
Nel giorno in cui l’Italia celebra il 79º anniversario dello storico Referendum sulla forma istituzionale dello Stato del 2 giugno 1946 che sancì la nascita della Repubblica, il Paese si prepara a un nuovo appuntamento con la democrazia diretta: l’8 e il 9 giugno 2025, i cittadini italiani – inclusi i residenti all’estero – saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi. I primi quattro quesiti riguardano i diritti del lavoro, mentre uno – quello sulla cittadinanza – rappresenta una potenziale svolta storica sul piano culturale e sociale, non soltanto su quello giuridico. La proposta mira a dimezzare da dieci a cinque anni il periodo di residenza anagrafica ininterrotta richiesto per i maggiorenni con passaporto extra-UE che desiderano fare richiesta di cittadinanza italiana. Si tratta di una modifica attesa per decenni che potrebbe finalmente rappresentare un passo significativo verso il riconoscimento di milioni di persone che vivono, studiano e lavorano in Italia e pagano le tasse.
Il Referendum del 1946: un precedente storico
Così come il 2 giugno 1946 rappresentò un momento di emancipazione popolare e la prima volta in cui anche le donne furono pienamente coinvolte nelle dinamiche elettorali, oggi siamo di fronte a una nuova occasione di partecipazione democratica di portata storica. “Ogni voto è una voce, ogni voce può fare la differenza” – si legge nei materiali diffusi dai comitati referendari.
Nel 1946 il voto popolare condusse alla nascita della Repubblica e all’elezione di un’Assemblea Costituente, a conclusione di un complesso periodo di transizione segnato dalle azioni di movimenti e partiti antifascisti e dall’avanzata degli alleati in un Paese diviso e devastato dal regime fascista e dalle due guerre mondiali. Dopo decenni di esclusione, di lotte clandestine e battaglie coraggiose, milioni di persone entrarono nelle urne e cambiarono la storia del Paese.
Nel 1946, quando gli italiani, e per la prima volta le cittadine italiane, furono chiamati/e alle urne per scegliere tra la Repubblica e la Monarchia oltre a eleggere i deputati e le deputate della futura Assemblea Costituente alla quale sarebbe spettato il compito di redigere la nuova carta costituzionale, l’affluenza al voto fu altissima tanto che in alcune province arrivò a sfiorare il novanta per cento degli aventi diritto. Questi ultimi erano all’epoca 28.005.449 e i votanti furono 24.946.878, pari all’89,08 per cento. I voti validi furono 23.437.143, di questi 12.718.641 (pari al 54,27 per cento) si espressero a favore della Repubblica, 10.718.502 (pari al 45,73 per cento) a favore della Monarchia.
Quel gesto, semplice e rivoluzionario, aprì una strada nuova: quella della partecipazione, dell’uguaglianza, della piena cittadinanza piena attraverso uno strumento di democrazia diretta come quello del referendum che è stato proposto da allora in altre 24 volte consultazioni, prevalentemente su temi legati ai diritti civili, e che permette di segnare ancora oggi, attraverso il voto, un futuro diverso.
Quasi ottanta anni piu tardi, questa volta l’8 e 9 giugno, saremo chiamati a votare su temi cruciali: lavoro e cittadinanza.
Una nuova stagione di partecipazione
tra disincentivazione e responsabilità individuale
In occasione della tornata referendaria 2025, diversi partiti, in particolare tra le forze di governo, sostengono anche esplicitamente attraverso i mezzi di comunicazione e le circostanze istituzionali il “diritto a non recarsi alle urne” o addirittura a ritirare le schede senza esprimere alcuna preferenza, con l’obiettivo di far fallire il raggiungimento del quorum (pari al cinquanta per cento più uno degli aventi diritto al voto) e, di conseguenza, determinare la bocciatura automatica di tutti i referendum, senza nemmeno entrare nel merito dei quesiti proposti. Tale posizione, tuttavia, non rappresenta un vero rifiuto dei quesiti referendari – per il quale sarebbe necessario recarsi ai seggi e votare “NO” – bensì trasmette ai cittadini un messaggio molto più grave: la scelta dell’astensione come modalità di boicottaggio e la demonizzazione della partecipazione politica. La conseguente rassicurazione da parte di coloro che incentivano l’astensione rimanda a una delega in pieno ai partiti che si assumono l’intero carico decisionale aspettandosi dall’elettorato soltanto la conferma delle preferenze nominative e scoraggiando esplicitamente quella sui contenuti e sulla dimensione prettamente politica delle proposte, come nel caso dei quesiti sulla riforma della cittadinanza e dei diritti del lavoro. Un simile atteggiamento rischia per svuotare progressivamente di significato tanto lo strumento referendario quanto il valore stesso della partecipazione democratica e della cittadinanza attiva.
La cittadinanza italiana oggi:
un sistema da riformare?
In Italia, la normativa sulla cittadinanza è ancora oggi ancorata alla legge n. 91 del 5 febbraio 1992 e rispecchia una realtà demografica e sociale ormai superata imperniata sullo ‘ius sanguinis’, ovvero sulla trasmissione della cittadinanza per discendenza da almeno un/a cittadino/a italiano/a o “diritto di sangue”, indipendentemente dal luogo di nascita, e sulla naturalizzazione a seguito di almeno dieci anni di residenza anagrafica ininterrotta (cinque per rifugiati e apolidi). Lo ‘ius soli’ (diritto di suolo) è previsto solo in casi eccezionali, come per i figli di genitori apolidi o sconosciuti nati in Italia.
Diversamente dalle affermazioni propagate dai mezzi di comunicazione di massa in merito a presunti “regali di cittadinanza” secondo la definizione alla quale ricorrono diversi esponenti politici, in realtà il quesito proposto dai comitati referendari propone semplicemente la riduzione del tempo minimo di dieci anni (legge n.91 del 1992) per le persone di cittadinanza extra-europea che desiderino presentare la domanda per la cittadinanza italiana (e che posseggano tutti i requisiti in ogni caso richiesti dalla legge) in maniera tale che possano farlo dopo cinque anni di regolare residenza. Questo era, tra l’altro, già previsto dalla legge n.153 del 13 giugno del 1912 del Regno d’Italia che all’articolo 4 recitava: «La cittadinanza italiana, comprendente il godimento dei diritti politici, può essere concessa per decreto reale, previo parere favorevole del Consiglio di Stato: … allo straniero che risieda da almeno cinque anni nel Regno…».
Occorre, inoltre, tenere conto del fatto che la mera presentazione della richiesta di cittadinanza non equivale all’ottenimento: possono trascorrere in media dai due ai tre anni prima che il procedimento si concluda, e che quindi gli anni diventano sette o otto, anziché cinque, oltre al fatto che i requisiti richiesti a coloro che aspirano a presentare la domanda non cambieranno con il referendum, neanche qualora dovesse prevalere il “SÌ”. Il cittadino munito di passaporto extraeuropeo deve sempre presentare la sua fedina penale sia del paese di origine, se espatriato dopo i quattordici anni, che del paese di arrivo, deve dimostrare redditi sufficienti al proprio mantenimento e a quello della propria famiglia, deve fornire tutti i documenti vidimati e asseverati presso le autorità italiane in grado di attestare le sue generalità e la composizione del nucleo famigliare e deve continuare ad avere una congrua conoscenza della lingua italiana.
Si tratta di un primo, piccolo passo, ma non sufficiente, verso una società che possa garantire una maggiore inclusione sociale insieme ad appropriate prospettive di vita per quanti contribuiscono allo sviluppo del Paese e si vedono costantemente negato l’accesso alla cittadinanza.
Il Decreto Cittadinanza:
una stretta sui diritti
Nel frattempo, lo scorso 20 maggio è stato convertito in legge il «decreto cittadinanza», DL 36/2025, in forza del quale la cittadinanza italiana non si trasmette più automaticamente ai nati all’estero – discendenti da italiani – in possesso di altra cittadinanza, ma solo a quanti hanno almeno un genitore o un nonno italiano. Nel corso del dibattito politico che ne ha preceduto l’approvazione è stato sostenuto a più riprese che la cittadinanza italiana non possa essere “regalata” ai discendenti italiani “di sangue” che non hanno più legami linguistici né culturali con l’Italia da intere generazioni e che probabilmente non li hanno mai avuti, che non pagano le tasse né contribuiscono direttamente alla crescita economica del Paese. Dunque se agli stranieri che parlano italiano, lavorano e pagano le tasse in Italia si nega la cittadinanza perché non hanno “sangue” di origine italiana nelle vene, mentre ai discendenti italiani si nega la cittadinanza perché il loro sangue non è ritenuto sufficientemente “italiano”.
Le norme vigenti in prospettiva europea
e la situazione dei minori stranieri
nati o cresciuti in Italia
Basandosi sull’analisi del quadro normativo attuale, delle proposte di riforma e del confronto con altri Paesi europei, la legge italiana sulla cittadinanza, basata sul principio dello ‘ius sanguinis’, risulta oggi anacronistica rispetto alle normative del resto del continente. Le restrizioni attuali penalizzano soprattutto i minori stranieri nati o cresciuti in Italia, che si trovano a vivere nel Paese senza godere dei pieni diritti di cittadinanza. Il referendum del 2025 rappresenta dunque un’opportunità concreta per avviare finalmente un principio di riforma attesa da decenni, con l’obiettivo di rendere il sistema attuale, che non può più reggere alla prova del tempo, più equo e inclusivo. Tuttavia, l’esito del referendum e le eventuali modifiche legislative future dipenderanno dalla volontà politica e dalla capacità di costruire un consenso ampio su questo tema cruciale per il futuro del Paese.
Uno dei punti essenziali della potenziale riforma riguarda i diritti delle persone minorenni nate in Italia da genitori stranieri che allo stato attuale non acquisiscono automaticamente la cittadinanza italiana, anche se nate e cresciute nel Paese. Secondo la legge 91/1992, possono richiederla solo al compimento dei 18 anni, a condizione di aver risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia fino a quel momento. Tuttavia, se non presentano la domanda entro i 19 anni, devono intraprendere un lungo percorso burocratico, che richiede almeno dieci anni di residenza legale, spesso aggravato da ulteriori criticità nel processo amministrativo e da rilevanti difformità su base territoriale. Coloro che per qualsiasi motivo perdono la ‘finestra’ di dodici mesi per presentare la domanda si ritrovano infatti in un percorso amministrativo lungo e tortuoso, dagli esiti e tempistiche caratterizzati da ambiguità e incertezze.
Conoscendo approfonditamente le storie di coloro che hanno dovuto affrontare tali percorsi burrascosi, i rappresentanti di campagne storiche come “L’Italia sono anch’io”, “L’Europa sono anch’io”, “Dalla parte giusta della storia” e movimenti come “Italiani senza cittadinanza” denunciano da anni l’urgenza di una riforma e nel corso degli anni sono emerse diverse proposte di presentazione di eventuali “iniziative dei cittadini europei” (ICE) su questo tema per poter agire a livello transnazionale in prospettiva europea.
Come anticipato, il quadro normativo attuale non tiene dunque conto dell’esperienza di bambini e adolescenti con background migratorio che vivono in Italia, frequentano le scuole e condividono la quotidianità con i coetanei italiani, ma senza godere degli stessi diritti.
Secondo dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito, circa il 65 per cento degli studenti stranieri nelle scuole italiane è nato in Italia. Si tratta tutta via di persone che non hanno accesso alla cittadinanza fino alla maggiore età, e solo se soddisfano i requisiti sopra menzionati.
Questi ragazzi e questi giovani parlano italiano, vivono interamente esposti alla cultura italiana e condividono sogni e aspirazioni con i loro coetanei. Il mancato riconoscimento giuridico della loro identità alimenta frustrazioni e rischia di creare conflitti identitari, tanto che molti di loro sono spinti a dover scegliere tra appartenenze imposte dall’esterno senza tener conto delle esperienze reali di vita e di crescita, soprattutto nei casi in cui durante l’infanzia non è stata maturata alcune conoscenza diretta di altri territorio geografico al di fuori di quello italiano ma si viene costantemente associati a quelli della cittadinanza dei propri genitori.
Un primo passo verso una maggiore
equità e inclusione europea
Le norme italiane sulla cittadinanza sono tra le più restrittive di tutto il continente. In molti altri Paesi dell’Unione europea, i figli di genitori stranieri possono acquisire la cittadinanza meno tortuoso e maggiormente allineato con le esigenze della mobilità transnazionale odierne, per esempio nei seguenti Paesi:
Belgio: se almeno uno dei genitori è nato in Belgio, le persone minorenni acquisiscono automaticamente la cittadinanza belga dopo il compimento dei 18 anni, ovvero dei dodici anni se i genitori sono residenti nel Paese da almeno dieci anni, nonostante le norme sempre più restrittive in corso di introduzione da parte dell’attuale governo De Wever frutto della coalizione Arizona.
Francia: i bambini nati in Francia da genitori stranieri possono acquisire automaticamente la cittadinanza al compimento dei 18 anni, se hanno risieduto in Francia per almeno cinque anni a partire dagli 11 anni di età, ma possono richiederla a partire dai 13 anni, se dimostrano la residenza in Francia dall’età di 8 anni.
Germania: i bambini nati sul territorio tedesco da genitori stranieri acquisiscono automaticamente la cittadinanza se almeno uno dei genitori risiede legalmente nel Paese da almeno otto anni e possiede un permesso di soggiorno a tempo indeterminato.
Portogallo: diventano automaticamente cittadini i figli di genitori stranieri se almeno uno dei genitori è nato in Portogallo e vi risiede, oppure se i genitori che hanno fatto richiesta di cittadinanza vi risiedono da almeno due anni.
Spagna: è in vigore una versione dello jus sanguinis “ammorbidita”, secondo cui diventa cittadino spagnolo chi nasce da padre o madre spagnola oppure chi nasce nel Paese da genitori stranieri di cui almeno uno sia nato in Spagna o ancora chi nasce da genitori stranieri con un anno di residenza legale nel Paese se questi ultimi non trasmettono la propria nazionalità.
La proposta contenuta nel quesito referendario mira dunque ad allineare l’Italia agli standard di altri Paesi europei. La riduzione del tempo minimo per presentare la domanda di cittadinanza a 5 anni rappresenterebbe un passo significativo verso una maggiore inclusione sociale e riconoscimento dei diritti civili e un conseguente allineamento agli standard del resto del continente. Tale intervento non inciderebbe direttamente sugli aspetti amministrativi, ma avrebbe un impatto diretto sulla fase iniziale del percorso riconoscendo la lunga permanenza sul piano dei diritti civili e del conseguente riconoscimento giuridico.
Il referendum del 2025:
una proposta di riforma di impatto continentale
Il quesito del referendum abrogativo per modificare l’articolo 9 della legge n. 91/1992, riducendo da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale richiesto ai cittadini extracomunitari maggiorenni per presentare domanda di cittadinanza italiana avrà conseguenze importanti per le nuove generazioni. Infatti, la riforma prevede che, una volta ottenuta, la cittadinanza venga automaticamente estesa ai figli minorenni dei nuovi cittadini, senza necessità di ulteriori procedure.
La scheda gialla del quesito titola: “Cittadinanza italiana: dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”. In termini prettamente giuridici, quello che si chiede è l’abrogazione di alcune parti della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante “Nuove norme sulla cittadinanza”.
Pur dimezzando il tempo minimo previsto per presentare la domanda da dieci a cinque anni in linea con la maggior parte degli altri paesi europei, resterebbero, come visto sopra, invariati tutti gli altri requisiti: la buona conoscenza della lingua italiana (almeno livello B1), una adeguata capacità reddituale (fissata a un minimo di € 8.263,31 per il reddito individuale, incrementato fino a € 11.362,05 di reddito imponibile in presenza del coniuge a carico e di ulteriori € 516, 00 per ogni figlio a carico), oltre all’assenza di condanne penali gravi e di pericolosità sociale.
Oltre ai partiti Italiani impegnati attivamente per il referendum, tra cui +Europa, Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista, Possibile, il Partito Democratico – PD, i Radicali Italiani [M5S ha invece lasciato libertà di coscienza], il partito paneuropeo Volt Europa ha sostenuto attivamente la consultazione, sottolineando l’importanza dell’accesso alla cittadinanza come un diritto fondamentale e promuovendo la partecipazione informata tanto sui contenuti quanto sulle modalità di voto, in particolare tra gli italiani all’estero. Damian Boeselager, eurodeputato e cofondatore di Volt, ha dichiarato:
La cittadinanza non è solo una questione italiana, ma riguarda tutta l’Europa dato che la cittadinanza nazionale implica anche cittadinanza europea.
Anche Nela Riehl, europarlamentare di Volt eletta in Germania e presidente della Commissione Cultura ed Educazione, ha espresso un sostegno esplicito per il referendum:
Ottenere la cittadinanza non può essere un percorso a ostacoli, costellato di grandi e piccole ingiustizie. Chi nasce e cresce in un Paese europeo, frequentandone le scuole, deve essere riconosciuto come cittadino a pieno titolo.
Nela Riehl tocca un punto fondamentale del problema ovvero la permanenza di un sistema, quello dello ‘ius sanguinis’ che non considera adeguatamente la realtà di molti bambini e adolescenti con background migratorio che, pur essendo nati o cresciuti in Italia, non possono ottenere la cittadinanza in modo autonomo e sono legati allo status dei genitori, nonché sottoposti a costanti fenomeni di discriminazione.
Attualmente, per gli adulti con cittadinanza di un paese terzo all’UE, il processo per diventare cittadini italiani maggiorenni richiede almeno dieci anni di residenza legale e continuativa nel Paese, a cui si aggiungono i tempi per l’esame della domanda e le procedure burocratiche, estendendo l’attesa effettiva a una media di tredici o quattordici anni. Durante questo periodo, i figli minori frequentano le scuole italiane e condividono la vita quotidiana con i coetanei, ma senza godere degli stessi diritti.
Anche qualora la riforma proposta dal referendum venisse approvata, l’Italia rimarrebbe ancora distante da una vera armonizzazione europea. Si tratterebbe, in ogni caso, di un primo passo auspicando nel frattempo un cambiamento strutturale che consenta a chi è nato o cresciuto in Europa di ottenere la cittadinanza con minori ostacoli, promuovendo così un modello fondato sull’uguaglianza e la coesione sociale anziché sull’esclusione sistematica.
L’importanza del referendum
per le nuove generazioni
Secondo le prime stime scientifica sugli effetti del quesito che sarà votato l’8-9 giugno presentate dal Centro Studi e Ricerche IDOS, i potenziali beneficiari della riforma della cittadinanza, secondo l’ipotesi massima, sarebbero 1.706.000, di cui 286.000 minori, basandosi sui soggiornanti extraeuropei titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata già presenti in Italia, dal momento che i cittadini del resto dell’Unione europea possono già richiederla dopo soli quattro anni di residenza. In particolare, i 286.000 bambini e adolescenti acquisirebbero la cittadinanza come conseguenza della naturalizzazione dei genitori. Questo cambiamento permetterebbe loro di partecipare pienamente alla vita sociale e civica del Paese, eliminando barriere burocratiche e psicologiche. Ad esempio, potrebbero viaggiare all’estero con la scuola senza necessità di visti aggiuntivi, accedere in maniera più naturale a programmi come Erasmus e il Corpo europeo di solidarietà, candidarsi per tirocini internazionali anche nell’ambito di attività di istruzione e formazione professionale nelle scuole tecniche e, al compimento dei 18 anni, esercitare il diritto di voto attivo e passivo. Attualmente, molti di questi giovani devono affrontare ostacoli come il rinnovo del permesso di soggiorno, che comporta assenze scolastiche e stress emotivo, oltre alle numerose discriminazioni.
Le disuguaglianze educative legate alla cittadinanza
Secondo lo studio sul pluralismo culturale nelle scuole italiane intitolato “Il mondo in una classe” condotto dall’organizzazione non governativa Save the Children Italia coinvolgendo oltre seimila studenti tra i 10 e i 17 anni in cinque città italiane, il mancato accesso alla cittadinanza influenza negativamente le aspettative educative dei minori con background migratorio. Il 45,5 per cento degli studenti italiani prevede di ottenere un diploma universitario o superiore, contro il 35,7 per cento degli studenti con background migratorio senza cittadinanza. Inoltre, i dati mostrano che il 25,4 per cento degli studenti con cittadinanza non italiana è in ritardo scolastico, contro l’8,1 per cento degli italiani, spesso per ostacoli burocratici o per le conseguenze degli stessi. Queste disuguaglianze si accentuano nella scuola secondaria di secondo grado, dove il ritardo scolastico tra gli studenti stranieri raggiunge il 48,4 per cento.
Gli alunni con cittadinanza non italiana iscritti nelle scuole italiane nel corso dell’anno scolastico 2022/2023 erano 914.860, pari all’11,2 per cento del totale. Di questi, il 65,4 per cento risulta essere nato in Italia. La mancanza della cittadinanza comporta per questi minori ostacoli concreti in particolare la necessità di visti per viaggi scolastici all’estero, e obblighi burocratici come il rinnovo del permesso di soggiorno, che spesso richiedono assenze scolastiche.
Le disuguaglianze nel sistema educativo si rilevano anche e soprattutto nelle prime fasce di età. Solo il 77,9 per cento dei bambini con cittadinanza non italiana frequenta la scuola dell’infanzia, rispetto al 95,1 per cento dei bambini italiani.
Le disparità si riflettono anche nei risultati delle prove nazionali INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) che si svolgono ogni anno per valutare, in alcuni momenti chiave del ciclo scolastico, i livelli di apprendimento di alcune competenze fondamentali in diversi ambiti fondamentali secondo indicazioni standard per diversi livelli. Al termine del primo ciclo di istruzione, il 26 per cento degli studenti di prima generazione privi di cittadinanza italiana non raggiunge le competenze adeguate in italiano, matematica e inglese, una percentuale doppia rispetto agli studenti con cittadinanza italiana o a quelli di altre origini ma di seconda generazione.
La mobilitazione internazionale
e visione europea del diritto di cittadinanza
In diverse città europee e nel mondo, comitati referendari si sono attivati per informare le comunità italiane all’estero. A Bruxelles, Berlino, Londra, Madrid, Helsinki, Tirana e in tante altre città del resto del mondo sono stati organizzati incontri, dibattiti, i “Caffè di Cittadinanza” e presentazioni pubbliche per contrastare l’astensionismo e compensare la carenza di informazione sui canali di massa in merito ai contenuti del referendum e alle conseguenze delle scelte elettorali.
Grazie alla possibilità del voto per corrispondenza prevista per i cittadini temporaneamente domiciliati all’estero per un periodo di almeno tre mesi per motivi di lavoro, studio o cure mediche (purché abbiano presentato apposita istanza al proprio Comune di residenza entro il 32° antecedente il giorno dell’apertura delle urne in Italia), decine di migliaia di italiani all’estero hanno già ricevuto le cinque schede. Trattandosi di un referendum abrogativo, resta sempre valida la possibilità di voto per cittadini italiani residenti all’estero e iscritti all’AIRE, in questo caso entro il 5 giugno 2025.
Il movimento “Italiani Senza Cittadinanza” ha giocato un ruolo chiave nella promozione del referendum, raccogliendo insieme agli altri soggetti del Comitato Referendario oltre 637.000 firme in appena 22 giorni per la presentazione lo scorso mese di settembre 2024, un vero primato nella storia repubblicana italiana. Il referendum è stato promosso da un ampio fronte civico e politico, tra cui oltre al movimento “Italiani Senza Cittadinanza”, il Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane (CoNNGI), Idem Network, e partiti come +Europa, Rifondazione Comunista, Possibile e Radicali Italiani.
Nel corso di un evento di presentazione organizzato lo scorso 30 maggio nella Grand Place di Bruxelles contestualmente alla presentazione del numero 19 della rivista Ossigeno interamente dedicato al referendum sulla cittadinanza, la presidentessa del movimento, Daniela Ionita, ha sottolineato l’importanza di restituire il potere decisionale alla società civile, affermando:
Il referendum comporta la restituzione del potere al popolo. Non a chi sta nei palazzi del potere, ma a chi ogni giorno vive, lavora, studia costruire l’Italia reale e decidere nel merito.
Daniela Ionita ha poi raccontato la genesi del quesito referendario partendo dalle origini più recenti:
L’idea del referendum nasce da un’intuizione un po’ folle. Era estate, faceva caldo, eravamo nel periodo post-Olimpiadi… e ci siamo chiesti come dare una risposta concreta a ciò che avevano titolato molti giornali in quei giorni. Ricordate? Il ministro degli Esteri Tajani esultava: “Grandi i nostri nuovi italiani che ci portano le medaglie d’oro, gli argenti…”. In effetti l’Italia, in questa ultima edizione delle Olimpiadi, ha davvero vinto tantissime medaglie… e molte di quelle sono state conquistate proprio da atleti figli e figlie delle migrazioni.
Tajani, durante l’estate, continuava a ripetere che bisognava pensare alla riforma della cittadinanza. Ma la verità qual è stata? Sapevamo benissimo che, come sempre, non se ne sarebbe parlato seriamente. La riforma era ferma da anni. Ogni tanto tornava timidamente nell’agenda politica, ma era solo un fuoco di paglia. E l’attuale governo non sembra purtroppo avere alcuna intenzione di mettere al centro del dibattito questo tema tanto che i suoi principali esponenti stanno persino scoraggiando la partecipazione al referendum.
A quel punto ci siamo detti: facciamo un gesto simbolico, anche un po’ folle, ma necessario. Dopo tre anni di silenzio, era ora di riportare la cittadinanza nel dibattito pubblico. E per farlo, abbiamo voluto coinvolgere la società civile perché la verità è che la riforma potrà passare solo se c’è un lavoro collettivo e costante, dentro e fuori il Parlamento: con i gruppi parlamentari, certo, ma anche con le associazioni, con tutto il terzo settore e con i movimenti.
Però sappiamo bene che per approvare una riforma serve una maggioranza politica solida. E in passato – nel 2016, nel 2018, nel 2022 – ci sono stati dei tentativi, ma è mancato il coraggio anche da parte di coloro che oggi siedono tra i banchi dell’opposizione. E questo noi non lo dimentichiamo.
Oggi abbiamo il loro sostegno per la fase referendaria, ma ciò che per noi conta davvero è restituire la parola al popolo. Perché è il popolo, la società civile – fatta di studenti, lavoratori, famiglie, cittadini senza cittadinanza – a dover decidere. Il referendum, per noi, è uno strumento tra i tanti per arrivare finalmente a una riforma giusta, condivisa, e necessaria.»
Anche l’artista kurdo Nuri Sen, residente a Bruxelles, ha contribuito alla campagna in tale occasione, creando una delle sue opere d’arte basate sui libri antichi per sostenere la causa della cittadinanza e sottolineando l’importanza della dignità e della libertà nella lotta per i diritti civili:
Nella storia dell’umanità, tutte le lotte sono state lotte per la dignità. Le battaglie politiche nascono da un desiderio profondo di vivere con dignità, con libertà, con umanità.» – ha dichiarato Sen, spiegando che «I giovani oggi lottano ovunque – in Italia, in Kurdistan, in Serbia, in America Latina – perché vogliono vivere liberi. Non vogliono essere schiavi, non vogliono vivere nella povertà o in condizioni miserabili. L’umanità merita di vivere con condizioni degne. Ecco perché resistiamo. La lotta non è un hobby, non è un piacere: è una necessità.
Vi faccio un esempio molto importante in materia di cittadinanza negata. Venti anni fa, quando mi chiedevano da dove provenivo io spiegavo che ero curdo e arrivavo dalla Turchia, ma la gente rideva. Mi rispondevano: ‘I curdi non esistono, non siete nessuno!’. Ci deridevano, ci umiliavano in continuazione. Ma oggi, quando dico che sono curdo, la gente ci ascolta, ci riconosce, ci rispetta. Il mondo ha sentito parlare della lotta del popolo curdo grazie alla nostra resistenza. Oggi dico con fierezza: ‘Sono curdo’ e lo dico ovunque io vada.
Non è stato affatto facile, ma abbiamo avuto la forza della nostra politica, della nostra cultura, della nostra arte. Io sono sempre stato impegnato nella lotta per il Kurdistan, ma non solo. Mi interessa anche l’Italia, l’Europa e le lotte in corso nel mondo intero. Ho realizzato una delle mie opere anche per gli studenti serbi quando sono arrivati a Bruxelles alla fine della loro ultramaratona.
Sono solidale con tutte queste battaglie perché penso che solo in un mondo davvero democratico possiamo tutti respirare e sperimentare la libertà e la democrazia. Sono davvero felice di essere qui con voi oggi. Quando ho saputo che in Italia c’era un movimento attivo per la democrazia e per il diritto alla cittadinanza, sono venuto subito. E ho preparato questo libro commemorativo per sostenere la vostra campagna in occasione del referendum.
Il referendum sulla cittadinanza rappresenta davvero un’opportunità concreta per riconoscere i diritti di milioni di persone che vivono, studiano e lavorano in Italia e un passo significativo verso una società più inclusiva e giusta. È fondamentale che tutti coloro che ne hanno diritto partecipino attivamente a questa consultazione referendaria, consapevoli dell’importanza che essa riveste per il futuro del Paese e per la costruzione di una comunità più coesa e rappresentativa della sua molteplicità e realtà di fatto.
Come nel 1946, oggi più che mai, la cittadinanza passa per il referendum e per la partecipazione al voto, in piena coscienza.
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