
Gli esseri umani altro non sono che un’ennesima risorsa,
come i missili, i carri armati e gli elicotteri. Quando sono morti, perdono valore.
Pertanto, proprio come succede con elicotteri o carri armati,
l’esercito russo è felice di lasciarli lì. Non contano più.
[Romain Fathi]
Quasi un milione di soldati russi uccisi o feriti durante l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. A stilare il bilancio è uno studio – rilanciato dalla Cnn all’inizio di giugno – pubblicato dal Center for Strategic and International Studies (CSIS), un think tank di Washington, D.C. Secondo le stime, in linea con le valutazioni dell’intelligence britannica e statunitense, questo dato potrebbe raggiungere quota un milione proprio quest’estate. Sempre stando allo studio, “nessuna guerra sovietica o russa dalla Seconda Guerra Mondiale si è avvicinata, in termini di tasso di mortalità, a quella in Ucraina.”
Naturalmente i primi a pagare il prezzo di questa carneficina sono gli ucraini, vittime di crimini di guerra e sottoposti quotidianamente a un’operazione di annientamento chirurgico che minaccia la loro identità, la sovranità territoriale del loro Paese e la loro esistenza stessa.
Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che anche in Russia, escludendo i mercenari e coloro che volontariamente hanno aderito alla cosiddetta “operazione militare speciale”, molti cittadini non hanno avuto realmente la possibilità di scegliere, considerata la natura totalitaria del regime putiniano. Parliamo, ad esempio, dei coscritti mandati al fronte senza addestramento o equipaggiamento, dei cittadini delle aree dell’Estremo Nord e dell’Estremo Oriente attirati da benefici finanziari che possono fare la differenza per le comunità e le famiglie più povere e, in seconda battuta, dei detenuti e delle truppe nordcoreane.
È noto il “palese disprezzo” di Putin verso i suoi soldati, considerati carne da macello. Più interessante, invece, è delineare i meccanismi di costruzione di una narrazione ad hoc, benedetta da Chiesa Russa Ortodossa e Stato, che in questi anni ha cercato di trasformare la morte per la patria in un culto, un obiettivo da raggiungere per rendere significativa la vita.
Del resto, come sosteneva già all’inizio del 2023 il giornalista e conduttore televisivo Vladimir Solov’ëv, noto volto della propaganda putiniana, “la vita è altamente sopravvalutata […] Vale la pena di vivere solo per qualcosa per cui si possa morire, così dovrebbero stare le cose. Stiamo combattendo contro i satanisti. Questa è una guerra santa e dobbiamo vincerla.” Secondo quanto riportato da The Hill, dopo l’intervento del propagandista gli ospiti presenti in studio, annuendo in segno di approvazione, hanno ricordato che un tempo i russi erano soliti vivere giorno per giorno, ma adesso hanno “sogni immateriali” e “obiettivi elevati”, ossia la guerra. Ancora Solov’ëv: “Perché temere ciò che è inevitabile? Soprattutto quando ci aspetta il paradiso. La morte è la fine di un percorso terreno e l’inizio di un altro.”
Nel suo saggio L’ultimo spettacolo lo studioso Gian Piero Piretto evidenzia che
un nuovo e preoccupante culto della morte per la patria, molto vicino a quello impostato sulle morti sacrificali dei rivoluzionari sovietici negli anni Venti e addirittura tristemente evocante ideologie naziste, ha preso piede nella Russia di oggi. Meschino tentativo di giustificare le vittime del conflitto e le operazioni di reclutamento a tappeto di soldati.
Peraltro, al culto della morte, secondo Piretto, si affianca anche la politica di negazione dei decessi che porta il Cremlino a minimizzare il bilancio delle vittime tra i soldati. Una tattica che serve non solo a fingere che sia tutto sotto controllo, negando la morte stessa, ma anche a ridurre drasticamente i risarcimenti da riconoscere alle famiglie i cui cari sono stati uccisi al fronte, ricorrendo alla notifica di “disperso sul campo di battaglia”.
L’idea delle “morti giuste” ritorna, dunque, nell’immaginario e nella società russa, contrapposta a quelle “inutili e banali di chi soccombe per vodka o altro.” Un concetto che Putin ha ribadito fin dal primo anno di guerra nel corso di alcuni incontri con le madri dei coscritti mobilitati, cui ha ricordato che le vite dei loro figli erano prive di significato prima di andare in guerra, invitandole a gioire della loro morte eroica.
Secondo Svetlana Stephenson, docente di Sociologia alla London Metropolitan University, queste affermazioni denotano una mancata comprensione da parte di Putin della cultura e della tradizione russe in quanto tale concetto è estraneo alla cultura stessa del Paese che ritrae “la madre di un soldato morto come una figura inconsolabilmente tragica”. Anche durante le guerre cecene, ricorda sempre la Stephenson, era riconosciuto il diritto delle madri di tentare di salvare i figli e l’atteggiamento rispettoso mostrato al tempo dalle autorità militari nei confronti del Comitato delle Madri dei Soldati ne è la prova.
Il concetto di madre che gioisce per la morte del figlio è tratto dall’ideologia nazista, in cui le donne sono rappresentate come procreatrici di figli richiesti dallo Stato. Secondo quanto riportato da Ksenia Turkova, giornalista e linguista,
il rettore della chiesa della grande martire Varvara, Michail Vasil’ev [Ndr: Vasil’ev è stato ucciso in Ucraina nel 2022], ha affermato che se le donne dessero alla luce più figli, sarebbe più facile per loro lasciarli andare in guerra contro l’Ucraina. ‘Per natura, il Signore ha permesso a ogni donna, nella maggior parte dei casi, di poter dare alla luce molti bambini. Se non ricorressero a interruzioni della gravidanza, avrebbero più di un figlio. Quindi, non sarebbe così doloroso e tremendo per loro separarsi da lui’.
E questa malìa per la morte e la guerra, in un Paese la cui società civile è ormai ridotta al silenzio, tra violenza e repressione, sembra trovare un’eco incontrastata nell’ambito dell’apparato putiniano. “La guerra è vittoria, la guerra è un’amica, la guerra è amore”, così l’ha definita una funzionaria di mezz’età nel corso di un incontro rivolto a giovani ragazzi e ragazze. Già nel 2022 Stephenson rilevava che “il carnevale di violenza che per anni ha permeato i media russi controllati dallo Stato negli ultimi mesi ha lasciato il posto a un nuovo tono di solennità e a richiami all’eroismo nazionale.” Il tutto accompagnato da interminabili discussioni da parte dei propagandisti putiniani sulla distruzione delle città in Ucraina o sull’uso di armi nucleari.
Anche il clero ortodosso ormai benedice da anni i carri armati, mentre incoraggia i soldati a difendere con la propria vita la patria.
Secondo Alexander J. Motyl, docente di Scienze Politiche alla Rutgers University-Newark, la Russia è caratterizzata da una lunga tradizione che prevede il ricorso alla violenza incontrollata e all’utilizzo del proprio popolo come pedine sacrificabili. La sua storia lo dimostra: si pensi, solo per citare alcuni esempi, alla Moscovia che si espanse in Siberia annientando le popolazioni locali e la loro cultura oppure la Russia imperiale che adottò le medesime strategie in Bielorussia, Ucraina, Caucaso del Nord e Asia centrale. La nascita dell’Unione Sovietica portò ai GULag, all’Holodomor in Ucraina e agli stermini del terrore staliniano.
L’era putiniana, che fu inaugurata con la seconda guerra cecena (nella concezione del regime si trattava sempre di un’“operazione antiterrorismo”), non è da meno.
Secondo la sociologa russo-americana Dina Chapaeva, citata sempre da Piretto, la Russia contemporanea è ritornata a “forme di neomedievalismo (monumenti e culto per figure come Ivan il Terribile) e alla rivalutazione della figura di Stalin. “Questa”, secondo Chapaeva, “è nostalgia per una società di classe, paternalismo e terrore come forma di governo. Il neomedievalismo nega i valori fondamentali della democrazia e dei diritti umani.” E la “ristalinizzazione”, per usare le parole di Chapaeva, “è stata e rimane la pietra angolare della politica storica russa negli ultimi quindici anni a causa dell’enorme ruolo che il mito della Grande Guerra Patriottica ha svolto nel consolidare il sostegno al regime al potere.” A tutto questo si sono aggiunti il costante appello a “un passato idealizzato” e manipolato e la necessità di rivitalizzare le ambizioni imperiali, in un contesto di crescente militarizzazione della società.
Come ricorda nel saggio La Pace russa Adriano Dell’Asta, docente di Lingua, Cultura e Letteratura Russa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, nei suoi interventi Putin rimanda regolarmente “come modello della propria pratica governativa alla politica di potenza di Alessandro III (con la sua idea di una grandezza esclusivamente militare della Russia)”, rifacendosi poi alle teorizzazioni di Ivan Il’in che nel 1933, sottolinea Dell’Asta, all’indomani dell’ascesa al potere di Hitler “faceva un’apoteosi del nazionalsocialismo che appare oggi davvero paradossale” visto che questo autore viene poi indicato come “nume ispiratore” proprio da coloro che nel 2022 hanno giustificato l’invasione dell’Ucraina in nome della lotta contro il presunto neonazismo di quest’ultima.
Secondo l’analisi di Riddle, il culto trionfale della guerra di Putin, ereditato da Brežnev, si concentra proprio sulla vittoria del 1945, tralasciando ovviamente l’elevato tributo di sangue che pure emerge tra una crepa e l’altra del regime. E per sanare questa vulnerabilità è fondamentale per lo Stato che non sia minato in alcun modo il culto della vittoria imposto dal Cremlino in cui si riafferma, peraltro, il tema dell’eroismo. In questo processo la Chiesa Ortodossa è un alleato fondamentale, come ha dimostrato sin dagli anni Novanta.
Il Professor Dell’Asta riprende le teorie di Padre Kirill Hovorun che era in netto contrasto con il patriarca Kirill. Hovorun è convinto che, durante i primi due mandati, Putin non avesse davvero una sua ideologia. “Non era un visionario, […] gli interessava arricchirsi, e vendere bene gas e petrolio. Ai suoi occhi la Russia non era altro che un grosso distributore di gas.” Ed è proprio in questa fase che la Chiesa Ortodossa ha offerto a Putin una nuova visione per il progetto imperiale, “una concezione, il linguaggio, gli ha ispirato questa megalomania.” E la stessa ideologia originaria del Russkij mir, elaborata negli anni Novanta da alcuni politologi liberal russi, era stata capovolta proprio dalla Chiesa. Dunque, le idee della Russia erano divenute così importanti che si rendeva necessario “diffonderle alla periferia, in modo da farla entrare nell’orbita di Mosca. È un’idea imperiale: diffondere l’influenza politica della Russia attraverso le idee. Creare una nuova realtà politica attraverso il cosiddetto soft power.” E visto che la Chiesa di Mosca è transnazionale (si estende alla Bielorussia, all’Ucraina e agli spazi ex sovietici), si è proposta come canale per la diffusione di queste idee. In sintesi, si tratta dell’ideologia del Russkij mir in versione ecclesiastica.
In tale contesto, nel Ventesimo secolo persino il concetto di martirio, che tipicamente appartiene alla sfera religiosa, viene secolarizzato, trasformando le vittime di atrocità e conflitti militari del passato in martiri.
Il martirio, come sostiene Ekaterina Klimenko su Riddle, consente di “trasformare la sconfitta in vittoria e il trauma in trionfo”, manipolando, all’insegna del politicamente utile, la memoria collettiva, soprattutto quando si tratta di eventi dolorosi della storia russa. Se la morte violenta, dunque, è rappresentata come “nobile” e “romantica”, il martirio le conferisce un senso. Spesso, infatti, sono i politici a usare il linguaggio del martirio, ma nel caso russo è la Chiesa stessa a politicizzare il linguaggio. Ed è questa la peculiarità.
Klimenko sottolinea che le cerimonie commemorative annuali della Chiesa Ortodossa, in cui si intrecciano la Divina Liturgia con una parata e la preghiera con una marcia, costituiscono un connubio tra cristianesimo ortodosso e militarismo. È interessante notare come nei suoi sermoni il patriarca Kirill oscuri le differenze, certamente molteplici, tra martirio religioso e morte in guerra. “La morte di massa, involontaria e brutale in battaglia, ha poco in comune con il sacrificio individuale, volontario ed estatico di un martire”.
E descrive coloro che morirono nella Grande Guerra Patriottica come martiri, “martiri del patriottismo anziché del cristianesimo ortodosso.” Se per i martiri la sofferenza conduce alla salvezza, per i soldati porta alla vittoria e “maggiore è la sofferenza, più grandioso è il trionfo”. In tale ottica, la morte non costituisce un problema. Nel contempo, la patria, che sia l’Unione Sovietica o la Federazione Russa, viene celebrata come un’entità per cui vale la pena soffrire o morire visto che i soldati dell’Armata rossa morti durante la Grande Guerra Patriottica sono i martiri della Russia di oggi.
Secondo questa interpretazione, anche il trauma si trasforma in trionfo. Essendo compatibile con il culto della vittoria, tale lettura consente di affrontare la questione del costo umano che la guerra impone, collegando l’eroismo bellico alla salvezza spirituale e descrivendo la guerra come eroica, gloriosa e nobile. Esaltando il sacrificio della vita per il proprio Paese sul campo di battaglia, rende la guerra accettabile, se non auspicabile. E l’obiettivo è raggiunto: la guerra di aggressione contro l’Ucraina viene giustificata usando il ricordo della Grande Guerra Patriottica.
È opportuno sottolineare, tuttavia, che l’attivismo mnemonico della Chiesa non è un fenomeno collegato solo al presente. La cooperazione tra Chiesa e Stato è salda anche in ambito militare e ha portato a un processo di militarizzazione dell’ortodossia russa e di sacralizzazione del militarismo. Tuttavia, l’interpretazione, nell’ottica del martirio, della Grande Guerra Patriottica affonda le radici nella visione tradizionale che la Chiesa ha del passato nazionale russo, una visione che unisce spiritualità e militarismo. È in questa tradizione, più che nella politica contingente, che risiede la forza del progetto mnemonico della Chiesa Ortodossa.
L’alleanza tra Stato e Chiesa Ortodossa risulta ancora più strategica a fronte di un’opinione pubblica abbastanza secolarizzata. Secondo un sondaggio del Levada Center del 2023, il 72 per cento degli intervistati si considera ortodosso,ma solo il 40 per cento ritiene che la religione abbia un ruolo importante nella sua vita, mentre il 45 per cento si considera religioso. Il 43 per cento degli intervistati non partecipa alle funzioni religiose, mentre il 12 per cento vi partecipa con una certa regolarità (almeno una volta al mese).
Tali dati sono certamente degni di nota. Tuttavia, è opportuno evidenziare che le autorità hanno impostato un discorso pubblico che si sofferma molto sull’identità religiosa come pilastro della vera Russia e spinge i cittadini verso la religione insistendo più sul concetto di “adesione culturale e patriottica”, in chiave antioccidentale, che sul concetto di “fede”. L’essere ortodosso diventa, dunque, una dichiarazione di appartenenza più che un impegno spirituale. Seppur la partecipazione ai riti ecclesiastici sia un elemento importante, lo è ancora di più la percezione da parte del cittadino della religione come parte dell’identità russa. La Chiesa è custode dell’identità collettiva e dei valori tradizionali, i medesimi valori che è lo Stato, in primis, a valorizzare, ad esempio, in ambito educativo e formativo, in campo mediatico, come dimostra l’ampio spazio dedicato dai mezzi di comunicazione alla Chiesa Ortodossa, ai suoi riti o alle dichiarazioni dei suoi esponenti, e in ambito istituzionale, come testimonia la riforma della Costituzione del 2020 che ha previsto l’introduzione della fede in Dio nel testo o la definizione di un unico modello di matrimonio, ossia l’unione tra uomo e donna. Non dobbiamo dimenticare l’impegno del Governo nel promuovere la costruzione di nuove chiese, seppur, talvolta, la scelta dei siti sia oggetto di dibattito all’interno delle singole comunità.
In questo processo Putin non è più soltanto il Presidente, ma è considerato il difensore della fede cui va il merito di aver ripristinato il ruolo della Russia come protettrice della fede ortodossa e di aver sostenuto la rinascita dell’Ortodossia e la ricostruzione della Chiesa nel Paese. Dunque, lo Stato sacralizza se stesso attraverso il linguaggio e l’ideologia religiosi, la Chiesa diviene un’istituzione politica (o un “dicastero statale”, secondo alcuni teologi in disaccordo con il patriarca) che sostiene Stato, guerra e identità russa.
Ma tale visione ideologica, tra culto della morte, della guerra, della vittoria e del martirio, ha determinato un impatto sulla popolazione russa? Putin conosce il proprio popolo e sa anche che nelle campagne, nelle periferie e nelle province forse questi richiami possono far presa, come accadeva con i cittadini sovietici omologati che credevano nel “buon zar” e nei “cattivi boiardi”. Ora la colpa ricade sui “cattivi quadri intermedi” e, ovviamente, sull’Occidente collettivo, privo di valori e desideroso di sottomettere la Russia. Quasi una forma di convincimento autoconsolatorio per illudersi che, pur stando in condizioni di completa povertà, la Russia sia ancora in grado di riscattarsi conservando la dignità.
All’inizio dell’invasione erano in molti a credere che le vedove e le mogli dei soldati (soprattutto i giovani coscritti) si sarebbero ribellate, come fecero negli anni Novanta per la guerra in Cecenia. E, in effetti, a settembre del 2022 lo zoccolo duro delle proteste a livello nazionale era composto proprio da questa categoria. Ma ben presto, sia per il dolore sia per la consapevolezza della feroce repressione in atto da parte delle autorità, il movimento di protesta è diventato marginale.
È emerso, dunque, un altro tipo di dissenso: quello patriottico. Secondo quanto riportato da The Moscow Times, le vedove e le mogli dei soldati sono molto attente a protestare, presentandosi come un gruppo di donne leali e patriottiche e, soprattutto, a differenziarsi da altri attivisti quali, ad esempio, quelli della Feminist Anti-War Resistance o da altre figure dell’opposizione.
In pratica, secondo Jenny Mathers, docente presso l’Aberystwyth University in Galles, stanno agendo come Navalny, ma mettendo in atto strategie diverse, ossia utilizzano le leggi dello Stato e gli impegni assunti da quest’ultimo per chieder conto delle sue azioni e considerarlo, dunque, responsabile. Ed è una strategia che in alcuni casi, soprattutto quando sono coinvolti i coscritti, si è rivelata efficace.
A tale proposito, è opportuno ricordare il caso della madre di Aman Malyshev, originario di Jakutsk (città situata nel nord-est della Siberia), mandato a Ussurijsk, città dell’Estremo Oriente, per completare l’addestramento militare obbligatorio. La famiglia, dopo lunghe ricerche (era stato dichiarato disperso), è venuta a conoscenza della sua morte a Bryansk, vicino al confine con l’Ucraina. Aman, che non aveva firmato alcun contratto, rientra tra i tanti coscritti uccisi in combattimento, coscritti che, secondo le promesse del Cremlino, non avrebbero dovuto neanche trovarsi in quelle aree. La posizione della madre di Aman è stata chiara fin dal principio: non desidera che la loro storia sia usata per screditare il governo o per istigare le persone a ribellarsi contro le autorità. Vuole solo che i responsabili per la morte di suo figlio siano puniti, cercando di aiutare lo Stato a venirne a capo. Nessuno sa se questa strategia funzionerà: sicuramente non porterà al crollo del regime, ma è un piccolo passo per far sentire la propria voce. Intanto la minoranza che resiste, di cui abbiamo parlato proprio sulle pagine di questa Rivista, non si arrende e prosegue il suo percorso.
In questo contesto di tanatizzazione della società, cui si assiste ormai da anni, è condivisibile la riflessione dello storico Andrej Zubov:
Putin cerca di mettere al posto del ‘mondo russo’ la guerra russa, e così facendo ha demolito il ‘mondo russo’ e molto molto altro, nello spazio della ‘Russia storica’ che dice di amare tanto… Come per tutto il resto, Putin è il becchino del ‘mondo russo’.
Le immagini dell’articolo sono tratte dal sito ufficiale del Presidente della Russia
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