
Già quarant’anni da quella folle notte di fine maggio del 1985, quando Juventus e Liverpool si giocarono a Bruxelles la finale di Coppa dei Campioni nel più assurdo e irreale dei contesti.
Quarant’anni, e ci torna in mente la telecronaca di Bruno Pizzul, l’interminabile pre-partita e la necessità di descrivere senza retorica lo scempio che avevamo sotto gli occhi e del quale nessuno capiva nulla, anche perché all’epoca non esistevano i telefonini ed era impossibile, in quella bolgia, mettersi in contatto con qualcuno.
Quando scriviamo la parola Heysel, non c’è bisogno di aggiungere altro. I trentanove tifosi juventini (tra cui sette stranieri) vittime della furia degli hooligans inglesi, aizzati da un ex combattente della guerra per il possesso delle Malvinas-Falkland, il crollo della Curva Z di uno stadio talmente obsoleto che le gradinate si sgretolavano sotto i piedi del pubblico, la necessità di disputare comunque l’incontro per ragioni di ordine pubblico, il discorso dei due capitani prima del fischio d’inizio, la classe inimitabile di Scirea anche in un contesto di dolore e di morte, l’esultanza eccessiva, e quasi sguaiata, di Platini dopo il gol su rigore che valse l’agognata coppa ai bianconeri, le polemiche di Candido Cannavò, all’epoca direttore della Gazzetta, che al ritorno della squadra chiedeva giustamente alla Juve di nascondere il trofeo, il clima surreale prima, durante e dopo e le polemiche, un mare di polemiche, per un’organizzazione sommaria e sbagliata, per l’inerzia delle forze dell’ordine, per la mancanza di vie di fuga adeguate, per lo strapotere dei teppisti e dei violenti a danno delle persone perbene e per l’ingiustizia di una morte di classe, come spesso è la morte in guerra, e quella indubbiamente lo era: di questo stiamo parlando. A venire schiacciati, infatti, furono dei poveri cristi, in molti casi provenienti dal Sud: gente che aveva investito i propri risparmi per acquistare un biglietto e pagarsi una trasferta che ci si aspettava gloriosa, dopo l’amarezza patita due anni prima ad Atene contro l’Amburgo di Magath, e invece si rivelò tragica.
La Juve, del resto, ha sempre avuto questa caratteristica: è la squadra dei padroni ma è tifata in particolare dagli ultimi, da quei meridionali emigrati al Nord in cerca di fortuna, da coloro che durante la settimana gridavano: “Agnelli, l’Indocina ce l’hai nell’officina!”, ma la domenica si recavano al Comunale a sostenere le furie degli anni Settanta, capaci di vincere cinque scudetti in un decennio e di perderne uno in maniera rocambolesca. All’epoca dei fatti, era la squadra degli operai colpiti dalla Marcia dei Quarantamila ma, nonostante questo, incapaci di disamorarsi di una squadra che comunque li faceva sognare. In quel maledetto catino belga, come detto, sono morti loro, hanno pianto loro, hanno pagato loro ed è grave che qualcuno esulti di fronte a una simile barbarie o, peggio ancora, ne auguri una riedizione a chicchessia. Non sorprende, però, perché quella notte di tarda primavera ci ha cambiato per sempre. Ha cambiato il nostro modo di pensare e di vivere, il nostro rapporto con lo sport e con le grandi passioni civili, ci ha reso più fragili e divisi, ha minato le nostre certezze ed è penetrata nella carne viva di un’Italia già allora “volgare e gaudente”, negli anni apicali del craxismo, dell’edonismo reaganiano e della signora Thatcher, artefice di politiche anti-sociali che ebbero un ruolo non secondario nello scatenarsi della furia del proletariato inglese che sugli spalti trovava il proprio sfogo.
Oggi quello stadio si chiama Re Baldovino e non è più lo stesso, per fortuna, ma la tristezza rimane, l’amarezza pure e con esse il senso di sconforto. Sappiamo, difatti, che quel 29 maggio ’85 costituisce uno spartiacque: c’è stato un prima e un dopo, e il dopo è quello che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.
Quella coppa non esiste, non è stata mai vinta, non ha senso. La Juve farebbe bene a toglierla dalla bacheca e, come suggeriva Cannavò, a nasconderla. Diciamo che si è trattato di un adempimento burocratico, di un modo per evitare di aggiungere altri morti, di un dramma nel dramma e della sconfitta collettiva di un sistema incapace, almeno in Italia, di riformarsi.
L’Heysel è, dunque, un urlo che dura da quarant’anni: l’urlo di un’Italia smarrita e in cerca di una speranza e di un domani. Non avremo, tuttavia, né l’una né l’altro fino a quando non faremo i conti con noi stessi e con la nostra deriva: la disfatta di un popolo che, a differenza degli inglesi, non ha saputo guardarsi allo specchio, non riuscendo a rinnovarsi, a rilanciarsi e a fare squadra, preferendo al contrario affidarsi alle singole individualità. Così siamo rimasti indietro in tutti i sensi, a cominciare dagli stadi, e quel monumento all’orrore rimane lì, ignorato dai più, invocato dai fessi e scolpito nella memoria di chi c’era e non potrà mai dimenticare.
Heysel, un abisso nel quale siamo tutti colpevoli. Trentanove vite spezzate ci chiedono ancora di ricordarle con i fatti e non solo con parole di circostanza che ormai suonano ipocrite.
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