, con la Force de Frappe di De Gaulle (1960) e, a seguire: Cina (1964), India (1974), Pakistan (1998) e Corea del Nord (2006), oltre a Israele che non ha mai ufficialmente riconosciuto di detenere ordigni atomici, ma che secondo la Agenzia internazionale per l’energia atomica potrebbe possederli fin dagli anni Settanta.
2025
Dal 1963 molta acqua è passata sotto i ponti: si sono firmati importanti accordi (SALT e START), è finita la guerra fredda, si sono registrati incidenti atomici in centrali per il nucleare civile (Three Miles Island nel 1979, senza vittime, Černobyl 1986, 65 vittime ufficiali, alcune migliaia secondo l’ONU, Fukushima 2011, una vittima ufficiale 186.000 sfollati) e la paura nucleare è uscita e rientrata negli immaginari con una certa intermittenza. La lancetta del Doomsday Clock (l’orologio della mezzanotte) del “Bulletin of Atomic Scientists” ha continuato ad oscillare, seguendo l’andamento delle crisi geopolitiche e la tenuta dell’impianto multilaterale. Nell’indifferenza mediatica generale, alla fine del 2024 è arrivata a 89 secondi dall’apocalisse nucleare. Nel calcolo compare non solo la tenuta degli arsenali, ma anche la presenza di guerre formali e non, il cambiamento climatico, l’irrefrenabile corsa tecnologica (gli scienziati inseriscono anche la cosiddetta intelligenza artificiale tra le potenziali disruptive techonologies). L’ultimo report dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) calcola in 12.121 le testate nucleari attualmente in dotazione alle nove potenze atomiche, 9.585 già stoccate in depositi militari pronti all’uso, 3.904 già disposte su missili interbalistici e bombardieri, statunitensi, russi e cinesi[3].
A discapito delle cangianti logiche della deterrenza e del mutamento dei sistemi di difesa, giocare alla guerra continua ad essere particolarmente pericoloso nell’era nucleare e il tema della triangolazione scienza-politica-opinione pubblica è tornato alla ribalta in termini inediti dopo il covid-19, in una stagione segnata dallo sfilacciamento di alcune istituzioni democratiche anche nel mondo occidentale. L’attenzione al tema da parte delle nuove generazioni torna ad essere decisiva, come nei primi anni Sessanta. Tra i testimoni del Libro delle ombre c’era anche un hibakusha “in utero” (nel ventre materno) al momento dell’esplosione della bomba di Hiroshima, il signor Tanaka Futagawa. Naturalmente non può ricordare gli eventi, ma ha vissuto sulla propria pelle la loro eredità, nel breve e nel lungo periodo, come ha confidato nell’intervista al regista: «La parola pace in giapponese (heiwa) deriva dal termine taira che significa piatto, uniforme. Ed è proprio quello che continuo a sognare ancora oggi: un mondo senza divisioni violente o barriere razziali». Ed è forse solo da lì che può ripartire una vera cultura di pace.
[1] P. Arrupe, Yo viví la bomba atómica, Ediciones Mensajero, Bilbao 2010 (ed. or. Patria, Città del Messico 1965).
[2] M. Mandelbaum, The Nuclear Question, Cambridge University Press, Cambridge 1982.
[3] SIPRI Yearbook 2024: Armaments, Disarmament and International Security, SIPRI, Stoccolma 2024. https://reliefweb.int/report/world/sipri-yearbook-2024-armaments-disarmament-and-international-security-summary-enarruzhukfajpkrsvnlca.
Immagine di copertina: Hiroshima dopo il bombardamento
L’articolo Un libro di ombre e luci accecanti proviene da ytali..